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Da "Umanità Nova" n. 16 del 5 maggio 2002
Dopo lo sciopero del 16
Stallo preelettorale
...era tornato a chiedere dialogo, ma due giorni dopo
ecco il ministro del Lavoro Roberto Maroni brandire la spada contro i
sindacati. Accuse ingiuste e livori da osteria, un attacco frontale portato con
un'intervista al giornale di Berlusconi che fa da battistrada alla proposta di
legge della Lega che vuole schiacciare il sindacalismo confederale. I sindacati
sono "nobilissime associazioni private che eludono la Costituzione". Che
"rastrellano soldi pubblici attraverso caf e patronati, eppure non devono
presentare i bilanci". Che "non devono spiegare da chi prendono soldi e come li
spendono". Questa situazione - tuona Maroni - è "anomala e non
può più reggere". Il ministro si scaglia anche contro "chi
percepisce i distacchi sindacali, cioè in buona sostanza decide di non
lavorare più, o meglio di fare gli interessi del sindacato che lo
stipendia". Non si capisce "perché la pensione di queste persone debba
essere pagata dalla collettività e non dal loro datore di lavoro".
Conclusione: il sindacato deve tornare nel suo alveo naturale "che è
quello che dovrebbe occupare un'associazione privata".
da l'Unità - 22 aprile 2002
E a surriscaldare l'aria ci ha pensato lo stesso ministro Maroni,
facendo sapere che intende "ridimensionare i sindacati", che oggi hanno "troppo
potere e nessun obbligo". Soldi e potere, il chiodo fisso di Maroni:
sarà per questo che accusa i sindacati di "poter evitare di presentare i
loro bilanci, a differenza di qualunque associazione, anche di volontariato,
che vi è obbligata per legge". Peccato che non sappia dell'esistenza di
una legge, la 460, che già dal 1997 obbliga anche i
sindacati a rendere pubblici i loro bilanci, come infatti avviene
puntualmente ogni anno. Come premessa di "dialogo", da parte del ministro non
c'è male.
Il Manifesto 23 aprile 2002
Intervistato dal Giornale, il ministro Maroni dice che i sindacati ...eludono
"qualsiasi dettame costituzionale e non hanno nessun obbligo". In pratica,
"rastrellano soldi pubblici, centinaia di milioni di euro, attraverso i Caf e i
patronati, eppure non devono presentare bilanci". Maroni punta il dito, poi,
contro "chi percepisce i cosiddetti distacchi sindacali e, in buona sostanza,
decide di non lavorare più" in azienda per prestare la sua opera "in
un'associazione privata, quale è il sindacato. Non si capisce
perché", per il periodo di distacco, i contributi ricadano sullo Stato
"e non sul datore di lavoro". "Quando qualcuno va al patronato o al Caf per
avviare la pratica di pensione - contesta infine Maroni - gli viene subito
chiesto di iscriversi al sindacato. Risultato? In tutti i sindacati la
percentuale dei pensionati supera il 60% degli iscritti". Per rimediare a tutto
ciò, il Parlamento farebbe bene a votare - si augura Maroni - la
proposta di legge già depositata che riporterebbe il sindacato nel suo
"alveo naturale" di associazione privata".
Il Corriere della Sera, 22 aprile 2002
Lo sciopero del 16 aprile sembra, a distanza di pochi giorni, appartenere ad un
altro tempo o, almeno, tale sembra se si sfogliano le pagine dei giornali.
La mobilitazione di milioni di donne e di uomini concreti è consegnata
all'oblio mediatico, altre urgenze occupano gli schermi e le prime pagine dei
giornali.
È evidente che questa situazione deriva da diversi fattori. In primo
luogo vi è la scelta del governo di depotenziare lo sciopero
presentandolo come un rito. Una scelta non stupida anche se non è
affatto certo che sarà vincente. Si tratta, infatti di vedere come
l'orientamento del corpo centrale della working class e la mobilitazioni di
ampia parte del lavoro precario sulla questione dei diritti determineranno
tensioni anche all'interno del corpo della destra sociale e dello stesso
padronato soprattutto se crescerà il conflitto aziendale e categoriale
come molti segnali sembrano preannunciare.
Vi è, poi, da considerare il modo di funzionare normale dello spettacolo
dominante, alla sovraesposizione mediatica, infatti, segue fisiologicamente una
rimozione, un'uggia, un disincanto.
Lo sciopero generale stesso, inoltre, portava nella sua genesi elementi di
contraddittorietà e limiti da non sottovalutare. Non mi riferisco solo
all'improvvisa deriva conflittuale del sindacalismo di stato, allo schierarsi
frontale contro politiche sociali non troppo dissimili da quelle considerate
accettabili se gestite da un governo amico.
Il fatto è che lo sciopero generale ha un'elevatissima dimensione
simbolica, con lo sciopero generale si giunge alla forma più forte di
mobilitazione strettamente sindacale e si pone, di conseguenza, l'esigenza di
avere forme di pressione più radicali nel caso l'avversario non ceda.
