Da "Umanità Nova" n. 11 del 24 marzo 2002
Afganistan
Il narcobusiness di Bush e Karzai
La questione della produzione, della raffinazione e del traffico di oppio e dei
suoi derivati rimane, nonostante il succedersi dei regimi, la principale
risorsa economica dell'Afganistan; su questo aspetto e sulle implicazioni nel
conflitto in atto in tale area ci siamo già soffermati su queste pagine
e l'ultima volta che abbiamo affrontato questo problema avevano con largo
anticipo previsto che tale produzione sarebbe ripresa, come prima e più
di prima, anche dopo la "vittoria" Usa.
Le informazioni, seppur rarefatte, che ci giungono confermano la nostra,
peraltro facile, previsione.
Ma cerchiamo di fare il punto della situazione.
Alla fine dello scorso dicembre, tale realtà era già evidente; in
un tessuto sociale devastato da anni di guerre intestine e da mesi di
bombardamenti, il traffico di stupefacenti appariva come l'unica voce attiva di
un'economia nazionale da tempo collassata ed era chiaro che il governo
provvisorio Karzai, con il suo esercito arrangiato, non aveva né la
forza militare né la volontà politica per impedire tale lucrosa
attività economica "illegale", e qualche scontro a fuoco tra reparti
governativi e narcotrafficanti nelle zone di confine apparivano piuttosto come
riprova del potere esercitato dai signori della guerra e dell'oppio (Vedi
Liberazione del 30.12.01).
Premesso questo, a metà gennaio, appariva quindi del tutto patetica
quanto ipocrita la messa al bando proclamata da Hamid Karzai delle
coltivazioni di oppio e la vendita di tutte le droghe derivate, compresa
l'eroina (La Repubblica del 17.01.02).
La decisione del nuovo regime di Kabul rinnovava in realtà il formale
divieto pronunciato dal regime talebano del mullah Omar, sulla base della legge
coranica che in realtà vieterebbe la produzione, ma non la vendita.
A quel tempo, nel 1999, nelle campagne afgane la coltivazione dell'oppio
riguardava oltre 90 mila ettari, coprendo il 70% della produzione mondiale di
eroina; se in tre quarti del paese tale produzione si svolgeva sotto la
protezione talebana, al Nord avveniva sotto il controllo delle forze
anti-talebane, di diversa etnia ma di eguale fede integralista islamica, che
avrebbero dato vita alla cosiddetta Alleanza del Nord (si veda il dossier
pubblicato su Narcomafie, ottobre 2001).
La solenne quanto falsa dichiarazione del governo-fantoccio presieduto da
Karzai, era con tutta evidenza finalizzata all'ottenimento da parte dell'Onu,
degli Usa e dell'Unione Europea di ulteriori ingenti finanziamenti per
riconvertire la produzione agricola dell'Afganistan; infatti nella Conferenza
internazionale tenutasi a Tokio pochi giorni dopo tale annuncio
propagandistico, veniva varato un piano di aiuti per 4,5 miliardi di dollari a
sostegno dell'Afganistan "post-talebani" in cui venivano chiesti precisi
impegni all'esecutivo di Karzai a favore di una pace duratura, per
l'eliminazione del terrorismo e la lotta contro la produzione e il traffico dei
narcotici (Il Sole-24 ore del 23.01.02).
Ma era del tutto evidente che, se voleva mantenersi al potere, Karzai ed i suoi
non avrebbero potuto mai mantenere quelle promesse, come era ben consapevole il
governo Usa.
Infatti, con l'arrivo imminente della primavera, nelle aspre vallate afghane
tornerà a fiorire il rosso papavero da cui, al sud i pashtun e al nord i
tagiki, estrarranno e raffineranno la preziosa resina; i contadini infatti
avevano ricominciato allegramente a seminare il papavero - la loro principale
risorsa economica - appena iniziata la guerra Usa contro i Talebani e Al
Queida, dopo che pochi mesi prima i loro raccolti erano stati distrutti e
incendiati su ordine del regime.
Il gioco del precedente governo era alquanto chiaro e non certo tale stop non
era stato dettato dalla fatwa, ma sulla base di ben precisi calcoli economici e
politici.
La loro "tolleranza" era stata dettata per assicurarsi la fedeltà
dell'etnia pashtun che ai confini con il Pakistan, paese dove il 51% del PIL 28
miliardi di dollari all'anno è frutto di tale economia illegale, ha
creato da oltre un ventennio una zona di libero scambio per l'eroina; per tale
cooperazione il mullah Omar e la sua cricca al potere si prendevano, come
è risaputo, le loro laute tangenti, mentre la religione - come sempre in
questi casi - si fermava davanti agli interessi economici ed alla ragion di
stato, tanto di più di fronte al fatto che gran parte dell'eroina era
comunque destinata ai mercati del corrotto e sacrilego mondo occidentale.
Nel '99, anno in cui fu raggiunta la produzione record di oltre 4 mila
tonnellate di oppio, tanto da essere immagazzinata in riserve bastanti per
controllare il mercato per altri due o tre anni, il regime talebano - con una
lungimiranza capitalistica di primo livello - decise di sospendere la
produzione, sia per evitare un crollo dei prezzi sul mercato sia per intascare
i finanziamenti stanziati dall'Onu per la conversione ad altre colture delle
piantagioni di oppio.
Infatti, quando lo scorso 2 agosto, Zaef, l'ambasciatore del regime di Kabul in
Pakistan, incontrò a Peshawar, l'assistente del segretario di Stato Usa,
Christina Rocca, fece pubblicità all'azione del suo governo lamentandosi
che la sospensione della produzione del papavero era già costata nel
2000 12 miliardi di dollari di mancate entrate (Il Sole-24 ore del 27.02.02).
Per cui oggi, con l'utilizzo degli enormi stock accantonati e la ripresa delle
coltivazioni, con la condiscendenza del governo Usa - lo stesso che in patria
è arroccato su posizioni ultraproibizioniste - l'oppio afgano torna sul
mercato internazionale riconfermandosi al centro dell'economia mondiale,
dimostrando quanto siano labili i confini tra capitale legale e illegale.
Uncle Fester
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