|
Da "Umanità Nova" n. 13 del 14 aprile 2002
Strage in Palestina
Democrazia assassina!
Siamo soliti distinguere tra popolazione e governi per evitare di affastellare
nelle medesime responsabilità dominanti e dominati. Nei momenti di
ordinaria normalità, tale distinzione è necessaria perché
individua i luoghi del potere e quelli del consenso più o meno passivo.
Ma in tempi straordinari, è mantenibile così asetticamente tale
distinzione?
È il caso del conflitto israelo-palestinese: il governo israeliano
già considera i propri cittadini arabi individui di terza scelta,
rispetto ad askhenaziti e sefarditi che rappresentano i pionieri del sionismo
in terra arabo-giudaica, e i falascia e altri ebrei di ritorno più
recente che sono cittadini di serie B. Da alcune settimane, il premier Sharon,
eletto direttamente dalla maggioranza degli elettori su un programma
dichiaratamente bellicoso ("un funerale per ogni casa palestinese", e ben prima
dell'ondata di attentati terroristici), sostenuto da una maggioranza di
sondaggi (per chi continua a crederci), e comunque zittito il dissenso interno
ridottosi a qualche decina di attivisti pacifisti e donne in nero (all'incirca
quindici a Gerusalemme nei giorni bui di Pasqua), ha lanciato l'operazione di
"soluzione finale" della questione palestinese in Medio oriente.
Non un genocidio, probabilmente, se il mondo lo fermerà alla soglia del
suo compimento, ma sicuramente l'intento palese è quello di sbarazzarsi
non del terrorismo di Hamas e Jihad, che restano indisturbati benché
pericolosi per gli scellerati attacchi suicidi in cui a perire sono civili
inermi di qualunque cittadinanza ed etnia (il tritolo non seleziona israeliani
ebrei e israeliani arabi, o addirittura stranieri), ma impresentabili come
interlocutori credibili con cui negoziare un apartheid istituzionalizzato,
bensì quel ceto politico e quei quadri intermedi laici che negli ultimi
trent'anni hanno lottato, a torto o a ragione, per conseguire il loro obiettivo
di creare uno stato palestinese in quell'area, accanto a quello d'Israele, in
una necessaria convivenza tra diversi. E la ostinata resistenza a non
scomparire nei momenti più ardui della loro lotta, il cui esito parziale
è stato un governo corrotto e dispotico quale quello di Arafat e soci,
ha avuto la meglio sullo Sharon di Sabra e Chatila, sino a farsi strada
finanche presso i consessi ufficiali delle Nazioni unite, degli Usa,
dell'Europa.
Azzerare in un mese tale risultato è la strategia di Sharon e, vien
voglia di pensare, di quella parte di popolazione israeliana che non si
dissocia dai suoi crimini. Perché la reale novità non è
né Sharon, né la politica omicida dei governi di destra e di
sinistra che hanno continuato a sabotare i negoziati di pace (sic!)
incrementando costantemente gli insediamenti coloniali nei territori occupati,
ai sensi del diritto internazionale; carri armati ed elicotteri da
combattimento hanno funestato le trattative da Oslo ad oggi sempre e comunque,
ma il passo inedito è che questa volta la democrazia israeliana sin
nelle sue componenti civili (per le quali alla sindrome di accerchiamento la
risposta adeguata è evidentemente lo stato di guerra permanente con una
economia militarizzata) è complice altrettanto terrorizzata della
strategia criminale del governo, che calpesta quotidianamente ogni norma di
civiltà giudaico-cristiana da cui sorgono le norme del diritto
internazionale, delle Convenzioni di Ginevra, del diritto umanitario,
sottoscritte peraltro da Israele e alcune statuite all'indomani della shoah per
impedirne la replica. Esse proibiscono il rastrellamento indiscriminato di
civili (dai 15 ai 60 anni, come insegnano i nazisti), vietano il maltrattamento
di giornalisti e medici, vietano la tortura nei confronti di prigionieri in
divisa o meno, prescrivono il divieto di atti di guerra contro la popolazione
civile, sanciscono l'illegalità dell'occupazione militare, mettono fuori
legge i governi responsabili, imputano di responsabilità penale i leader
sia pure democraticamente eletti.
