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Da "Umanità Nova" n. 17 del 12 maggio 2002
Il tramonto del gigante
Fiat: crisi irreversibile
È esplosa nelle ultime settimane l'ennesima crisi dell'impero Fiat. Il
gruppo del Lingotto ha imboccato forse definitivamente un tunnel senza uscita,
che avrà delle ripercussioni molto pesanti sia sul comprensorio di
Torino, che sulla struttura produttiva dell'intero paese. È stato un
articolo del Financial Times (ripreso poi da tutte le agenzie e da Business
Week) a mettere il dito nel piatto: secondo il giornale inglese, l'andamento
disastroso delle vendite nel primo trimestre costringerà la Fiat a
cedere prima del previsto la divisione auto, esercitando anticipatamente
l'opzione "put" siglata nel marzo 2000 con la General Motors, al momento
dell'accordo che consentiva al gruppo di Detroit di acquisire il 20% del
Lingotto.
Non si conoscono nel dettaglio tutti i termini dell'accordo, ma la parte nota
è questa: dal luglio 2004 al luglio 2009 la Fiat può vendere a GM
il restante 80% di Fiat Auto, ad un prezzo che sarà concordato tra le
parti in base al valore di mercato del momento, con la possibilità di
ricorrere all'assistenza di 4 banche (una per parte più due
indipendenti) per fissare il prezzo più congruo. Se la Fiat
troverà il prezzo insoddisfacente, potrà rifiutarsi di vendere
per due volte consecutive.
L'opzione put è stata dunque presentata da Gianni Agnelli e Paolo Fresco
come una clausola di salvaguardia per la famiglia e gli azionisti, nel caso che
le cose dovessero proprio andare male, mentre più volte è stata
ribadita la volontà di mantenere il controllo del settore auto e di
concentrarvi risorse ed energie come se fosse ancora il "core business".
Ma come sappiamo tra parole e fatti ci sono spesso importanti differenze. La
fiducia del patriarca sulla tenuta della Fiat non è affatto condivisa
dal resto della famiglia, né dai gestori di fondi, né dagli
investitori istituzionali. Le banche più esposte (Unicredito e Sanpaolo)
hanno mandato segnali precisi di allarme e di tensione, a fronte di una
situazione debitoria alquanto preoccupante. La Deutsche Bank, che fa tuttora
parte del patto di sindacato insieme a Generali e Sanpaolo, non ha neanche
sottoscritto l'ultimo aumento di capitale. Le agenzie di rating internazionale
hanno annunciato una revisione al ribasso del giudizio su Fiat, che
verrà probabilmente resa nota dopo l'assemblea della società in
calendario il 14 maggio. Nonostante gli impegni presi il 10 dicembre scorso,
con il siluramento di Roberto Testore e la sua sostituzione con Giancarlo
Boschetti alla guida del settore auto, il debito del gruppo non è calato
e le dismissioni annunciate non si sono trasformate in realtà. L'aumento
di capitale del gennaio scorso ha ridotto il debito totale a 32,4 miliardi di
euro, ma dei 2,5 miliardi di euro di vendite annunciate, ne sono state
realizzate sinora solo per 400 milioni. Troppo poco e troppo tardi per calmare
le acque di un mercato molto nervoso e agitato, che ha visto le quotazioni di
borsa di Fiat crollare dai 35 euro del marzo 2000, ai 12,45 euro del punto
minimo il 29 aprile 2002. La sola divisione auto era stata valutata 12 miliardi
di euro ai tempi dell'accordo con GM: lunedì scorso tutta la Fiat valeva
meno di 7 miliardi di euro!
Il crollo delle vendite nel primo trimestre 2002 ha completato il disastro.
Fiat ha venduto pochissime Stilo e la sua quota sul mercato italiano è
precipitata di continuo, con una caduta senza precedenti nel mese di marzo,
quando ha subito un vero crollo del 18% rispetto ad un anno prima. Ormai la
quota di Fiat è vicina al 30% del mercato nazionale, un mercato che
è diventato solo il decimo a livello mondiale. In Europa la Fiat
è scesa dal 10 all'8%, diventando il quinto produttore dopo Vw, Peugeot,
Ford, Renault. La ripresa del mercato americano, che sta spingendo GM, Ford e
la stessa Daimler-Chrysler, non può certo giovare alla Fiat, che in quel
mercato è presente solo in modo marginale con l'Alfa Romeo.
Il settore auto e i debiti consolidati sono i veri problemi del gruppo. A
dispetto di una strategia che ha cercato la diversificazione produttiva, il
baricentro del gruppo Fiat è rimasto pesantemente concentrato sul
settore "automotive". A differenza dell'Ifil di Umberto Agnelli, che ha preso
ottime partecipazioni in settori diversi come distribuzione, turismo,
alimentare, banche, ecc., e che spinge da tempo verso una rapida uscita
dall'auto, la Fiat di Gianni Agnelli registra ancora il 42% dei suoi ricavi da
Fiat Auto, una percentuale che sale però all'82% se comprendiamo anche i
trattori di CNH, i componenti di Magneti Marelli, i camion dell'Iveco, le
testate in ghisa della Teksid. Soltanto la Toro assicurazioni e la Fiat Avio
producono significative componenti di ricavi (e di utili) al di fuori
dell'automotive strettamente inteso.
