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Da "Umanità Nova" n. 12 del 7 aprile 2002
Il Re, la Torre e le pedine
Scenari di guerra sullo scacchiere asiatico
Se c'è una cosa che non si può dire
dell'attuale inquilino della Casa Bianca, il giovine Bush, è che non sia
uomo di parola. All'indomani dell'attacco dell'11 Settembre, ci aveva promesso
una guerra di lunga durata. Gli avvenimenti seguiti alla "passeggiata" afgana,
stanno confermando questa promessa. In primo luogo, la guerra in Afganistan
è tuttora in corso. Il recente abbattimento di un Black Hawk (gli
elicotteri da trasporto truppe americane), ha solo costretto i media
internazionali a prendere atto del fatto che una parte consistente dei
combattenti Taliban, e alcune migliaia di appartenenti alla "Legione araba"
guidata da Al Qa'da (l'organizzazione internazionale facente capo a Osama Bin
Laden), non hanno assolutamente deposto le armi. L'intervento in combattimento
delle truppe di terra occidentali contro questo gruppo di combattenti, evitato
fino a quando non si è reso assolutamente necessario, è iniziato
quando il Pentagono ha dovuto accettare la cruda realtà dei fatti che
vede il raccogliticcio esercito del nuovo uomo forte di Kabul, Ahmid Karzai,
totalmente incapace di avere ragione dei "cattivacci" della situazione. Lo
scenario che si profila in Afganistan, oggi, è maledettamente simile a
quello affrontato dai molti invasori del paese asiatico: gli invasori e il
governo da loro impiantato che controllano città e pianura, mentre la
guerriglia li assale con continuità dalle montagne. Forse pecchiamo di
ottimismo, tenuto conto che Talebani e Al Qa'da non possiedono certo i massicci
appoggi e rifornimenti dei quali godevano i moijaheddin antisovietici nel corso
degli anni Ottanta, quello che, però, è certo, è che la
loro posizione, sita sulle montagne del sud est del paese, con a disposizione
la retrovia garantita dai territori tribali del Pakistan, abitati da alleati
certi dei Talebani e assolutamente off limits per lo stesso esercito
pakistano, non consente agli americani di considerare chiusa la pratica afgana.
Mentre bagliori di guerra continuano a illuminare il disperato paese asiatico,
invaso da tutti e mai conquistato da nessuno, gli scenari di conflitto sembrano
ampliarsi ogni giorno di più: per restare al complicato scacchiere
centroasiatico, la presenza militare americana si infittisce ogni giorno di
più: basi militari sono in via di realizzazione in Uzbekistan,
Turkmenistan e Kirghizistan, mentre i governi di questi stati vengono
massicciamente innaffiati di denaro made in USA. Tutto ciò con
uno scopo ben definito: assumere il controllo strategico dell'area centro
asiatica, con la conseguenza di appropriarsi delle risorse in essa contenute, e
di isolare Russia e Cina (potenziali futuri competitori globali), dal proprio
retroterra naturale. Come, ormai, sappiamo tutti, l'area caspica viene
considerata il nuovo eldorado dell'oro nero; la corsa al controllo delle
risorse energetiche di questi paesi è iniziata nel corso degli anni
Novanta, con la mossa della guerra afgana e della penetrazione militare
nell'area, gli USA si sono conquistati una decisa preponderanza
nell'assicurarsi il controllo di queste risorse. Non si tratta, solo, di
assicurare buoni affari alle multinazionali americane del petrolio, in
competizione con le loro "sorelle" degli altri paesi (argomento, questo, al
quale l'amministrazione petrolifera Bush si è dimostrata, comunque,
particolarmente attenta), quanto di assicurare alla potenza americana la
decisionalità strategica sui flussi di questa materia prima così
importante, al fine di evitare che russi e cinesi se ne possano un giorno
avvantaggiare e crescere fuori dal loro controllo. Attualmente l'area centro
asiatica è presidiata dalle truppe americane, i governi dei paesi ex
sovietici (a parte il Kazakistan, ma è solo questione di tempo) si
reggono grazie alla collaborazione americana che ha definitivamente scalzato
quella russa, l'Afganistan è un protettorato USA, mentre il Pakistan,
vecchio alleato americano con pretese di sub potenza regionale (e, non
dimentichiamolo, discreto e silenzioso amico dei cinesi in funzione
antiindiana), è stato ridotto a docile vassallo di Washington. Con
queste mosse la Casa Bianca si è assicurata il controllo dell'area,
menando allo stesso tempo un colpo formidabile alle ambizioni russo-cinesi di
costituire un polo di potenza continentale, capace di appropriarsi delle
risorse locali, o, quanto meno, di contrattarne lo sfruttamento esterno.
