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Da "Umanità Nova" n. 12 del 7 aprile 2002
Palestina/Israele
La normalità dell'orrore
Viene spontaneo pensare che l'incancrenimento del
conflitto in Medio Oriente sia anche dovuto a un collasso delle strutture
morali dei contendenti. Da un parte, una società di tradizione laica
quale quella palestinese, si è messa a sfornare kamikaze, ossia giovani
di entrambi i sessi la cui disperazione senza orizzonte è colmata da un
afflato religioso estremizzato alle conseguenze finali: il sacrificio della
propria vita senza nulla in cambio se non un vago paradiso islamico con tante
vergini a propria disposizione - il che la dice lunga sull'immaginario macho di
ogni religione.
Dall'altra, una società israeliana erede della shoah e della diaspora
che si mette incredibilmente a compiere rastrellamenti di massa come ai tempi
dei peggiori nazisti alla caccia di partigiani - e se Sharon non li fucila in
massa è solo per una vigilanza internazionale che, forse, intende
evitare una ennesima Sabra e Chatila nei territori occupati - e addirittura
marchia i palestinesi con inchiostro questa volta delebile, a differenza del
marchio a vita con cui sempre i nazisti numeravano gli odiati giudei.
Tuttavia la perdita di ogni limite morale - fra l'altro al baratro non
c'è fondo - è frutto dell'impasse politica globale che si ostina
a non voler dare soluzione al dramma ormai cinquantennale dei palestinesi, che
alimenta la disperazione senza speranza.
Noi europei abbiamo dimestichezza con guerre convenzionali, quelle dei nostri
genitori e nonni, con azioni militari condotte contro altri militari,
bombardamenti a tappeto nei quali le vittime sono indistinte, e per chi ha
vissuto la lotta partigiana, rastrellamenti e azioni di guerriglia in cui
dimensione militare e dimensione civile cortocircuitavano. Non a caso nella
seconda guerra mondiale, poco più della metà delle vittime sono
stati civili, a differenza della prima grande guerra, quando i civili caduti
furono poco più del 10 percento.
In Medio Oriente è tutto diverso. Non si tratta solo dei civili uccisi
da ambo le parti con i colpi di un esercito senza rivali e con i kamikaze che
si fanno saltare in aria, comunque in una proporzione anche questa globale:
ogni 4 morti, tre sono palestinesi, ricalcando in precisa proporzione le
dimensioni statistiche dei rapporti nord/sud sui consumi - in questo caso di
vite umane.
Ormai in Palestina ci sono intere generazioni nate, vissute e decedute
più o meno secondo il decorso della vita in campi profughi indubbiamente
disagiati, per usare un eufemismo, mentre non occorrono paraboliche o racconti
a distanza per accorgersi come, a pochi metri, gli israeliani hanno proceduto a
divorare il deserto, ad abitare i luoghi comuni ad entrambi i popoli investendo
risorse e rendendo vivibile quella porzione di terra solo per loro escludendo
programmaticamente e ferocemente gli altri, ossia gli arabi.
I campi profughi, contabilizzati dal Programma Onu UNRWA, sono peggio delle
favelas latino-americane per il semplice motivo che la mappa da neo-apartheid
impedisce pure il semplice spostamento da un campo all'altro, da un paese
all'altro. I check-points, ormai è chiaro, non esistono per tutelare la
vita degli israeliani, bensì solo ed esclusivamente per avvilire i
palestinesi degradandoli e umiliandoli in continuazione nella costrizione
quotidiana a elemosinare il passaggio per ogni cosa: dal lavoro che non esiste
più, dai ricongiungimenti parentali, dallo studio per i ragazzi, dalla
sanità di ogni genere (malattie e parti divengono sempre a rischio di
morte quando le ambulanze vengono bloccate ore e ore senza ragione,
contrariamente a ogni disposizione umanitaria sancita dalle Convenzioni di
Ginevra e dallo spirito della Croce Rossa...).
E che dire dei bulldozer che spianano case e campi agricoli, così, per
fare terra bruciata attorno al filo spinato che divide, per meglio imperare, i
territori occupati non solo da Tsahal, ridotto ormai a compiere azioni di basso
cabotaggio criminale, ma anche e soprattutto da coloni irriducibilmente illusi
dai governi israeliani di ogni genere che quei territori mai e poi mai
torneranno ai legittimi proprietari secondo quanto statuito dalle risoluzioni
del CdS delle Nazioni Unite, ossia ai profughi che a milioni aspirano e
rivendicano simbolicamente quel possesso sancito da una appartenenza statuale
ancora da venire - rimanendo peraltro perplessi dalla prospettiva di un ritorno
fisico: molti profughi sono svincolati dalla retorica da diaspora, che invece
permea gli incubi ebraici proiettati sugli arabi, anche perché nei nuovi
luoghi di esistenza hanno nel frattempo, dopo cinquant'anni, messo radici da
cui è difficile ipotizzare un ennesimo sradicamento per tornare indietro
recuperando un livello di vita indubbiamente più basso anche se
simbolicamente gratificante.
È allora difficile leggere quanto accade nel degrado terroristico e
imprevedibile del conflitto asimmetrico secondo gli occhiali della morale, che
vieterebbe il sacrificio della vita da dedicare a una causa migliore o il
massacro di gente indifesa a prescindere dalla nazionalità statuale che
indossa per contingenze della vita (nessuno decide di nascere con una
cittadinanza). L'avvitamento è tutto politico, e dipende non tanto e non
solo dalla consapevolezza dei popoli coinvolti, ma anche dal destino che le
grandi potenze hanno in mente per quella regione. È solo ridicolo
pensare che la mediazione Usa abbia qualche chance di riuscire per il semplice
motivo che gli Usa non sono mediatori lontanamente neutrali, bensì parte
in causa e sponsor di Israele, armandolo e finanziandolo di continuo, per cui
solo se decidesse di bloccare soldi e armi la situazione si sbloccherebbe; ma
ciò è possibile sia quando la lobby ebraica negli Usa avrà
perso parte del proprio potere di ricatto sulle élite di governo, sia
quando si sarà diffuso un consenso di massima sui destini delle
popolazioni dell'area, e ciò sarà possibile solo quando quelle
popolazioni avranno una voce in capitolo sulle proprie vite, non mediate dalle
rispettive élite ma attraverso un percorso duro e difficile oltre misura
di emergenza di forme di autogoverno dal basso, con movimenti sociali che
sapranno articolare Intifada in senso autonomo da Arafat e Hamas (e ciò
attualmente è una chimera) e posizioni pacifiste e antimilitariste in
Israele altrettanto autonome dalle élite di governo.
Salvo Vaccaro
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