È evidente dunque l'impressione che suscita la prospettiva di un
risoluzione traumatica del rapporto controverso che storicamente lega Torino
alla Fiat, e la paura che un evento di questo genere possa comportare una
cesura nella stessa storia industriale dell'intero paese. L'andamento della
produzione automobilistica nel torinese è già in qualche modo
segnata. La chiusura del Lingotto (1981), la chiusura della Lancia di Chiasso
(1990), la chiusura in corso di Rivalta non lasciano dietro molte speranze.
L'abbandono annunciato, entro il 2003, della produzione di Panda e Marea
porterà già il numero di auto prodotte annualmente nell'area
torinese da 500.000 a 180.000 nel giro di due anni. Se venissero trasferite
anche le linee della Punto, scenderemmo a 80.000 auto l'anno, con un impatto
devastante non solo sulla produzione diretta, ma anche sull'indotto. È
evidente che una cessione del settore auto alla GM comporterebbe conseguenze
drastiche anche per tutti gli altri stabilimenti italiani, dato che un piano di
razionalizzazione studiato tra Detroit e la Baviera non potrebbe che tagliare
anche in Italia l'eccesso di capacità produttiva installata in un
settore da molti considerato maturo.
A fronte di queste prospettive assai realistiche, si assiste alla consueta
parata di banalità e di proposte balzane. Lo storico di famiglia di casa
Fiat, Valerio Castronovo, invita alla rassegnazione, meditando sul fatto che la
company-town deve d'ora in avanti considerare l'auto solo uno stantuffo tra i
tanti e non la sua produzione centrale, mentre il grosso del lavoro
proverrà dalle grandi opere pubbliche in cantiere (Alta velocità,
metropolitana, passante ferroviario, Olimpiadi), come 150 anni fa, quando
Torino era capitale del Regno. L'"illuminata" classe dirigente non sa proporre
altro che un ritorno all'antico, finanziato dallo stato, come se avesse un
senso costruire delle infrastrutture pubbliche senza progetto e senza motore
propulsore sul piano produttivo. La sinistra (cioè in pratica la Fiom e
il Manifesto) si schiera per la difesa di una produzione opportunamente rivista
e corretta, appoggiandosi alla teoria che l'auto non è un prodotto
maturo, ma un prodotto da ripensare, dal punto di vista tecnologico e sociale.
Il futuro, secondo questo schema, è nell'auto all'idrogeno e
nell'utilizzo collettivo come mezzo condiviso di mobilità urbana. Un
modello di auto diverso, che inquina di meno o non inquina affatto, che viene
usato in modo non più privatistico, perlomeno nelle tratte urbane. La
linea di resistenza alla Fiat non si colloca quindi nella rivendicazione dei
prepensionamenti o degli ammortizzatori sociali per favorire la chiusura dei
siti produttivi, ma nella proposta di una politica industriale diversa,
finanziata dallo Stato, per rilanciare una produzione riconvertita.
Questa posizione non fa i conti con i limiti politici e finanziari della
situazione reale. La Fiat non ha mai discusso con nessuno le proprie scelte,
pur non disdegnando di incassare a vario titolo dallo Stato, negli ultimi 10
anni, qualcosa come 10.000 miliardi di vecchie lire. Le decisioni che
prenderà la Fiat, come è sempre accaduto nei suoi 100 anni di
storia, non sono dunque "socialmente" discutibili, perché nessun governo
della repubblica (e meno che mai quelli precedenti) ha mai avuto il potere di
condizionarne le scelte: né ci sembra che l'attuale governo abbia la
possibilità o l'intenzione di muoversi in modo diverso. D'altronde non
esistono dei rapporti di forza da far valere: da due anni la Fiat non discute
con i sindacati il contratto integrativo, né si può dire che dopo
l'ottobre '80 il sindacato abbia potuto discutere seriamente di qualcosa con la
Fiat.
Le sconfitte si pagano e quello che è accaduto dopo l'80 lo dimostra
benissimo. Non si tratta dunque di creare improbabili "tavoli sociali" per
discutere le scelte Fiat, ma di attrezzarci per pensare una nuova fisionomia
produttiva, che dovrà fare a meno del modello di sviluppo trainato dal
settore automobilistico. Sarebbe già un atto rivoluzionario, da parte
degli enti locali e in particolare degli amministratori "di sinistra",
rifiutarsi di pagare alla Fiat la rendita immobiliare che la famiglia quasi
sicuramente vorrà mettere all'incasso, dopo la liberazione degli enormi
spazi urbani derivanti dalla chiusura delle fabbriche.
Per i lavoratori, gli operai e i tecnici degli stabilimenti Fiat e del suo
enorme indotto si aprono seri problemi di reddito e di sopravvivenza, per la
città di Torino una fase molto delicata di ridislocazione produttiva,
per il paese intero arriva una resa dei conti dettata dalla sempre più
evidente marginalizzazione economica nella divisione internazionale del
lavoro.
Non si può dunque pensare di costringere la Fiat a trattare: non
è mai accaduto nelle fasi di sviluppo e di crescita, figuriamoci in una
fase in cui l'unica seria intenzione è chiudere tutto al più
presto, ricavandone il massimo prezzo possibile. È probabile che il
piano di dismissioni sia accelerato (si parla di 5 miliardi di euro di asset da
cedere entro il 2003), per fare cassa e riuscire a galleggiare fino al momento
della cessione totale a GM, ai prezzi più convenienti.
Dobbiamo imparare a fare a meno della Fiat e tutti sappiamo che non sarà
né facile, né piacevole. Nascondere la verità sarebbe
però una ipocrita perdita di tempo e può anche darsi che fra un
congruo numero di anni ci saremo resi conto che in fondo, senza Fiat, non si
vive poi così male.
Renato Strumia
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