Da "Umanità Nova" n. 13 del 14 aprile 2002
Intervista a Noam Chomsky su USA e Israele
La santa alleanza
D. C'è un salto di qualità in quello che sta succedendo oggi?
R. Sì, penso di sì. L'obiettivo del processo di Oslo è
stato accuratamente descritto nel 1998 dall'accademico israeliano Shlomo Ben -
Ami appena prima di entrare nel governo Barak e diventare poi il capo
negoziatore a Camp David nell'estate del 2000.
Ben Ami osserva che "in pratica gli accordi di Oslo erano costruiti su una base
neocolonialista, su una vita di dipendenza eterna di uno dall'altro."
Con questi obiettivi, gli accordi Clinton-Rabin-Peres erano costruiti per
imporre ai palestinesi "una quasi totale dipendenza da Israele", creando "una
estesa situazione coloniale" che ci si aspetta sia "la base permanente " per
"una situazione di dipendenza". La funzione dell'autorità Nazionale
Palestinese (ANP) era il controllo della popolazione civile in un regime di
controllo neocoloniale dei palestinesi da parte degli Israeliani.
Così il processo proseguì, passo dopo passo, secondo le linee
uscite da Camp David. L'ipotesi Clinton-Barak (rimasta vaga e ambigua) è
stata accolta come "importante e magnanima", ma un'analisi razionale rende
chiaro che era com'era largamente risaputo in Israele - una proposta di tipo
"Bantustan": questo è, verosimilmente, il motivo per cui i principali
organi d'informazione statunitensi evitarono accuratamente la diffusione di
carte geografiche. È vero che la proposta Clinton-Barak avanzava di
alcuni passi verso un insediamento sul modello dei Bantustan che il Sud Africa
aveva istituzionalizzato nei giorni bui dell'apartheid. Appena prima di Camp
David, i palestinesi della West Bank (la riva occidentale) erano confinati in
circa 200 aree sparpagliate, e la proposta di Clinton-Barak tenta di arrivare
ad un consolidamento in tre cantoni sotto il controllo israeliano, virtualmente
separati uno dall'altro, e dal quarto cantone, una piccola parte di Gerusalemme
est, il centro della vita e delle comunicazioni della regione. E, ovviamente,
separati da Gaza, il cui destino rimaneva incerto.
Ma ora il piano è stato apparentemente rinviato in favore della
distruzione dell'ANP. Questo significa la distruzione delle istituzioni
coinvolte nella creazione del Bantustan progettato da Clinton e dai suoi
partner israeliani; negli ultimi giorni, persino di un centro per i diritti
umani. Anche i rappresentanti palestinesi che furono incaricati di assumere un
ruolo analogo a quello dei leaders Neri dei Bantustan sudafricani sono ora
sotto attacco, sebbene non vengano ammazzati, presumibilmente in virtù
delle conseguenze che ciò provocherebbe sul piano internazionale.
L'autorevole intellettuale israeliano Ze'ev Sternhell scrive che il governo
"non ha più vergogna di parlare di guerra, mentre in realtà esso
è impegnato in una azione di polizia coloniale, che fa tornare in mente
le azioni della polizia bianca sulle township dei neri in Sudafrica durante
l'era dell'apartheid".
Questa nuova politica è addirittura una regressione rispetto al modello
del Bantustan del Sud Africa di 40 anni fa a cui Clinton, Rabin, Peres e Barak
ed i loro amici aspiravano con il processo di pace di Oslo.
Niente di tutto questo è una sorpresa per quelli che hanno letto le
analisi critiche degli ultimi dieci anni, inclusi pacchi di materiale presenti
regolarmente sulla rete, e che l'hanno visto svilupparsi giorno dopo giorno.
Come esattamente invece la leadership israeliana intendesse implementare questo
programma è meno chiaro, anche per il governo suppongo.
È conveniente per gli USA, e per l'Occidente, rimproverare Israele, ed
in particolare a Sharon ma questo è scorretto e poco onesto. Molte delle
peggiori atrocità di Sharon sono state fatte sotto i governi laburisti.
