|
Da "Umanità Nova" n. 6 del 17 febbraio 2002
Porto Alegre
Carnevale politico globale
"Carnevale politico globale" è forse la
definizione più calzante che ho sentito pronunciare sul II Forum Sociale
Mondiale di Porto Alegre da poco conclusosi. Non inganni la definizione, di
Joshua Karliner (CorpWatch), tutto sommato simpatetica con una manifestazione
che ha visto tra le 50mila e le 70mila persone radunarsi in una città al
richiamo di una sorta di "turismo politico globale", tipico di questi ultimi
anni, di una sorta di festa permanente, complice la prossimità con il
carnevale brasileiro, di una sorta di vertice di intelligenze politiche in
cerca di soluzioni alternative, da un lato, e di visibilità mediatica
che sia in grado di accumulare consensi in tanti corpi e menti di immense
quantità di persone il cui vissuto a Porto Alegre deborda senza dubbio
le sessioni ufficiali del FSM.
Già si preannunciava una kermesse che fosse suscettibile di attirare i
media di tutto il mondo in alternativa ad un Wef quest'anno molto dimesso al
Waldorf di New York, tra l'altro assediato da migliaia di manifestanti in una
Manhattan devastata dall'11 settembre e faticosamente in via di ripresa. Il
successo mediatico è però realmente un successo in vista della
costruzione di un altro mondo?
L'interrogativo non è dettato dall'invidia, a scanso di equivoci; cosa
si può costruire di alternativo utilizzando a piene mani quella
spettacolarità della società ormai innervata nella vita
quotidiana, e che questo genere di movimento tutto sommato moderatamente
riformatore intende usare a mo' di spallata, regredendo rispetto alle analisi
lucide e stringenti di Debord? E quale spallata dare se il piano di azione del
Forum e dei tanti incontri "turistici" globali serve per rinvigorire
autoreferenzialmente i partecipanti, ma con scarso legame con la pratica
quotidiana di radicamento sociale che sola può attivare pratiche di
resistenza e di progettualità alternativa?
L'impressione di uno stacco tra evento e quotidianità è leggibile
in modo palese nel deludente Appello conclusivo dei lavori del II FSM. La
"lista della spesa" presenta i soliti ingredienti ormai risaputi in un ordine
di esposizione alquanto dimesso. Il Forum non riconosce nella politica il
terreno su cui si articolano le strategie criminali economiche e militari,
bensì moralisticamente li attribuisce ai malefici esponenti di una
élite capitalista finanziaria globale, come se quella industriale invece
fosse passibile di considerazione più magnanima (chiedete agli indiani
di Bhopal)...
E tuttavia i ceti dominanti, le istituzioni politiche di dominio risultano i
grandi assenti dall'Appello finale, come se lo stato fosse ormai un nostalgico
ricordo dalla cui idea ripartire per ovviare alle distorsive patologie del
capitalismo finanziario. Nemmeno la guerra permanente distoglie il tono
moderatamente riformatore delle conclusioni dall'assumere la questione politica
- la statualità come unica forma inclusiva dell'organizzazione delle
società, che inducono a mimare la verticalità delle sue
istituzioni pure nei movimenti che ad esse proclamano di opporsi (effetto
Mühlmann, diceva Lourau) - al centro dello sfondamento che ormai i tanti
temi correttamente individuati come effetti fisiologici di un sistema di
dominio di sterminio planetario (ambientale, umano, economico) inciterebbero a
porre.
Indubbiamente, quest'anno il FSM è stato molto più ambiguo del
solito, data la presenza di tante delegazioni di partiti della sinistra
storica, tremendamente istituzionali se non proprio di governo, e che governo,
visti i danni in Europa del socialismo francese e dell'Ulivo italiano! Il fatto
di ritenere tale presenza un arricchimento in senso allargante dell'opposizione
sociale al verso del mondo, difficilmente è interpretabile solamente nel
senso di una ingenuità infantile dura a morire in un ceto ascendente in
cerca di visibilità e di prestigio da spendere sul tavolo della
concertazione politica con le istituzioni. Probabilmente, essi sperano che il
numero, realmente impressionante, delle iniziative locali e planetarie - anche
in Italia, ormai solo i cosiddetti no-global riescono a portare in piazza
migliaia e migliaia di persone narcotizzate dalla politica istituzionale, anche
se solo per giocarsele sul tavolo dei media e degli equilibri entro i
partiti... - riesca a convincere la sinistra storica e istituzionale a
spostarsi su posizioni autonominatesi antagoniste, anche se in realtà
sembrano essere abbastanza moderate, sia nel linguaggio sia nelle strategie di
contenimento dei poteri forti: emblematico è il fatto che la parola
d'ordine in tutto il mondo sembra essere l'instaurazione di una tassa per i
ricchi, come se a incassarne i frutti siano i poveri, e non i ministeri, i
capitoli di bilancio, il paniere complessivo degli stati occupati manu militari
da quei ricchi-e-potenti ai quali si intende prelevare qualche soldo rubato e
depredato per tutta la superficie del pianeta. Peccato che nessuna garanzia
è prevista per i miliardi di individui che non avendo accesso al cibo,
all'acqua, all'istruzione, alla sanità, non sono nemmeno in grado di
firmare il modulo per richiedere l'istituzione della Tobin Tax!
