![]() Da "Umanità Nova" n. 18 del 19 maggio 2002 Le illusioni nelle urne.Il rapporto movimenti/istituzioni è un annoso nodo politico sul quale la riflessione non è mai abbastanza. In occasione di scadenze elettorali, come quelle prossime del 26 maggio, seppure amministrative e parziali, il problema si pone dilatato rispetto alla sua quotidiana rilevanza, in quanto l'evento del momento elettorale scatena, da una parte, appetiti carrieristici di un ceto pre-politico che con-fonde il destino del proprio impegno con le sorti delle genti (oggi si dice moltitudini) di cui elevarsi a rappresentante più o meno legittimato dal voto, innovando solamente la sua posizione personale, dato che tale istanza di rappresentatività è vecchia quanto la democrazia delegata, con i risultati che sappiamo, e soprattutto con le urgenze di un suo oltrepassamento. Dall'altro, la ricerca del consenso quantitativo da parte di formazioni politiche che si costituiscono o appositamente per l'appuntamento elettorale, magari dietro il paravento di una lista civica, oppure stabilmente organizzate e quindi fisiologicamente protese a utilizzare al massimo quell'occasione pena la propria sopravvivenza, induce partiti e partitini a sedurre moltitudini di autorappresentanti dei movimenti (quelli più in vista, insomma, corteggiati dai media, identificati con il segmento del movimento) a scendere in campo entrando nelle liste, magari dietro il paravento di una indipendenza tutta da riscontrare. Anche qui nulla di nuovo sotto il sole, i risultati sono noti in anticipo, il mondo rimane quello che è (locale o globale, poco importa) e il nodo resta insuperato, irrisolto. Anche per la prossima scadenza del 26 maggio, il copione sembra essere pre-scritto pure dentro "l'autobus dei no-global", per riprendere un tema presente su queste pagine. Già il cd. movimento dei movimenti dimostra a livello nazionale di non masticare granché le minime regole di rappresentanza democratica radicale (identici portavoce senza rotazione, leader informali, assisi per intergruppo, organismi centrali, pardon, di continuità dissimulati, dinamiche per cooptazione, sottile censura discriminatrice nei media alternativi), mentre Lilliput, ad esempio, rilevante segmento del movimento, si è rifiutata di aderire alla nomenklatura dell'Italy Social Forum sulla base di una motivazione, espressa con nettezza da Alex Zanotelli, tra gli altri, in cui la questione della delega e della rappresentatività fa da sfondo alla decisione di restare estranei a tale modello iperpoliticista. Persino il settimanale Carta, tanto vicino alle forme del movimento, non può esimersi dal rilevare ambiguità nei forum sociali ipotecati da una politica antitetica al "fare società", ostacolando "la partecipazione di chi non sia già militante" (Editoriale del 9 maggio). A ciò si aggiunga che il 26 maggio si ripropone il tipico modello stantio della politica istituzionalizzata: partecipazione a liste di partiti (rifondazione soprattutto, ma anche ds e verdi) oppure liste civiche di movimento, nemmeno tanto trasgressive o futuriste quanto ad atteggiamento, ma proprio sinceramente protese ad ottenere quel minimo spazio dentro le roccaforti istituzionali a livello locale da usare da cuneo per l'allargamento dello spazio di agibilità del movimento eccetera eccetera. Dando per contata la buona fede dei singoli (ma non la "marpioneria" dei partiti), l'ingenuità è pari alla smemoratezza di una storia selettivamente intesa. Il disincanto verso le istituzioni - da Seattle a Genova passando per Napoli dovrebbe aver sedimentato una critica bipartisan a qualunque colore dei governi - si tramuta in una certa disinvoltura a transitare da un'aula consiliare a una assemblea di movimento, da un ricevimento al ministero al social forum nazionale, dal voto in parlamento all'interdizione in Palestina, come se tale disinvoltura non avesse effetti di potere: cumulo di autorevolezza, centralità del personaggio, visibilità mediatica, legittimazione delle istituzioni nella sua pluralità, accentramento di informazioni in una élite politica. Non si capisce più perché i fascisti debbano esistere, perché la polizia non può fare il suo mestiere repressivo, perché la magistratura non può arrestare chiunque, se