Come criminale di guerra, Peres è assimilabile a Sharon. Inoltre le
principali responsabilità risiedono a Wahington, da ormai 30 anni. E
questo è vero sia per il quadro diplomatico generale, sia per azioni
specifiche. Israele può agire dentro i limiti stabiliti dai padroni a
Washington, raramente oltre.
D. Qual è il significato della risoluzione del consiglio di Sicurezza
dell'ONU del 30 marzo?
R. Il principale obiettivo era ottenere una richiesta per un immediato ritiro
da Ramallah e dalle altre aree delle Palestina che l'esercito di Israele aveva
invaso in questa offensiva, o almeno una data limite per questo ritiro. Ha
prevalso invece la posizione americana: c'è solo un vago richiamo per
"il ritiro delle truppe israeliane dalle città palestinesi", senza un
limite di tempo specifico. La risoluzione perciò rientra negli obiettivi
americani, largamente ribaditi sulla stampa: Israele è sotto attacco ed
ha il diritto di autodifendersi, ma non può andare troppo oltre nella
sua punizione dei palestinesi, o almeno ciò non deve essere troppo
visibile.
I fatti sono abbastanza diversi. I Palestinesi hanno tentato di sopravvivere
sotto l'occupazione militare israeliane, oggi nel suo trentacinquesimo anno,
che è stata dura e brutale grazie soprattutto al decisivo aiuto militare
ed economico da parte degli USA ed alla loro protezione diplomatica,
nell'ambito della quale si colloca anche l'ostruzionismo da questi messo in
atto contro la volontà internazionale ad un accordo politico per la
pace. Non c'è simmetria in questo confronto, neppure la più
piccola, e inquadrarlo in termini di autodifesa da parte di Israele va oltre
anche le forme standard di distorsione della realtà per la difesa degli
interessi del potere.
Le condanne più decise del terrorismo palestinese, che sono giuste e si
ripetono da più di trent'anni, lasciano immodificati questi fatti di
base.
Evitando scrupolosamente l'obiettivo immediato centrale, la risoluzione di
venerdì è simile alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza del
12 marzo, che provocò molta sorpresa e molti commenti positivi
perché non solo non aveva avuto il veto da parte degli USA, come di
solito sarebbe accaduto, ma perché era stata addirittura proposta da
Washington. Quella risoluzione si riferiva ad una "visione" di uno stato
palestinese. Senza neppure arrivare al livello del Sud Africa di 40 anni fa,
quando il regime dell'apartheid non si limitò ad annunciare una visione,
ma arrivò ad istituire degli stati governati dai neri, che erano almeno
legittimati e praticabili quanto ciò che Israele e gli USA avevano
pianificato per i territori occupati.
D. Cosa faranno gli USA adesso? E quali sono gli interessi USA allo stato dei fatti?
R. Gli USA sono una potenza globale. Quello che succede in Israele ed in
Palestina è un fattore secondario. Ci sono molti fattori che influenzano
la politica americana. Quello principale in questa regione del mondo è
il controllo sulle maggiori risorse energetiche del pianeta. L'alleanza tra USA
ed Israele ha preso forma proprio in questo contesto. Nel 1958, il Consiglio di
Sicurezza Nazionale concluse che "un corollario logico" dell'opposizione alla
crescita del nazionalismo arabo era il "sostegno ad Israele come l'unica
realtà di forte appoggio all'Occidente rimasta in medio Oriente".
Questa è un'esagerazione, ma è un'affermazione di un'analisi
strategica generale che identifica il nazionalismo indigeno come un primario
pericolo (come dovunque nel terzo mondo), tipicamente chiamato "comunista"
benché fosse comunemente riconosciuto nei documenti riservati che questo
era un termine propagandistico e che le regole della guerra fredda erano spesso
marginali, anche nel 1958.
L'Alleanza divenne solida nel 1967, quando Israele rese un importante servizio
alla potenza americana, distruggendo le forze principali del nazionalismo arabo
laico, considerate un pericolo vero per il dominio dell'area del Golfo da parte
degli USA. E questo accordo prosegue, anche dopo il collasso dell'Unione
Sovietica. Oggi l'alleanza USA- Israele-Turchia è un pezzo centrale
della strategia americana ed Israele è virtualmente una base militare
americana, strettamente integrata con l'economia americana militarizzata e ad
elevata tecnologia. In questo quadro, gli USA sostengono naturalmente la
repressione dei palestinesi da parte di Israele e l'integrazione dei territori
occupati, incluso il progetto neocoloniale evidenziato da Ben Ami, sebbene
alcune specifiche scelte politiche debbano ancora essere prese in base alle
circostanze che verranno a crearsi.