È un fatto che, oggi, queste forme di pressione non sono all'ordine del
giorno. Non possiamo escludere che, magari in tempi rapidi, si
determinerà una radicalizzazione del conflitto sociale ma, da una parte,
i sindacati istituzionali non sono disponibili a lanciarsi in un'avventura del
genere e, dall'altra, la maggioranza dei lavoratori non tende a sviluppare,
almeno apertamente, pratiche e forme organizzative indipendenti da questi
stessi sindacati. In sintesi, si sono toccati i limiti di una forma
tradizionale di mobilitazione e, a questo punto, si tratta o di andare oltre o
di ripiegare.
Se intrecciamo la dinamica sindacale con quella politica istituzionale, vi
è un dato preciso da considerare. A fine maggio si daranno le elezioni
in molti comuni e province, per la prima volta, dopo la vittoria della destra,
sarà possibile una valutazione del consenso che il governo e
l'opposizione hanno conquistato o perso.
La sinistra parlamentare e, di conseguenza, l'apparato sindacale temono, ed
è nella loro natura, che una conflittualità sindacale troppo
accesa a ridosso delle elezioni possa danneggiarli. Sotto il profilo stesso
dell'investimento delle risorse umane, una campagna elettorale distrae
l'attenzione dal conflitto di classe, per dirla con rozzezza, è
probabile che nel prossimo mese i sindacalisti dei DS e della Margherita, ma il
discorso vale anche per il PRC, avranno altro da fare.
La destra di governo, d'altro canto, non è restata del tutto immobile e,
mandando avanti il solito Roberto Maroni ha sollevato il tema, delicato quanto
altri pochi, dei finanziamenti statali ai sindacati.
Non si tratta di un discorso elegante ma non è privo di efficacia, il
nostro eroe, infatti, rileva che CGIL-CISL-UIL ricevono cifre notevoli dal
governo in varie forme e che, di conseguenza, il governo potrebbe fare loro
molto male tagliando del tutto o in parte i finanziamenti pubblici.
Naturalmente i dirigenti sindacali si sono adontati ed hanno sbertucciato il
ministro. È interessante notare che, dopo la sortita di Maroni,
dell'argomento non si è più parlato. Credo che, infatti, porlo
troppo al centro dell'attenzione non faccia comodo né alla sinistra che
avrebbe qualche motivo di imbarazzo nello spiegare che viene finanziata dal
governo del "liberista" Berlusconi né alla destra che preferisce tenersi
le mani libere dopo aver chiarito a CGIL-CISL-UIL che non è il caso di
fare troppo i birichini.
Sono, da questo punto di vista, possibili due scenari:
- l'uso strumentale della minaccia di tagliare i fondi al fine di addomesticare
CGIL-CISL-UIL e una sostanziale continuità con il passato;
- il radicalizzarsi dello scontro e la scelta da parte del governo di tagliare
le radici al sindacato di stato.
Naturalmente non sono da escludersi soluzioni intermedie ma, ai fini di una
comprensione della situazione, è bene disegnare gli scenari estremi.
A mio avviso, non esiste oggi una scelta condivisa nella maggioranza e vi
è lo scontro fra diverse ipotesi politiche e sociali che corrispondono,
grosso modo, ai due principali segmenti della base sociale della destra e
cioè al blocco della piccola e media impresa padana che sarebbe disposta
a regolare i conti con qualsiasi sindacato al grido di "il sindacato, nella mia
azienda, sono me" e alle pletoriche clientele del pentapartito transumate in
gran parte nella casa delle libertà e legate allo stato sociale da un
vincolo se non di amore di interesse materiale.
Vi è, poi, da considerare che una politica liberista vera spazzerebbe
via più la destra che la sinistra sindacale non foss'altro che
perché quest'ultima può contare sull'esistenza di un tessuto
militante che alla destra sindacale manca per la sua stessa natura sociale.
Insomma, un attacco frontale al sindacato di stato rischierebbe di determinare
lo sfasciarsi, paradossalmente, di un settore importante della base sociale
della destra.
Diversi compagni, pur condividendo questa valutazione, pensano che nella destra
la componente democristiana o comunque "sociale" sia in crisi e che si vada
rafforzando il settore liberista puro. Per parte mia, sono portato a ritenere
che una deriva del genere non sia impossibile, anzi, ma che veda forti
resistenze e che la destra italiana sarebbe in serie difficoltà se
recidesse i rapporti con il centro moderato e concertativo.
A breve, insomma, propendo a ritenere che il ruolo del sindacato di stato
resterà importante e che molto dipenderà, oltre che dall'evolvere
del quadro istituzionale, dal livello del conflitto sociale e dalla
capacità di vincere, da parte dei lavoratori, alcune prime importanti
battaglie.
In un caso, come nell'altro, comunque, si tratta di lavorare alla costruzione
di un soggetto sindacale e sociale in grado di tenere l'iniziativa in maniera
indipendente dai giochi di potere e di cogliere le contraddizioni
dell'avversario per indebolirlo e per rilanciare lo scontro.
Cosimo Scarinzi
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