Ebbene, come per ogni guerra, Israele è fuori dal consesso delle nazioni
civili, si fa per dire, ma proprio per questo, per invidia verrebbe da dire,
più che per rispetto ad un olocausto infinito come rendita di posizione
tradita che dovrebbe impedire a qualsiasi governante dello stato ebraico di
inventarsi "marchiature" nei confronti degli arabi, non un solo passo
diplomatico è stato compiuto per colpire la credibilità del
governo israeliano: un embargo commerciale, la sospensione dei trattati di
collaborazione nello sport e nel turismo, la ritorsione del divieto di ingresso
sul suolo italiano per i cittadini israeliani in arrivo all'aeroporto
internazionale di Fiumicino, il richiamo dell'ambasciatore, la penalizzazione
nelle istituzioni internazionali. Non un solo passo in tal senso, fra l'altro
nemmeno minimamente paragonabile ad altri passi diplomatici messi in atto nel
passato contro chi viene emarginato dalla comunità internazionale di
stati, a torto o a ragione (Cuba, Iraq, Jugoslavia, ecc.), forse perché,
volutamente, si confonde ad arte la questione religiosa dell'antiebraismo
nazista con la criminalità israeliana nel trattare popolazioni interne e
straniere. Certo, bombardare la chiesa della Natività a Betlemme o la
moschea di Omar suscita minore indignazione di una molotov in una qualche
sinagoga europea, ma gradirei capire la logica politica e anche religiosa della
differente reazione.
Democrazia assassina comincia ad essere un eufemismo leggero, probabilmente
già stretto per l'altra grande democrazia contemporanea che sono gli
Stati Uniti, a sua volta o succube perché ricattata di Sharon o mandante
dello sterminio palestinese. L'alibi della lotta al terrorismo, al cui interno
le attuali norme non prevedono (ancora?) le lotte di liberazione e le
resistenze partigiane, sta dando volto a quella guerra permanente che su queste
pagine sottolineiamo da ben prima l'11 settembre, in quanto vera essenza del
dominio statuale. La guerra asimmetrica in corso non può ovviamente
farci propendere per la legittimazione dei kamikaze che si fanno esplodere per
denegare la promessa di sicurezza che Sharon fece ai suoi elettori alla vigilia
del voto che lo portò al potere dopo la passeggiata provocatoria sulla
spianata della moschea Al-Aqsa. Ma la reazione al terrorismo di stato
può talvolta essere analogamente terrorista, spesso per volontà
mimetica di ubris di dominio, e non si può invertire la catena di
responsabilità, pur dichiarandosi ostili ad ogni terrorismo e ad ogni
guerra contro la popolazione civile.
Non comprendendo mentre scriviamo se tale scenario si limiterà a far
fuori per l'ennesima volta dalla Nakba del 1948 in qua migliaia di palestinesi,
oppure se mira a incendiare l'intero Medio oriente, per eliminare d'un colpo
non solo la questione palestinese, bensì l'intera questione
mediorientale, ossia dalla Siria all'Egitto, da Saddam all'Iran già
sulla lista nera dei "rogue states" di Bush, è certo che la politica ha
registrato la propria impotenza di fronte all'escalation tutto sommato
prevedibile sin dal programma elettorale di Sharon, il cui contratto elettorale
sta per essere rispettato alla lettera. La finta neutralità americana,
la frigidità europea, sancita dall'umiliazione dell'alta delegazione
inviata da Prodi, l'evanescenza italiana a fronte pure dei propri concittadini
maltrattati all'estero (la latitanza del Ministero degli esteri e dei suoi
bracci periferici, ambasciatori e consoli, con rare eccezioni, è
sintomatica del fatto che in ballo non ci sono interessi personali di
Berlusconi per cui valga la pena attivarsi) la dicono ormai lunga sulla
necessità vitale di liberarsi di un intero sistema istituzionale di
stati verso cui ancora alcuni nutrono fiducia in merito a un intervento
risolutore, mentre invece la sua azione è quotidianamente protesa a
esplicare attività criminali: democrazie assassine.