Da queste vicende, traiamo una prima lezione, riguardante il fatto che gli
americani, in questa fase della partita del dominio mondiale, non intendono
accettare l'esistenza di alleati ai quali concedere uno spazio di
agibilità politica e diplomatica internazionale: a Washington, oggi,
necessitano vassalli, compresi dell'impossibilità anche solo di
discutere le direttive americane, e proni a ogni loro volere. La caparbia
volontà di trattare con gli americani le modalità del loro
dominio, è già costata la testa ai Talebani e a Milosevic, mentre
l'Iraq continua a non passarsela per niente bene.
La seconda lezione riguarda l'incapacità di potenze come Russia e Cina
di contrapporsi ai voleri di Washington: l'esito della guerra afgana, con un
americano d'Afganistan alla testa del paese, i B-52 a poche migliaia di
chilometri dai loro confini, e la loro intera area di influenza spazzata via
nel giro di pochi mesi, non può certo aver fatto felici Pechino e Mosca.
Ciò nonostante, le due capitali hanno piegato servilmente il capo e
hanno anche cercato di apparire felici di quanto stava accadendo. Le ragioni
sostanziali di questo atteggiamento sono due: in primis il divario militare del
quale soffrono nei confronti degli USA, che fa sì che un ipotetico
scontro armato con i padroni del mondo, resti nel limbo dell'improbabile. A
questo proposito, riteniamo interessante la fuga di notizie architettata dal
Pentagono tramite un giornalista amico del Washington Post, il quale ha
rivelato che, tra i possibili bersagli di un "primo colpo" nucleare americano,
Russia e Cina occupano un posto d'onore; come si suole dire, a buon intenditor
poche parole. Se solo ci provate, rischiate di saltare in aria in diretta.
Il secondo motivo di acquiescenza, invece, è di tipo economico, e si
riferisce al fatto che, quello americano, è al dato momento, l'unico
mercato veramente interessante per delle economie necessariamente votate
all'esportazione, come quella russa e quella cinese. Nel corso dell'operazione
Afganistan gli USA hanno, da questo punto di vista, concesso non poco ai due
potenziali rivali, da un lato permettendo alla Cina di entrare nel WTO, e,
quindi, di poter esportare senza vincoli e dazi negli USA, in barba alle
mobilitazioni corporative dei sindacati yankees contro il pericolo
giallo, dall'altro costituendo, di fatto, con la Russia un cartello
mondiale di sindacato per stabilire prezzi e quantità di petrolio
estraibile, favorendo così l'economia russa che, oggi, dipende quasi
esclusivamente dall'oro nero.
La terza lezione da apprendere, quindi, rinvia alla capacità americana
di "trattare" i partner troppo grossi per essere immediatamente trasformati in
vassalli: da un lato la minaccia, dall'altro l'offerta di concreti vantaggi,
sfruttabili fino a quando si accetta il predominio di Washington e ci si
accontenta di porsi all'interno della sua orbita politica, economica e
militare. Volendo, nulla di nuovo sotto il sole, si tratta dello stesso
programma di integrazione subordinata, applicato a suo tempo all'Europa
occidentale e al Giappone.
Che sia in corso un forcing spietato nei confronti di russi e cinesi, lo
confermano anche le notizie provenienti dalla Georgia, instabile repubblica ex
sovietica del Caucaso, e l'inclusione della Corea del Nord nel novero dei paesi
"molto, molto cattivi", e potenziale destinatario di un a "prima mossa" atomica
da parte degli USA.
Ora, escludendo l'ipotesi di una reale pericolosità della Corea del Nord
per il gigante americano, è chiaro che il monito ai coreani è un
segnale preciso ai cinesi, sostenitori di lunga data del regime
feudal-comunista di Kim-Jong-Yil. Il messaggio inviato a Pechino è
chiaro: i cinesi non si devono neanche sognare di costruire un loro sistema di
potenza ancorché regionale, perché tale affronto non sarebbe
accettato a Washington. La Cina deve accontentarsi di crescere economicamente e
di avere ottenuto l'accesso ai mercati americani; se fa la brava, potrebbe
addirittura ottenere una qualche forma di riunificazione con la "provincia
ribelle" di Taiwan, altrimenti gli americani sono sempre disposti a mettere in
piedi una qualsiasi guerra regionale che privi Pechino delle sue relazioni
privilegiate. I cinesi, nell'ottica di Washington, non devono assolutamente
allargare il loro raggio di influenza al di fuori dei patri confini,
relegandosi così dallo status di potenza regionale, a quello di partner
integrato e subordinato di Washington.