le istituzioni consentono che piccole quote di potere istituzionale siano nelle mani degli "oppositori del sistema". La logica incommensurabile della differenza qualitativa tra questo mondo e un altro mondo in costruzione, realmente alternativo oltre che possibile, si appiattisce sui rapporti di forza elettorali: chi vince è legittimato a governare nelle regole del gioco che una maggioranza parlamentare può persino modificare a proprio ulteriore vantaggio, e chi perde aspetta la rivincita, magari usando la piazza per tutelare la propria opposizione nei luoghi istituzionali. Cosa ci sia di alternativo e di nuovo, francamente mi sfugge. Certo, la diserzione libertaria dai luoghi delle istituzioni, e soprattutto dalle sue logiche quantitative, non può limitarsi a tradursi semplicemente nell'astensionismo elettorale, a cui magari addebitare le sconfitte elettorali della sinistra (Francia)... per doversi addirittura discolpare e chiedere perdono se non si crede in un meccanismo e in una logica che permettono a Le Pen di sopravvivere agiatamente (in senso politico). Ovviamente il nodo movimenti/istituzioni resta insoluto anche per chi sceglie di disertare le urne, in quanto la politica, anche quella istituzionalizzata, non si esaurisce pur esaltandosi nella giornata elettorale, ma vive giorno dopo giorno, alimentandosi del consenso e della legittimità proveniente dalla partecipazione alla cosa pubblica appropriata dalle istituzioni - infatti non esiste solo una appropriazione privata, dell'acqua per esempio, ma anche una appropriazione pubblica-statuale, altrettanto dannosa della prima. È da questa Scilla e Cariddi che occorre sfuggire, e questa sarebbe la sfida di un reale movimento radicale che voglia praticare un altro mondo possibile. Ancora non ci siamo, se le "novità" sono liste di movimento (stile Nuova Sinistra Unita), candidati civetta (così si dice tecnicamente nei manuali di Scienza politica), nuove tasse ma giuste e di sinistra (stile Franklin D. Roosevelt e il New Deal), bilanci partecipativi in cui la sinergia tra istituzioni e assemblee popolari si cimenta sulle briciole di destinazione di fondi (Porto Alegre è questo) sui quali controllo e decisionalità è men che zero, con l'aggravante che partecipando fittiziamente alla tranche di bilancio difficile sarà costruire conflitto con quelle stesse istituzioni che concedono appunto briciole, riservandosi per norma di legge le scelte sulle quali la vertenza si disloca nella compartecipazione tutta istituzionale. Dalla strada e dalla coscienza progettuale di una utopia alternativa e possibile ora, il conflitto diventa dialettica nei luoghi istituzionali, convergenza tattica, programmazione tecnica, sapere amministrativo, scambio di "favori", spazi ad iniziative di movimento (Forum Sociale Europeo, ad esempio) la cui concessione disinnesca ogni critica autonoma e indipendente. Roba da élite, appunto, da ceto politico, come recitano puntualmente i manuali accademici.
Ovviamente disertare le urne non può essere d'altronde una scelta autoreferenziale, che si limita e si chiude in se stessa senza fare di tale scelta un punto di forza, un volano per spiazzare (e spezzare) quel nodo che stringe movimenti e istituzioni, anche con la necessaria gradualità trasparente a se stessa. La tensione partecipativa è reale, specie in una democrazia delegata la cui pratica perversa si è insinuata nelle parti alte dell'"autobus", e su di essa va esercitata una riflessione creativa. L'idea ancora vaga di Municipi Liberi, alternativi e conflittuali, extra-istituzionali e con agende legate ai temi della cittadinanza, insomma una sorta di consiglio municipale partecipato senza delegati, che si occupi dei problemi quotidiani ipotizzando approcci di soluzione con cui confliggere con il sistema politico istituzionale, può essere un modello da cui muovere per dare contenuto di radicamento permanente e quotidiano alle istanze che legano le soluzioni non a un ceto elitario, bensì alla forza di una pressione globale dal basso che trovi consistenza anche sul piano locale senza smarrire il tenue legame che stringe individui, uomini e donne, in ogni "sud" violentato e sfruttato del pianeta. Salvo Vaccaro
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