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Da "Umanità Nova" n. 9 del 10 marzo 2002
Letture
Al tempo delle biciclette e della rivolta
Gianfranco Manfredi "Il piccolo diavolo nero", Marco Tropea Editore, pagg. 354
16,5 euro
Anche se esiste un disegnino ai margini di uno dei codici di Leonardo che ha
alimentato per secoli la leggenda che al geniale inventore toscano dovesse
essere attribuita in qualche modo la paternità della bicicletta (e che
ha ispirato un bellissimo romanzo di Paco Ignacio Taibo II che s'intitola
appunto La Bicicletta di Leonardo), il papà ufficiale della bicicletta
è un autentico carneade della storia, un tal Monsieur de Sivrac che nel
1790 fece la sua apparizione sul pavè della Parigi postrivoluzionaria a
bordo di un "celerifero", un affare di legno formato da due ruote a sei braccia
unite tra loro da una trave che le sormontava facendo da telaio e che veniva
spinto dai piedi dal conducente, senza catene, pedali ed altri meccanismi che
moltiplicassero la spinta. Per quanto andare in velocipede (come si chiamavano
questi primi veicoli a trazione umana) fosse appena poco più veloce e
molto più faticoso di andare a piedi, le antenate della bicicletta hanno
conosciuto da subito una straordinaria diffusione, tant'è che già
nel 1819 la polizia municipale di Milano emanava un editto in cui si proibiva
ai velocipedi "di girare nottetempo per le contrade e per le piazze interne
della città". La storia della nascita e dello sviluppo della bicicletta
è stata anche la storia di un'epoca, e non soltanto in termini di
sviluppo tecnologico. Mentre veniva accolta con entusiasmo da libertari e
socialisti e le organizzazioni sportive delle società operaie ne
diffondevano l'uso tra i propri membri, gli ambienti conservatori e clericali
guardavano con sospetto a questo nuovo veicolo giudicato strumento di
emancipazione e simbolo di modernità e per questo, tra l'altro,
decisamente sconsigliato alle donne. Al punto che ancora nel 1907 suscitava
scandalo la bella Graziella che pedalava in una lirica di Guido Gozzano come
"un non so che d'alato volgente con le ruote".
Gianfranco Manfredi è conosciuto probabilmente ai nostri lettori come
uno dei cantautori del '77, che - forse più di altri - con dischi
fulminanti come "Zombies di tutto il mondo, unitevi", dissacranti e intimi
nello stesso tempo, è riuscito a dare testimonianza di una stagione
fatale. Messa la chitarra al chiodo, ha iniziato una prolifica carriera di
romanziere e di autore di fumetti (è il creatore del prematuramente
scomparso Gordon Link e di Magico Vento, lo sciamano bianco dei Sioux che si
muove tra mostri della mitologia pellerossa, Antichi lovercraftiani e
capitalisti sterminatori, complotti degni di X Files tra le stanze del
potere...). In modo piuttosto originale, nelle sue trame i temi
dell'attualità e della storia sociale si fondono con la miglior
tradizione della letteratura avventurosa e fantastica.
In particolar modo, il nostro si è concentrato sulla seconda metà
dell'Ottocento, in cui si svolgono appunto le storie di Magico Vento ed anche
romanzi come "Magia Rossa" (anarchici, scapigliati e stregonerie varie ai tempi
della Prima Internazionale) e l'ultimo "Il piccolo diavolo nero", uscito
recentemente.
Ambientato a Milano come "Magia Rossa", il nuovo romanzo di Manfredi centra la
sua attenzione sul periodo ruggente della diffusione del ciclismo, con la
nascita dei primi club e dei giornali specializzati, ma anche delle prime gare
e dei primi tornei. "Il piccolo diavolo nero" è il soprannome di Romolo
Bruni, famoso corridore milanese dell'epoca (il primo campione d'estrazione
operaia), le cui imprese agonistiche - ed in particolare la sua incredibile
sfida contro Bufalo Bill - fanno da sfondo a tutte le vicende. I protagonisti
sono, invece, un gruppo di giovani ciclisti che vedono nella bicicletta
più che uno sport, uno strumento che potrà cambiare il mondo. Le
loro vite e le loro bici s'intrecciano con gli eventi dell'epoca e gli ultimi
capitoli del romanzo si svolgono nella Milano in stato d'assedio della
primavera 1898, percorsa dalle truppe di Bava Beccaris, che ha proibito la
circolazione a pedale. La puntigliosa documentazione storica, l'uso frequente,
ma discreto del dialetto milanese, la capacità di ricostruire ambienti e
personaggi danno forza a una narrazione appassionante che ci restituisce alla
memoria una parte della "nostra" storia, bagnata dal sangue nelle piazze, ma
percorsa di sogni, solidarietà, amicizia. La Milano stretta nella morsa
di Bava Beccaris assomiglia maledettamente alla Genova blindata che abbiamo
visto lo scorso luglio durante il G8. È quasi incredibile leggere in
pagine che si riferiscono a cent'anni fa gli stessi episodi (tra cui un
terribile "assalto alla Diaz"), la stessa carica di odio e di violenza che
trascinava i reparti di cavalleria sabaudi come i robocop guidati da Fini,
Canterini and co, le stesse bugie sul Corriere Della Sera di allora e il
Corriere Della Sera di oggi. Accanto all'arroganza e alla ferocia, c'è,
però, anche tutto il resto che abbiamo vissuto a Genova: la
complicità, il coraggio e il senso di unione che animano i cortei, la
generosità dei cittadini che aprono le loro case ai feriti, i sentimenti
di fiducia e di simpatia tra persone che si sono appena conosciute.
Per questo, anche nelle sue pagine più crude, l'aria è comunque
della speranza e il romanzo si chiude in un bellissimo finale che è un
invito a non dimenticare, e ad andare avanti.
Il grande merito di Manfredi è quello di aver restituito carne e sangue
a persone che rischiavano di diventare figurine ritagliate su una foto d'epoca
e che, invece, nella finzione narrativa scopriamo essere nostri compagni e
nostri fratelli. Uomini in bicicletta che vanno in giro a combinare guai.
robertino
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