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Da "Umanità Nova" n. 14 del 21 aprile 2002

Le frontiere dell'odio
Dai massacri di Jenin alle stragi dei kamikaze

C'è tutto nella questione palestinese. È lo specchio fedele, e crudele, di tutti i luoghi della società odierna, delle contraddizioni e delle vicende che, in questa epoca, rendono impossibile la coesistenza fra popoli e nazioni in troppe parti del pianeta. Proprio come nei peggiori copioni dove si cerca a tutti i costi l'effettaccio, i protagonisti dello scontro in atto ci hanno buttato dentro tutto, senza badare a spese. E senza preoccuparsi delle conseguenze, tanto a pagare non saranno certo loro!

Le stragi nelle città palestinesi occupate, il terrorismo cieco nei luoghi dove si vive e si lavora e si muore, la brutalità che contraddistingue un esercito di occupazione, il palese disprezzo con il quale si fronteggiano le parti in causa, il militarismo elevato a dottrina di governo, il razzismo evidente nelle azioni di tutti i giorni, il genocidio improvvidamente evocato a scusante o a aggravante, il rinascere del cancro antisemita, l'insopprimibile antigiudaismo della chiesa cattolica, gli interessi economici distanti migliaia di chilometri, le infami speculazioni finanziarie sulla pelle dei diseredati, gli interessi strategici ciechi ad ogni altra ragione, un populismo sterile e controproducente, le esibizioni demagogiche degne dei peggiori totalitarismi, l'arroganza di una pretesa e inconsistente superiorità morale, il fanatismo di chi ha perso ogni ragione, l'integralismo come ricerca di un'identità definitivamente smarrita, lo scontro fra religioni differenti nei riti ma identiche nel loro assolutismo, le eredità di una pratica colonialista dura a morire, i giochi di potere che strumentalizzano la ribellione all'oppressione e alla paura, la cinica abitudine di buttare sul tavolo delle trattative il maggior numero di "vittime innocenti", la speculare volontà di non trovare una soluzione, l'uso spregiudicato del lutto e della morte. Le sofferenze degli oppressi, la brutalità degli oppressori. La tragica prefigurazione, forse, di altre sofferenze e brutalità destinate solo a cambiare di segno, anziché essere definitivamente eliminate. C'è proprio tutto, ed è davvero troppo!

È stimolante l'accostamento che fa Salvo Vaccaro, nel suo bell'articolo apparso sul numero scorso di Umanità Nova, fra le Brigate internazionali accorse in Spagna nel 1936 e i pacifisti europei recatisi in Cisgiordania per frapporsi fra i carri armati israeliani e le abitazioni palestinesi. Penso però che, a differenza di allora, lo schierarsi senza la lucidità che contraddistinse i miliziani di un tempo, che erano a fianco di un popolo e non di un'autorità, non possa contribuire a "far trionfare la giustizia", ma piuttosto, paradossalmente, a far proprie, a ricreare, a giustificare, a rendere ineluttabili e insopprimibili molte delle ragioni, prima elencate, che stanno dentro a questo conflitto. Le semplificazioni non fanno mai bene, anche se operate in buona fede; se poi dovessero essere in mala fede, ma non è il caso di molti pacifisti, diventano criminalmente complici dell'occupazione militare israeliana e degli attentati palestinesi.

Mentre scrivo sta per scattare l'Israele day promosso da Il Foglio e appoggiato da molti di quei figuri che in tempi non lontani sbandieravano orgogliosamente il loro antisemitismo. Al tempo stesso sono da poco finite alcune manifestazioni filopalestinesi, nel corso delle quali i nostalgici di un terzomondismo incartapecorito non solo inneggiavano ai macelli dei kamikaze di Hamas, ma continuavano a chiudere stupidamente gli occhi sulle pesantissime corresponsabilità, morali ma non solo, che hanno i dirigenti palestinesi per le sofferenze del loro popolo. Sono entrambe, queste, forme di solidarietà che non hanno altro esito se non quello, ormai è chiaro, di alimentare contrapposizioni frontali. Se infatti si nega alla controparte anche solo una piccola porzione di ragione, e al tempo stesso non si affrontano le proprie responsabilità, non si viene ad offrire altra prospettiva che quella della "soluzione finale". Una soluzione finale determinata dai rapporti di forza, e quindi, in questo momento, totalmente sbilanciata a favore di Israele. È dunque questo che vogliono gli "amici" del popolo palestinese, è dunque questo che vogliono i "democratici" difensori della politica israeliana?

Inevitabile è, in questi giorni, il continuo rincorrersi di accuse e controaccuse su chi abbia le maggiori responsabilità di tutti questi massacri. Se evidenti sono le feroci responsabilità dei dirigenti e dei generali israeliani che hanno guidato la brutale occupazione delle città della Cisgiordania, nel corso della quale alle consuete necessità di un'operazione militare hanno voluto accompagnare violenze ed umiliazioni al di fuori di ogni umanità, ci si deve anche chiedere, però, a quale livello di impaurita esasperazione è stato portato il popolo israeliano, altrimenti civile e democratico, perché giustifichi, fra le proprie fila, atti di cui normalmente saprebbe vergognarsi. Di quali strumentalizzazioni, di quali giochi sporchi e immondi si rendono dunque attori le classi dirigenti di questi popoli, per riuscire a trasformare in così breve tempo l'identità dei loro cittadini? Per quali criminosi disegni, sanno fare man bassa dei peggiori istinti della feccia delle loro società e far diventare, questi istinti, patrimonio comune di un'intera regione?

Nessuno è innocente, nessuno è privo di responsabilità, se non si dissocia da questo gioco al massacro. Se non capisce, soprattutto, che l'unica strada percorribile è quella che preveda un profondo cambiamento nella mentalità di tutto il popolo israelopalestinese. Solo attraverso questa indifferibile mutazione genetica si potranno tagliare le unghie agli interessi e agli appetiti delle dirigenze locali e delle oligarchie internazionali, a quegli interessi totalmente estranei alla quotidiana esistenza di arabi ed ebrei, a quegli interessi che soffiano sull'assurdo fuoco acceso da cinquant'anni di ostilità. L'unica strada è quella dell'accordo, certo non quello con la A maiuscola siglato nei vari Camp David dai più diretti responsabili dei massacri verificatisi fino al giorno prima, ma quello consapevole e spontaneo raggiunto fra due vicini di casa che finalmente decidono come spartirsi il terrazzo comune. E che, per restare nella metafora, decidono anche di sbarazzarsi, una volta per tutte, dei giudici, dei poliziotti e degli avvocati che pretendevano di guidarli nelle loro decisioni.

Non è, il mio, il consueto argomentare dell'anarchico che, utopisticamente, distingue fra popoli buoni e governi cattivi. È piuttosto, credo, una riflessione concreta che parte dalla considerazione che i due poteri statali della regione, di fatto o in divenire che siano, sono solo interessati ai rispettivi progetti egemonici, ed hanno sempre ostacolato ogni processo di pacificazione. E che, pertanto, solo un cambio radicale dei capisaldi culturali degli abitanti della Palestina e di Israele può portare alla normale convivenza tanto osteggiata da stati e governi. La pace, la vera pace fatta di rispetto e non di diffidenza, ci sarà solo se si svilupperà nei loro corpi, in quei corpi in carne ed ossa che oggi sembrano essere solo carne da macello. La cronaca è lì a dirci che un'altra strada, evidentemente, non c'è.

Massimo Ortalli



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