![]() Da "Umanità Nova" n. 18 del 19 maggio 2002 Fisco. Riformismo al contrarioNei giorni scorsi la Camera ha approvato in prima lettura la legge delega sulla riforma fiscale, il terzo capitolo (dopo mercato del lavoro e previdenza) del disegno governativo di cambiare il volto del nostro Paese. Il caso ha voluto che la riforma partisse proprio nel momento in cui venivano resi noti i conti del bilancio dello stato relativi al primo quadrimestre dell'anno. Conti che sembrano ancora una volta dare ragione a chi considera la destra al governo assai meno affidabile dei bravi ragionieri del centro-sinistra, che con encomiabile zelo erano riusciti nel decennio precedente a dare una sterzata alla deriva deficitaria o perlomeno convincere i nostri partner internazionali ad essere capaci di farlo. Per capire dunque la reale portata e fattibilità dei progetti di Berlusconi e Tremonti sarà bene analizzare la questione partendo dalla situazione reale dei conti statali. Il governo è in carica da quasi un anno e si avvicina il tempo dei primi bilanci. In realtà da gennaio 2001 a febbraio 2002 il debito pubblico statale è aumentato di 48 miliardi di euro, circa 850 euro in più per ogni abitante. Si tratta di un aumento del 3,7% che va confrontato con un aumento del Pil nominale del 4,3%. In altre parole siamo ancora sotto la soglia di allarme, ma se il Pil dovesse contrarsi per il prolungarsi della recessione, ricomincerebbe a peggiorare il rapporto debito/Pil, uno dei parametri chiave per raggiungere la convergenza con la media dei paesi dell'Uem: non dobbiamo dimenticare che l'Italia continua ad essere un paese a sovranità limitata, sotto stretta sorveglianza fiscale. Nel primo trimestre del 2001 il gettito è calato del 7.7% e quindi qualche segnale di preoccupazione sta cominciando a serpeggiare anche nell'establishment ufficiale. Il governo continua a fare previsioni su una crescita del Pil del 2,3% per il 2002, ma se così non fosse (e nulla lascia pensare che le cose andranno davvero così bene), andrebbe a ramengo sia l'obiettivo di contenere il rapporto deficit/Pil sotto lo 0,5% (già ora assai improbabile), sia l'obiettivo di arrivare al pareggio entro il 2003. Ci sono almeno tre ragioni che danno conto di questo mezzo fallimento: la politica di "rilassamento" pre-elettorale con cui l'Ulivo ha tentato inutilmente di vincere le elezioni del maggio 2001; la sfiga della congiuntura mondiale, crollata rovinosamente prima, durante e dopo la crisi dell'11 settembre; la rigidità della spesa pubblica, a fronte di clientele sempre affamate di riscuotere in denaro sonante la fiducia accordata con il voto e soprattutto la difficoltà di cambiare a fondo i meccanismi tradizionali di costruzione del consenso (vedasi accordo del pubblico impiego).
Il Polo ha dunque i suoi guai nel passare dalla teoria alla pratica e la legge delega sul fisco, per tornare a bomba, lo dimostra pienamente. L'evoluzione storica del sistema fiscale italiano ha sempre copiato con ritardo i modelli anglosassoni, arrivando peraltro ad una struttura "moderna" soltanto all'inizio degli anni '70, con la riforma del 1973. In quell'occasione vennero delineate le coordinate fondamentali dell'imposizione fiscale, attraverso la razionalizzazione e l'istituzione delle due tasse chiave nell'evoluzione della struttura tributaria successiva: l'Irpef (imposizione diretta) e Iva (imposizione indiretta). Il Paese, finalmente maturo nella sua struttura industriale, si dotava di un sistema fiscale adeguato, in modo da allargare la base imponibile e finanziare una serie di "riforme" che la stessa mobilitazione sociale aveva "imposto" dopo l'autunno caldo. Tutto ciò si svolgeva nell'alveo tradizionale della dottrina fiscale moderna: individuare il reddito personale come base dell'imposizione diretta, colpire l'incremento di valore nei vari passaggi dello scambio di beni per quanto riguarda l'imposizione indiretta, salvaguardare il patrimonio da ogni "attacco alla proprietà", difendere dal fisco gli utili d'impresa di un sistema capitalistico particolarmente gracile. La progressività dell'imposta, prevista dalla stessa Costituzione, veniva attuata formalmente (l'aliquota più alta era al 71%), ma il suo funzionamento pratico, come già dimostravano studi americani dei primi anni '60, era tutta un'altra cosa. La capacità delle classi possidenti di eludere l'imposta, soprattutto in presenza di aliquote formalmente alte, era altissima e tale da aggirare bellamente la sostanza del quadro normativo. L'effetto pratico della riforma degli anni '70 fu includere in modo massiccio il reddito delle classi subalterne nella base imponibile, mentre nella fase storica precedente (e soprattutto fin tanto che la struttura produttiva era rimasta ancora centrata sull'agricoltura) i proletari avevano pagato duramente soltanto tramite l'imposizione indiretta sui consumi. L'esplosione inflazionistica degli anni '70 finì per accelerare ancora di più, e in maniera impensabile, queste dinamiche. Il "fiscal drag" cominciò a galoppare selvaggiamente erodendo i salari in modo esponenziale, facendo crescere in modo rapidissimo la pressione fiscale a livelli mai visti. La riduzione delle aliquote, da 32 a 7 e poi a 5, non ha fatto altro che unificare al rialzo il livello di imposizione media. La crisi del '92-'93, la spirale perversa del debito pubblico e le feroci politiche budgetarie per centrare l'obiettivo di Maastricht hanno fatto esplodere la "crisi fiscale" dello stato, che peraltro si è dovuta affrontare con misure straordinarie di vario tipo: la tassazione una