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Da "Umanità Nova" n. 9 del 10 marzo 2002

Israele: cresce l'obiezione di coscienza
Una piccola crepa nel fronte di guerra

Più di un anno fa, nell'ambito di un convegno internazionale sui temi più delicati del Medio oriente - Gerusalemme i suoi confini, la questione demografica, il diritto al ritorno dei profughi arabi, la mappa dell'apartheid nei territori occupati - mi è capitato di moderare un confronto tra una pacifista israeliana della sinistra storica e un arabo residente in Israele. Paradossalmente, l'impressione che ne ricavai era quella di un buon livello di interazione tra i due, ma di una insufficiente tematizzazione dell'analisi della società israeliana in via di progressiva militarizzazione, non solo nei suoi aspetti esteriori, esplicitati dalla politica di Sharon, quanto e forse soprattutto nel blocco sociale egemone che vive di tale militarizzazione sociale ed economica.

In altri termini, ritenevo che le preoccupazioni della pacifista israeliana si rivolgessero più al dialogo interculturale di comprensione, e non ad una riflessione sul ruolo e sull'azione di una sinistra pacifista nei confronti della propria società. Mentre gli arabi israeliani ritenevano fosse giunta l'ora di emanciparsi dal collateralismo con i laburisti, visto il ruolo sostanzialmente omogeneo (tranne che nello stile eccessivo) tra i due principali partiti "unici" in Parlamento, e visto il debito di sangue versato in questa Intifada, la sinistra pacifista sembrava incapace di svolgere un passo simile, mantenendo quella sorta di superiorità paternalistica che la contraddistingueva nei rapporti asimmetrici con la realtà palestinese - immaginatevi un confronto poco paritario tra chi ha immensi privilegi, di reddito, di opportunità di studi, di salute, rispetto a chi deve sopravvivere in campi profughi da generazioni.

Il logoramento della situazione sembra oggi aver inferto uno scossone alla sinistra pacifista, che dà segni concreti di essersi rivolta dentro di sé, verso la propria realtà, invece di suggerire agli altri come approcciarsi al meglio nei riguardi dei timori della società ebraica. Il sostegno che i pacifisti danno al crescente movimento di obiettori militari ne è un segnale di non poco conto. Certo, la mutata strategia di Hamas e dintorni, che sembrerebbe aver indirizzato i propri attentati, le proprie azioni militari e forse pure i propri kamikaze non tanto verso obiettivi civili, quanto contro l'esercito di occupazione, può aver influito sul senso di invincibilità di Tsahal e sulle paure umane di ogni soldato di perdere la vita per una causa che intravede essere difficilmente la propria.

Tuttavia, va notato come l'esercito israeliano orami da anni non fa guerre, come nella logica di ogni esercito tradizionale, ma fa attività criminali qualsiasi: omicidi selettivi, abbattimento di case abitate, distruzione di beni e risorse economiche di una popolazione già allo stremo, tutte attività vietate nelle carte internazionali (per quel che valgono…).

Non sono solo i riservisti ad obiettare di non voler svolgere il proprio dovere militare nei territori occupati, quanto adesso anche ufficiali nei check-point, dove si consumano quotidianamente atrocità comuni, quali il respingimento di ambulanze con ammalati gravi (e partorienti) costretti a ritornare indietro verso morte sicura. I documenti che hanno steso indicano idee chiare al proposito:

"Noi ufficiali e soldati combattenti che serviamo lo stato di Israele durante lunghe settimane ogni anno, nonostante l'alto prezzo personale che abbiamo pagato

Noi che siamo stati in servizio di riserva in tutti i territori e che abbiamo ricevuto ordini ed istruzioni che non hanno niente a che fare con l'ordine e la sicurezza dello Stato, e il cui unico obiettivo è la dominazione del popolo palestinese

Noi che con i nostri occhi abbiamo visto il prezzo di sangue che l'occupazione impone su entrambe le parti di questa divisione

Noi che abbiamo sentito come gli ordini che ricevevamo stavano distruggendo tutti i valori di questo paese

Noi che abbiamo capito che l'occupazione è la perdita dell'immagine umana di Tzahal e la corruzione dell'intera società israeliana

Noi che sappiamo che i territori occupati non sono Israele e che tutte le colonie sono destinate ad essere rimosse

Noi dichiariamo che non continueremo a combattere in questa guerra per la pace delle colonie, che non continueremo a combattere oltre la linea verde per dominare espellere affamare e umiliare un intero popolo (…)

L'occupazione e la repressione non hanno questo obiettivo. E noi non vi parteciperemo"

La mobilitazione in difesa degli obiettori, che in quanto militari rischiano grosso, sembra aver aperto una smagliatura nella granitica saldezza psicologica della società ebraica ossessionata dall'accerchiamento, e verso questa direzione si indirizza la proposta araba - finora assente da ogni colloquio e trattativa di pace, in quanto da sempre diffidente nei confronti degli stessi palestinesi, società laica e poco incline all'integralismo religioso, mentre oggi proprio Israele spinge verso una islamizzazione disperata dell'Intifada - che offre il riconoscimento dello stato ebraico da parte della comunità araba in cambio del ritiro dai territori occupati, coloni e militari insieme.

Paradossalmente, questa proposta scavalca il ceto politico palestinese, già diffidente sin dai tempi della conferenza di Madrid all'indomani della guerra del golfo, in cui erano presenti tutte le parti coinvolte e la comunità internazionale, per preferire gli accordi bilaterali capestro di Oslo (per dirla con Edward Said). Anche oggi, l'élite palestinese sembra contraria a una proposta complessiva e general-generica che rimuove un peso psicologico della società ebraica (va detto che da un punto di vista militare, tecnologico e economico, caso mai è Israele a primeggiare sull'intera totalità degli arabi), mentre da parte israeliana i coloni, spesso integralisti della peggiore risma, non intendono cedere un solo millimetro di terra.

Al di là delle vicende diplomatiche che non arrestano il conflitto, si ritorna al punto di partenza, in cui la strategia di intervento di ogni sinistra non può non rivolgersi all'interno della propria società, e non nei confronti della controparte. Forse oggi questa consapevolezza è maturata, e la battaglia politica partecipata si sposta tutta all'interno degli equilibri sociali israeliani, su cui costruire una linea culturale e di assetti sociali protesa alla cessazione dell'occupazione militare e alla ricostruzione di una società giusta dentro Israele stessa.

Salvo Vaccaro



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