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Da "Umanità Nova" n. 15 del 28 aprile 2002

Kamikaze in Palestina
Chi non terrorizza si ammala di terrore

Non è semplice né divertente affrontare la questione degli attentati suicidi compiuti da militanti palestinesi, anche perché su questo aspetto della guerra in atto si intrecciano disinformazione, interessati moralismi di parte, speculazioni politiche e discutibili rivendicazioni simboliche, tutte comunque ben lontane dalla tragica situazione palestinese.

Cerchiamo quindi nel limite del possibile di mettere nero su bianco qualche considerazione e alcuni ragionevoli dubbi.

La figura del combattente-suicida appartiene alla storia delle guerre e delle rivoluzioni ed è trasversale ad ogni ideologia politica e religiosa, sia di destra che di sinistra, come ad ogni cultura e appartenenza nazionale; seppure il volontario supremo sacrificio e l'immolarsi del kamikaze è stato mitizzato e celebrato soprattutto dalle ideologie più totalitarie e mortifere per le quali il fine giustifica sempre i mezzi, soprattutto se a pagare il prezzo maggiore sono i proletari nel loro ruolo sacrificale di "carne da macello".

Analogamente, la pratica terroristica, ossia della violenza indiscriminata è riscontrabile in periodi e contesti diversi, anche se risulta più che fondata la tesi secondo la quale il terrorismo prefigura generalmente una presa del potere in una logica statale così come ogni Stato è sinonimo di terrore legale.

Per questo, quando gli attentati terroristici vengono considerati come i bombardieri strategici dei poveri, vi è indubbiamente del vero ma è altrettanto innegabile che in tale equiparazione vi è anche il fondamento di una critica radicale, antiautoritaria, nei confronti di ogni strategia che trasforma le popolazioni civili, mai coincidenti con i governi e gli Stati, in obiettivi militari.

Premesse queste elementari riflessioni, affrontiamo quindi la tattica degli attacchi suicidi, con le sue implicazioni, adottata da alcuni settori della resistenza palestinese.

Innanzitutto è stato osservato da più parti che tale tattica, inizialmente propria dei settori legati all'integralismo islamico sciita (tra cui anche i gruppi di Hamas l'organizzazione creata in Libano con la "sponsorizzazione" dei servizi segreti israeliani), nel corso di quest'ultima Intifada, nata anch'essa come rivolta delle pietre, si è andata diffondendo ed allargando a macchia d'olio, contagiando buona parte della società palestinese, anche nelle sue componenti più laiche al punto che, per non perdere la propria credibilità, Al Fatah ha dato vita alle "Brigate dei martiri di Al Aqsa" guardando più alla lotta per l'egemonia politica tra le diverse fazioni palestinesi che alla resistenza contro gli occupanti.

Tale sviluppo non può essere ovviamente casuale e, in primo luogo, è da mettere in relazione all'occupazione militare israeliana e ai palesi metodi terroristici di repressione ad essa collegati contro la totalità del popolo palestinese ed il suo diritto di vivere; ma, non di meno, vi sono con tutta evidenza responsabilità precise dei vertici delle diverse formazioni palestinesi che, dopo aver sostenuto e sfruttato politicamente, la guerra delle pietre combattuta in gran parte da ragazzi armati di fionda davanti ai tank, non sono state in grado di organizzare un'adeguata resistenza armata di tipo popolare né strutture di guerriglia in grado di far fronte alla "soluzione" militare voluta dal governo Sharon.

Evidentemente, il popolo in armi fa comunque paura, soprattutto se animato da sentimenti rivoluzionari, e a tale paura con tutta evidenza non si sono sottratte neppure le diverse leadership palestinesi che già, a suo tempo, avevano guardato con diffidenza al sorgere di numerosi comitati popolari autonomi, per questo avversati politicamente e vigilati dalla polizia palestinese con il pretesto della lotta al terrorismo.

Da qui, la scelta dei gruppi ostili alla linea moderata del "traditore" Arafat, di rispondere all'occupazione dei territori palestinesi e al militarismo israeliano con la pratica terroristica, affidata alla rabbia e alla disperazione di tanti giovani, anche donne, votati al martirio piuttosto che attraverso la lotta armata, scelta questa che sta seminando morte e terrore tra i civili israeliani più che tra le truppe d'occupazione e ancor meno tra i vertici politico-militari.

Secondo alcuni antimperialisti nostrani, tale obiettivo sarebbe giustificato eticamente e politicamente dal fatto che la stragrande maggioranza del popolo israeliano è su posizioni sioniste e favorevole alla politica d'annientamento perseguita da Sharon; in realtà tale tattica non mette in pericolo l'esistenza d'Israele, come sostenuto da Gad Lerner, ma ha finito invece col rafforzare proprio il suo governo e il nazionalismo sionista, ricattando e annichilendo invece l'opposizione interna, il movimento pacifista israeliano nonché ogni tensione sindacale emergente in una situazione economica e sociale di gravissima crisi quale quella vissuta oggi in Israele.

Inoltre, la tattica del terrorismo suicida appare del tutto funzionale a coprire la politica ipocrita delle borghesie arabe e dei regimi islamici, tutt'altro che antimperialisti, che da un lato forniscono appoggi economici alle formazioni più estremiste, mentre di fatto risultano complici dello sterminio del popolo palestinese per lungo tempo combattuto per le posizioni anticapitalistiche e non-teocratiche espresse dalle sue componenti più avanzate.

Per questo, di fronte ad un simile sistematico annientamento ad opera ancora una volta di un terrorismo di Stato e allo spettacolo di chi si immola per uccidere anche altri inermi, se da un lato non è possibile essere equidistanti è altresì necessario auspicare ed agire affinché quanto prima gli oppressi e gli sfruttati sappiano riconoscere ovunque i propri nemici, non sulla base delle differenze dettate dal nazionalismo e dal razzismo ma della consapevolezza di classe, unica condizione affinché liberazione non sia sinonimo di morte.

Sandra K.



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