tantum sui depositi, l'istituzione dell'Ici sui fabbricati, la "tassa per l'Europa" di Prodi e così via in un continuo riproporsi di finanza creativa destinata a tappare buchi sempre nuovi con spremiture sempre vecchie. La drammatica contraddizione tra "rivolta fiscale" e necessità di nuove tasse non sarà quindi un tema destinato a scomparire presto. Ogni governo cerca di chiamare con parole nuove politiche vecchie e a questo dettame non si sottrae neanche la scompaginata coalizione politica denominata Casa delle Libertà. Nel disegno di legge Tremonti ad esempio c'è la riproposizione di un vecchio dibattito, che data perlomeno da una decina d'anni e che attraversa gli schieramenti politici. La riduzione delle aliquote era stata proposta da Visco già nel 1986 e poi messa nero su bianco dal Tremonti del 1994, poco prima di venire trombato insieme al resto del suo governo. Allora il commercialista più antipatico esistente in Italia proponeva un ventaglio di ipotesi, per poi dichiararsi favorevole ad una riduzione a tre aliquote (20% - 30% - 40%). Nel disegno di legge attuale le aliquote scendono addirittura a due (23% fino a 100.000 euro, 33% oltre), ma nella sostanza non c'è ancora nulla di definito. Sulla carta, ad esempio, la legge delega finirebbe per aumentare la pressione fiscale sui redditi fino a 20.000 euro, accorderebbe qualche lieve vantaggio ai redditi medi, mentre favorirebbe enormemente i redditi più alti, svuotando lo stesso principio della progressività dell'imposta ed il dettato costituzionale. Questo rientra a pieno titolo nell'ondata ideologica conservatrice che ha investito il mondo intero a partire dall'inizio degli anni '80, che assume la progressività dell'imposta come un indebito esproprio delle classi economicamente egemoni, e addirittura come un disincentivo all'attività imprenditoriale. Tasse troppo alte deprimerebbero l'economia, il vangelo reaganiano trova ancora i suoi apostoli anche dopo i fallimenti sul campo. In realtà abbiamo visto che la progressività dell'imposta funziona poco e male e che i suoi mentori ufficiali (in particolare i riformisti del centro-sinistra) hanno spesso agito in senso contrario all'atto pratico (la riduzione dell'aliquota più alta dal 63 al 45% non è forse stata frutto dei governi dell'Ulivo?). La gran parte dei dettagli del disegno di legge non sono noti. Ad esempio non è stata quantificata la "no-tax" area, cioè la fascia di reddito esente da imposte (si parla di una cifra tra 6.000 e 9.000 euro). Non è stato chiarito il nuovo meccanismo delle deduzioni, che devono sostituire le detrazioni. Il processo di riduzione è distribuito nel tempo, da qui al 2006, ma ogni anno il governo stabilirà in finanziaria le aliquote effettive. Potrà poi effettuare aggiustamenti per garantire l'equilibrio di bilancio, anche senza passare attraverso l'approvazione di una nuova legge finanziaria. Insomma, ci troviamo di fronte ad un indubbio tentativo di modificare in senso regressivo la distribuzione del reddito, ma anche di fronte ad un bluff demagogico che dovrà fare i conti con pesanti condizionamenti di bilancio. La sinistra trombata grida allo scandalo, pentita come sempre di non averci pensato per prima. Viene segnalato pubblicamente il pericolo di un consapevole attentato alla stabilità dei conti pubblici, per poter avere poi buoni argomenti nel tagliare drasticamente la spesa sociale di almeno 50 miliardi di euro entro il periodo di entrata a regime della riforma, cioè entro il 2006. Sarebbe forse più utile chiedersi quale difesa della spesa sociale sia stata attuata dalla sinistra al governo in 13 paesi d'Europa su 15 nello scorso decennio, e quale contributo sia stato dato al risanamento dei conti pubblici, oltre alla più massiccia ondata di privatizzazioni della storia moderna. Sarebbe forse più utile aprire un dibattito sulla reale distribuzione del carico fiscale, visto che i governi dell'Ulivo hanno cercato in tutti i modi di usare la mano leggera nella tassazione dei capitali e soprattutto degli utili d'impresa. L'Irpeg non ha mai dato un contributo significativo alle casse pubbliche ed il 70% delle imprese italiane esiste per distruggere ricchezza, visto che chiude i bilanci ufficiali in perdita. In una fase di forte ripresa degli utili societari, le aziende hanno pagato sempre meno, sfruttando i vari meccanismi incentivanti legati alla Dit (Dual Income Tax), una tassa che in sostanza detassava fortemente gli utili reinvestiti. Contemporaneamente, attraverso la tassa sul Capital Gain, Visco si è ripreso una buona fetta dei profitti di Borsa conseguenti alle privatizzazioni, prima che i prezzi delle azioni crollassero, lasciando di sale il parco buoi dell'azionariato diffuso. La questione fiscale va certo analizzata con molta più profondità di quanto sia stato qui possibile fare. È molto probabile che la stragrande maggioranza del lavoro dipendente assapori ben pochi vantaggi della riduzione delle aliquote e ci sono forti probabilità che qualche lavoratore veda addirittura crescere l'ammontare delle tasse da pagare. Il blocco sociale che si è formato sull'asse Tremonti-Bossi ha come cemento l'abbassamento della pressione su categorie ben definite, in particolare la piccola e media impresa e il popolo delle partire Iva. Tutti gli altri si troveranno magari a pagare più tasse agli enti locali, come sta già accadendo in grande stile sul versante della spesa sanitaria. In ogni caso vorremmo perlomeno evitare di dover sentire certe prediche, da certi pulpiti. Renato Strumia
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