Tanti politici e politicanti hanno condizionato, voglio sperare, l'alone che
emana l'Appello finale, con una serie di scadenze planetarie fatte apposte per
rinsaldare una catena di speranza e di resistenza che scavalca a piè
pari le specificità locali, le quali scompaiono a fronte del lavoro
organizzativo necessario per prepararsi a quelle scadenze globali da far
proprie a casa propria, secondo una logica che va dal grande al piccolo, in una
sorta di federalismo del cerchio di lotte... al rovescio.
Certo, le contraddizioni cominciano a venire al dunque, se anche Hebe de
Bonafini ha manifestato qualche disagio, se José Bové si è
lamentato della presenza di governanti che lo perseguitano in patria e
all'estero, se qualcuno ha notato una certa insofferenza verso chi non si
adeguava rigidamente allo stile unico di Porto Alegre, sia pure manifestando in
parallelo o cercando di apportarvi un détournement tanto improvviso
quanto ereticheggiante rispetto al programma deliberato. Certo le
contraddizioni sono tali se qualcuno le fa pesare non in vista di movimenti
tattici di posizionamento leggermente diversificato dentro tale galassia,
quanto se sui contenuti si fanno emergere altre ipotesi di lettura, altre vie
da battere, altre modalità aggregative a livello della pratica
quotidiana, non disertando tout court ma nemmeno appiattendosi sulle strategie
e sulle tattiche riformatrici che cercano invano di addolcire i toni
perché anch'esse in cerca di un fantomatico centro della popolazione da
conquistare senza seduzioni rivoltose.
Purtroppo i tempi non ci consentono avventurismi, né in direzione di
fughe in avanti estraniantesi dal movimento che esiste, volenti o nolenti,
né in direzione di ripiegamenti neoistituzionali che sono
drammaticamente arretrati rispetto ai tragici processi di sterminio in corso,
dalla Colombia alla Palestina, dall'Argentina all'Africa, dai diritti civili e
politici europei a quelli americani. La costruzione di un altro mondo possibile
va eseguita giorno dopo giorno, creando forme di liberazione dai gangli del
dominio, praticando effetti di senza-potere che erodano i poteri in corso: solo
in tal senso la partecipazione riesce ad essere incisiva strappando quote di
libertà sempre più numerose, non solo dal ricatto del mercato, ma
anche e soprattutto dalla presa di asservimento del controllo statuale, che si
articola anche attraverso gli enti locali, soggetti alla disciplina
istituzionale sebbene i margini di manovra sembrino essere più larghi.
Ma tali margini vanno sfondati in direzione della riappropriazione di risorse
materiali e immateriali, non sempre nel senso della monetizzazione di
ciò che è qualitativamente altro dalla coppia diabolica
stato-capitale, ossia politica amministrativa e reddito socialmente
conseguito.
Ecco perché le strategie che i Forum sociali sembrano darsi intorno alla
Tobin tax ed al bilancio partecipativo dovranno essere lette e chiarite anche
in relazione al mondo possibile in costruzione, in cui la posta in palio non
è la sostituzione di élite dominanti più simpatiche
perché più vicine allo spirito di Seattle, quanto una profonda
sradicazione delle strutture anche mentali del potere affinché la
partecipazione si trasformi realmente in autogoverno, gradualmente praticabile
in un orizzonte consapevole di cambiamento della qualità delle vite
senza più stato né mercato, senza potenti e senza ricchi a
dettare legge.
Salvo Vaccaro
| |