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Da "Umanità Nova" n. 11 del 24 marzo 2002

Informazione: la libertà negata
Tra burattini e burattinai

È giocoforza ammetterlo, ma è con una sorta di schizofrenia che, generalmente, ci accostiamo al tema dell'informazione. Consapevoli, infatti, dell'uso strumentale che ne fa chi la controlla (e che pertanto ne limita o ne impedisce l'obiettività) ma consapevoli anche dell'importanza che potrebbe avere un professionismo "onesto" nella maturazione della coscienza e dell'impegno sociale, ci confrontiamo con essa con un atteggiamento decisamente antitetico: di fiduciosa attesa per la notizia, di obbligato scetticismo per il messaggio. Da una parte i velinari, i mezzobusti, l'informazione negata e la disinformazione urlata, dall'altra, nascosti fra le righe o confinati sui piccoli media cosiddetti indipendenti, articoli e notizie indispensabili per acquisire gli strumenti conoscitivi necessari al nostro agire politico e sociale. Figli di un'epoca nella quale l'informazione ha sempre più un ruolo cruciale, ci troviamo costantemente alle prese con una contraddizione insanabile, quella per cui capiamo quanto siano ambigue le regole del gioco, ma che al tempo stesso ci impedisce, queste regole, di rifiutarle. Naturalmente il potere è consapevole di questa contraddizione, e su questa imbastisce una strategia particolarmente sporca e pericolosa. Se il vero fine, infatti, dovrebbe essere quello di praticare un'informazione autonoma e svincolata da interessi superiori, i poteri forti, tutti indistintamente, si preoccupano soltanto di sopprimere od ostacolare quanto si muove fuori dai canali istituzionali del mercato mediatico. E per ottenere tale risultato, senza pagare dazio, fanno credere che la questione fondamentale "a tutela della libertà di stampa", sia solo quella di un equo accordo nella spartizione delle reti televisive. Un ottimo diversivo, non c'è che dire! Quasi che, davvero ci trovassimo di fronte a modelli alternativi, invece che al solito balletto di burattini e burattinai perfettamente intercambiabili.

Ecco quindi masse in buona fede e generose di se stesse, già mobilitate in altri tempi a difesa del posto di lavoro o per la pace in Vietnam, effettuare bizzarri girotondi mediatici nei quali, anziché gli improbabili obiettivi dichiarati, accerchiano, senza lasciarle possibilità di scampo, la loro intelligenza. E a far loro da contraltare, come se si trattasse di vita o di morte, le infestanti disquisizioni, i remunerati scambi d'accuse, le eterne querelle sui milioni di voti spostati da questo o quel conduttore, da questa o quella trasmissione. Blaterando in continuazione su questi alti concetti, alla fine dimentichiamo che il potere teme solo un tipo di informazione, che non é certo quella di "seguirà il dibattito" nelle insulse sceneggiate dei vari Costanzo, Vespa e Santoro, ma quella che, più semplicemente, cerca di documentare i fatti nella loro realtà per offrire chiavi interpretative coerenti con essa. Una informazione altra, una informazione che, come principale regola, si dà quella del rispetto di se stessa. Quella informazione, per intenderci, che, di solito, è destinata ad annegare nel mare magnum della disinformazione qualunquistica e superficiale.

E quando il gioco si fa troppo efficace, quando questa informazione cresce fino a diventare un'arma di lotta e uno strumento per smascherare le menzogne del sistema, la repressione statale si abbatte puntualmente su di essa. Ecco quindi la chiusura di Radio Onda Rossa, che dopo essere stata pesantemente boicottata si vede negare l'assegnazione delle frequenze, ecco le perquisizioni al Tpo di Bologna, ecco le ripetute provocazioni, più o meno violente, contro quella straordinaria fabbrica di notizie che si chiama Indymedia. Se dei fatti di Genova siamo riusciti a costruire un quadro non deformato dalle mistificazioni della questura, lo dobbiamo soprattutto ad Indymedia ed ai suoi operatori, e questo è un servizio che il potere non ha certo apprezzato. E che si guarderà bene dal tornare a permettere. È storia risaputa che quando nacque Umanità Nova, ottantadue anni fa, il governo cercò dapprima di boicottarla non con la repressione diretta, che avrebbe scatenato reazioni imprevedibili, ma facendole mancare la carta, bene prezioso e raro nell'Italia uscita dalla guerra mondiale. E se questo fu il primo assalto al nostro giornale, il secondo fu la distruzione della tipografia e dei suoi macchinari ad opera delle squadracce fasciste. Il terzo furono le leggi speciali che soppressero definitivamente tutta la stampa invisa al regime.

Se è vero che il giornalismo di regime è disposto a dimenticare, dopo un solo giorno, gli ottanta morti di Lampedusa per poi riempire, per mesi, le proprie pagine sulla tragedia di Cogne, non possiamo ignorare comunque che l'offerta di informazione "obiettiva" non è una opzione esclusiva del movimento, ma è anche il progetto portato avanti da numerosi professionisti, spesso onesti e ancor più spesso capaci, i quali, anche se non sempre hanno piena coscienza di dove porti l'entusiasmo professionale, hanno però rispetto per la loro dignità. Ed è quel giornalismo che, trovandosi in prima linea per documentare con veridicità i fatti, non di rado paga in prima persona, magari con la vita, il proprio impegno. Un giornalismo fondamentalmente inviso al potere, a tutti i poteri, celebrato con demagogia e retorica quando ci scappa il morto, strumentalizzato dai cantori della indipendenza della professione quando serve, ma costantemente emarginato quando descrive una realtà inconciliabile con gli interessi dell'editore. E per editore intendo qualcuno più in alto dell'occasionale proprietario dell'organo di informazione.
Non è certo un caso, comunque, che l'attenzione dei cosiddetti girotondisti non si soffermi mai né su questo tipo di giornalismo, né sulla rete informativa che parte dai movimenti di lotta e di disobbedienza. Attenti solamente ad andare là dove li conduce, mano nella mano appunto, l'interesse superiore del potere, sono disposti a disquisire per giorni interni sui minuti concessi dai sei telegiornali a questo o a quel personaggio, piuttosto che a riflettere sulla sostanziale, deprimente, uniformità del sistema ufficiale dell'informazione. Come al solito l'apparenza diventa la sostanza, mentre la sostanza viene sommersa dal solito nulla, parolaio e mediatico, dei talk-show.

Massimo Ortalli



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