Fino ad oggi, i piani di Bush continuano a bloccare i passi verso un'iniziativa
diplomatica, o anche una riduzione della violenza; questo è il
significato, per esempio, del veto USA alla risoluzione del Consiglio di
Sicurezza del 15.12.2001, che invitava a mettere in atto passi reali per la
applicazione del piano Mitchell e per l'introduzione di osservatori
internazionali che visionassero una riduzione della violenza. Per ragioni
simili, gli USA hanno boicottato il meeting internazionale di Ginevra (a cui
partecipava l'Unione Europea, compresa la Gran Bretagna) che ha riaffermato che
la Convenzione di Ginevra si applica ai territori occupati, il che avrebbe
implicato che le azioni di grande portata dell'alleanza Stati Uniti-Israele in
quelle zone sarebbero state giudicate una "grave violazione" della Convenzione
- un crimine di guerra, in parole povere - come sancito dalla dichiarazione di
Ginevra.
Questa posizione riafferma semplicemente la risoluzione del consiglio di
Sicurezza del settembre 2000 (astensione USA), che ribadiva ancora una volta
che la convenzione di Ginevra non si applicava ai territori occupati. Questa
era anche la posizione ufficiale degli USA, formalmente confermata, per esempio
da George Bush I, quando era ambasciatore alle Nazioni Unite. Gli USA si
astengono regolarmente o tentano di boicottare queste decisioni per non
prendere pubblicamente una posizione che metta in discussione il cuore delle
leggi internazionali soprattutto alla luce delle circostanze nell'ambito delle
quali la Convenzione era stata stipulata, e del suo scopo originario: quello di
sancire ufficialmente la natura criminale delle atrocità compiute dai
nazisti, comprese le azioni commesse nei territori da essi occupati. I media e
gli intellettuali generalmente cooperano da parte loro nel boicottaggio di
questi fatti: in particolare, il fatto che come contraenti principali, i
governi degli USA sono legalmente obbligati da questi trattati solenni a punire
i trasgressori della convenzione, incluse le proprie leadership politiche. E
questo è solo un piccolo esempio, senza dimenticare che il rifornimento
di armi ed il sostegno economico che serve a mantenere l'occupazione con la
forza e con il terrore e ad estendere gli insediamenti, continua senza pausa.
D. Qual è la tua opinione sul summit della Lega Araba?
R. Il vertice della Lega Araba ha portato all'accettazione generale del piano
di pace saudita, che ribadisce i principi base del consenso internazionale:
Israele deve ritirarsi dai territori occupati nel contesto di un accordo di
pace generale che garantirebbe il diritto di ogni stato della regione, incluso
Israele ed il nuovo stato palestinese alla pace e alla sicurezza, in confini
riconosciuti (le parole base della risoluzione della risoluzione ONU n. 242,
amplificata per includere uno stato palestinese).
Non c'è niente di nuovo in questo. Questi sono i termini base della
risoluzione del Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976, sostenuta virtualmente
dal mondo intero, inclusi i principali stati arabi, l'OLP, l'Europa, il blocco
sovietico, i paesi non allineati. In effetti il mondo intero. Con la sola
opposizione di Israele ed il veto degli Stati Uniti.
Successive e simili iniziative portate avanti dagli Stati Arabi, dall'OLP e
dall'Europa occidentale, sono state bloccate fino ad oggi dagli USA. E questo
include il piano del re Fahd del 1981, questa iniziativa infatti ha subito il
veto USA per le stesse ragioni.
L'opposizione degli USA in effetti va datata ad almeno cinque anni prima, al
febbraio del 1971, quando l'allora presidente egiziano Sadat offrì ad
Israele un trattato di pace in cambio del ritiro dal territorio egiziano, senza
neppure richiedere la difesa dei diritti della nazione palestinese o mettere in
discussione il destino degli altri territori occupati. Il governo laburista di
Israele riconobbe che quello era un genuino piano di pace ma lo respinse,
poiché intendeva estendere gli insediamenti al Sinai nord orientale; ed
è quello che in effetti fece immediatamente, con estrema
brutalità e che fu la causa scatenante della guerra del 1973.