Un discorso simile vale per la Russia, i cui confini, nei termini di zona di
influenza sono stati sempre più ridotti dalla caduta dell'URSS in
avanti. Abbiamo già visto come la guerra afgana abbia permesso
l'avanzata di Washington in terre che furono russe fin dal tempo degli czar,
ora l'intervento militare in Georgia, permette agli USA di far retrocedere i
russi entro i loro confini anche nella penisola caucasica. Non si tratta
più, come nel corso degli anni Novanta, di foraggiare tramite la
multinazionale petrolifera Chevron (la cui principale consigliera è
stata, nel corso del decennio, l'attuale ministra per la sicurezza nazionale
americana, Condoleeza Rice) la guerriglia cecena, allo scopo di impedire la
sicurezza degli oleodotti Caspio-Europa in mano russa, bensì di
intervenire con forniture e consiglieri made in Washington nella
tormentata repubblica caucasica. Quest'ultima, resasi indipendente dall'URSS
nel 1989, dopo un turbolento periodo sotto la Presidenza Gamsakurdia, terminato
in una bella mattanza, è guidata dal 1992 dall'ex ministro degli esteri
di Gorbaciov, Shevarnadze. Quest'ultimo, ha ereditato un paese dove due delle
tre repubbliche autonome presenti al suo interno avevano dichiarato la
secessione con l'appoggio di Mosca e, tuttora resistono come stati
indipendenti. Queste ultime due sono l'Ossezia del sud, separata per un
capriccio staliniano da quella del Nord, rimasta in territorio russo, e
l'Abkhasia, protagonista nel 1992 di una breve, feroce e vittoriosa guerra con
la Georgia, conclusasi con la cacciata dell'esercito della piccola repubblica
caucasica, e di tutti gli immigrati georgiani presenti nel circondario della
capitale autoproclamata Suhumi.
Ora, l'intervento americano viene giustificato con la scusa di colpire il
terrorismo ceceno che, proprio in Georgia, e in specifico nella gola di Pakir,
ha i suoi santuari e le sue retrovie. Peccato, però, che l'esercito
georgiano non si sia mai posto il problema di colpire la secessione cecena che,
anzi, era vista come un'ottima cosa, dal momento che, attaccando i russi
all'interno del loro territorio, li allontanava dalla possibilità di
minacciare la Georgia e, soprattutto, li indeboliva nella loro opera di
sostegno alle repubbliche secessioniste. Peccato, poi, che esista un piano
preciso per la costruzione di oleodotti Caspio-Europa via Turchia che dovrebbe
sfruttare proprio il territorio georgiano, in prossimità dei confini
della repubblica secessionista osseta.
Il quadro così si colora dei suoi veri riflessi: gli USA intervengono in
Georgia allo scopo di far recuperare alla repubblica caucasica la piena
sovranità sull'insieme del suo territorio, colpendo oltre che le
repubbliche secessioniste, anche l'influenza russa su queste terre; la Georgia,
interamente sotto controllo americano e pacificata permetterebbe alle
multinazionali USA del petrolio di attraversarla con pipeline che aggirerebbero
la Russia, permettendone la completa esclusione dai "grandi giochi" attorno al
petrolio caspico, e confinandola all'interno del proprio limes. La Russia,
oltretutto, ben conscia dei reali rapporti di forza ha, oggi, completamente
ingoiato quest'ultimo rospo. D'altronde, la palese contropartita dell'abbandono
al proprio destino dei secessionisti abhkasi e osseti e della rinuncia al
proprio ruolo nell'area caucasica, è il via libera alla chiusura della
partita con i ceceni, e il mantenimento del ruolo acquisito come esportatrice
di petrolio verso l'Occidente. Non a caso Putin, il Presidente russo, si
è affrettato a dare la sua benedizione a un intervento clamorosamente
contrario agli interessi nazionali del suo paese.
Lo spazio di un articolo, purtroppo, è tiranno, e non mi permette di
toccare adesso le altre questioni che la cronaca turbolenta di questi mesi
continua a mettere sul piatto. Per questo, rimando i lettori ai prossimi
numero, nel quale continueremo l'analisi, a partire dai dossier Iran e Iraq, e
più in generale da quello relativo al Medio Oriente, per continuare
leggendo i recenti interventi USA in Somalia e nelle Filippine, come la
continuazione di un piano preciso di compressione dell'influenza mondiale della
finanza araba e musulmana, individuata in questi anni da Washington come
pericolo mortale per l'egemonia americana in campo finanziario e geopolitico.
Giacomo Catrame
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