Il limite che riscontro nella generosa campagna di solidarietà attivata
da Action for Peace, che sarà quanto meno costretta a rivedere il suo
intento, visto che non di pace si tratta, bensì di bloccare uno
sterminio, è proprio quello di oscillare ancora tra una positiva
corporeità non delegata della politica, si spera anche quotidiana e non
solo episodica o di alto profilo visibile, e la fiducia nella diplomazia
istituzionale dall'alto o decentrata a livello di enti locali, che
costitutivamente si attiva solo per le emergenze umanitarie, ad onta del fatto
che i palestinesi soffrono nei campi profughi da oltre cinquant'anni. Meglio di
niente, si direbbe, tranne che un sindaco non può certo invitare i
propri concittadini a boicottare prodotti israeliani!
Personalmente non propendo per una politica da testimonianza di origine
cristiana, tuttavia l'interposizione non-violenta come forma non equidistante
di schieramento sul campo in segno di solidarietà fattiva verso
popolazioni vittime di soprusi ricorda, mutatis mutandae, le brigate
internazionali (informali più di quelle formali) che accorsero in Spagna
nel lontano 1936. Certo, lotta armata e non mera presenza dissuasiva, certo,
etica di scelta politica e ideologica e niente affatto politica spettacolare di
visibilità a cui siamo abituati in Italia da parte di alcuni settore del
movimento, certo, gli stessi protagonisti di oggi mal vedrebbero l'ipotesi di
vedersi paragonati ai libertari di ieri, tuttavia allora si corse e si accorse
perché, forse a differenza di ora, c'era un tessuto precostituito di
solidarietà internazionale, che oggi invece si attiva sovente solo a
comando selettivo pilotato dai media: negli stessi giorni della carneficina in
Palestina, con 40 morti al giorno, in India ne cadevano a centinaia e
centinaia, negli scontri cosiddetti inter-religiosi, ignorati dai media
nostrani e dai no-global di tutto il mondo... Non che se ne possa addebitare
una qualche inerzia, è ovvio che non si può essere dappertutto,
ma se lo slogan, a mio avviso erroneo e illusorio, del think global, act global
deve avere un senso, non lo può avere a comando o per moda (del tipo,
ieri tutti e sempre Chiapas, oggi tutti e sempre Arafat), ma deve dimostrare
continuità e non discriminazione tra deboli e vittime.
L'esperienza odierna può insegnarci, invece di attivare le istituzioni a
soccorrere quando necessario in aiuto, piuttosto a istruire un percorso di
autogoverno che si rivolga non solo alle questioni interne, ma anche a quelle
sovralocali, tessendo costantemente relazioni che rafforzino le società
e non i governi, quindi scegliendo la forza della non-forza programmatica,
piuttosto che l'impotenza fittizia e ipocrita della potenza dettata dalla non
ingerenza negli affari di uno stato amico. Questo è l'impegno quotidiano
che ci sentiamo di assumere, più e oltre alle istanze di attivazione
diplomatica anche dure che in questi giorni vengono richieste all'Italia,
all'Onu, all'Unione europea e che i fatti hanno smentito a più riprese,
dimostrando che, quando i momenti sono cruciali, solo corpi e cervelli lucidi
possono fare affidamento su se stessi perché i codici diventano carta
straccia sotto gli stivali dei criminali Sharon/Bush/Blair/Berlusconi/Bin Laden
di turno.
Salvo Vaccaro
| |