Il piano per i palestinesi sottomessi all'occupazione militare fu francamente
descritto ai suoi colleghi di governo da Moshe Dayan, uno dei leader laburisti
più attenti alla penosa situazione palestinese. Israele avrebbe dovuto
rendere chiaro che "noi non abbiamo soluzioni, voi dovrete continuare a vivere
come cani ed abbandonare ogni speranza, e vedremo dove questo processo ci
porterà". Seguendo questa raccomandazione i principi guida
dell'occupazione sono state incessanti e degradanti umiliazioni, accompagnate
dal terrore, dalla tortura, dalla distruzione delle proprietà, dalla
deportazione, dagli insediamenti, dalla presa di possesso delle risorse di
base, specialmente dell'acqua.
L'offerta di Sadat del 1971 era costruita per adeguarsi alla politica ufficiale
degli USA, ma Kissinger continuò a preferire quello che lui chiamava
"stallo": nessun negoziato solo forza.
Anche l'offerta di pace della Giordania fu respinta. Da quella data, la
politica ufficiale degli USA teneva conto del consenso internazionale sul
ritiro (fino a Clinton che effettivamente disconobbe le risoluzioni dell'ONU ed
il rispetto delle leggi internazionali); ma in pratica la politica ha applicato
le linee guida di Kissinger, cioè accettare il negoziato solo quando
costretti, come in effetti capitò a Kissinger dopo la quasi disfatta
della guerra del 1973 e alle condizioni spiegate da Ben Ami.
La dottrina ufficiale ci impone di focalizzare l'attenzione sul vertice della
Lega Araba, come se gli Stati Arabi e l'OLP siano il problema, in particolare
la loro intenzione di buttare a mare gli Israeliani.
C'è poco che si possa dire a favore degli Stati Arabi e dell'OLP, ma
queste cose sono semplicemente false, come uno sguardo ai fatti velocemente
rivela.
I giornali più obiettivi riconoscono che il piano saudita è in
realtà una riedizione del piano del re Fahd del 1981, dichiarando
però che quell'iniziativa era stata resa impossibile dal rifiuto degli
Stati Arabi di riconoscere l'esistenza di Israele.
I fatti sono ancora una volta abbastanza differenti. Il piano del 1981 fu
affondato da una reazione del governo israeliano che anche i suoi principali
organi di stampa condannarono come "isterica", sostenuta però dagli USA.
E questa reazione includeva Shimon Peres ed altre cosiddette colombe, che
dichiararono che l'accettazione del piano Fahd avrebbe messo in discussione
l'esistenza di Israele.
Un'indicazione dell'isterismo è la reazione del presidente di Israele
Haim Herzog, (a quel tempo ambasciatore di Israele all'ONU), considerato una
colomba. Egli dichiarò che il "reale estensore " del piano Fahd era
l'OLP e che questo era ancora più radicale della risoluzione del
Consiglio di Sicurezza del gennaio 1976, che era "preparata da" l'OLP. Queste
dichiarazioni sono ovviamente inesatte, ma sono un'indicazione del terrore che
sorge nelle colombe israeliane (sostenute dagli USA), all'apparire di qualsiasi
iniziativa politica.
Il problema di base, allora come ora, porta diritti a Washington che ha
persistentemente sostenuto il rifiuto di Israele di accettare un'iniziativa
politica basata sul consenso internazionale, come ad esempio, l'attuale
proposta saudita.
Fino a che questi fatti elementari non entreranno nella discussione,
eliminandone le falsità di base, la discussione stessa non
centrerà l'obiettivo. E noi non ci arriveremo - per esempio - accettando
implicitamente il fatto che gli sviluppi dei vertici della Lega Araba sono il
problema critico.
Sono certamente significativi ma secondari. Il problema primario è qui,
ed è nostra responsabilità affrontarlo e risolverlo senza
scaricarlo su altri.
Tradotto da DDT
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