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Da "Umanità Nova" n. 18 del 19 maggio 2002

Migranti. Le impronte della nostra vergogna

Il deputato Isabella Bertolini di Forza Italia ha presentato un emendamento alla Legge Bossi - Fini, col quale si prevede che lo straniero che chiede il permesso di soggiorno o il suo rinnovo, deve essere sottoposto a rilievi fotodattiloscopici. L'emendamento non prevede eccezioni di sorta. Il deputato Francesco Rutelli della Margherita appoggia tale emendamento, purché, nel più puro spirito garantista, sia esteso anche a tutti i cittadini italiani.

Mi chiamo Ibrahim, vengo dalle montagne magrebine, ho lasciato il mio villaggio spopolato dall'emigrazione. Sono rimasti solo i vecchi, anche i miei genitori sono ancora là. Sono sette anni che non li vedo. Mio padre, mia madre, che mi hanno allevato con fatica e amore. Ma sono qui, in Italia, finalmente. Ho un lavoro, è dura, è durissima, ma per me va bene. Lo so, della fonderia c'è sicuramente qualcosa di meglio, ma che posso farci. Questa è la mia vita, il mio mestiere. Dopo sette anni finalmente sono riuscito a far venire qui la moglie, a costruirmi una famiglia, finalmente. La solitudine di sette anni è finita, ho finito di ubriacarmi e di umiliarmi. Finalmente. Che mi importa se dopo sette anni mi trattano ancora come un criminale, se ancora il poliziotto mi da del tu, se ancora il padrone, quando mi da la busta, la fa cadere dall'alto. Finalmente ho un salario. E una dignità. Che le prendano le impronte, non hanno neanche bisogno dell'inchiostro, le mie mani sono già nere del fumo della fonderia.

Sono Franziska, sono polacca. Con tante mie amiche ci diamo il turno, qui in Italia, ad assistere le persone anziane. In casa o nelle residenze protette. E lo facciamo bene, con serietà, qualche volta anche con affetto. Mio marito e i miei figli sono rimasti a casa, lui fa l'operaio, è caduto il comunismo, abbiamo finalmente la libertà capitalista e la domenica possiamo andare a messa liberamente. Ma capirete, con un solo stipendio non riusciamo neppure a mangiare. Non mi posso lamentare, però. Qui c'è bisogno di gente come noi, che faccia quello che non volete, o non potete più fare. Prendetemele dunque le impronte, se il male deve essere questo, tanto le mie mani sono già sporche degli escrementi dei vostri vecchi. Ma il vostro inchiostro, e il pensiero che ci sta dietro, sono più sporchi.

Per i clienti sono Vanessa, però il mio nome è Safyra, come quella diventata famosa. Sono nigeriana. E puttana. Non era la mia vocazione, ma mi ci adatto, che posso fare del resto? In patria non potevo neanche sfiorare un uomo, qui i miei connazionali si arrabbiano se non la do almeno dieci volte a sera. Non l'ho chiesto io di venire in Italia però. Stavo bene anche dov'ero. Era vita quella? È vita questa? Comunque, a giudicare da quanto lavoro, sembrerebbe che in Italia non se ne potesse fare a meno di puttane di colore. O extracomunitarie, come le chiamate voi. Conosco tutte le periferie delle vostre città affamate di sesso esotico, e non vi dico le sorprese, se raccontassi dei miei clienti. Razzisti forse, ma quando mi sono vicini non si lasciano impressionare dal mio colore. Anzi. E anche quelli che torneranno a prendermi le impronte, quante volte hanno goduto delle mie mani!

Vengo da Manila, ho studiato dai preti, ho fatto il soldato, a fianco degli americani. Ho sempre fatto il mio dovere. Il vostro, anche. Ora faccio il domestico, mi chiamo Ignacio. Sono in regola, sono sempre stato in regola, siamo brava gente noi filippini, orgogliosi del nostro lavoro e di farlo bene. Quindi non capisco questa storia delle impronte, ho sempre creduto che fossero per i criminali, per i delinquenti, non per chi è onesto e non ha mai sputato nel piatto in cui mangia. Che direbbero, poi, se mi presentassi a servire in tavola con le mani sporche di inchiostro? Mi licenzierebbero? Sono dodici anni che vivo nel vostro paese, tanti famigliari mi hanno raggiunto, e nella nostra comunità non abbiamo bisogno che ci vengano a dire come comportarci. Sappiamo fare da soli. Ma vedrai che alla fine il mio padrone, che è una persona tanto importante, riuscirà a fermare questa legge di merda. Altrimenti mi toccherà sputare nel piatto in cui mangio. C'è scritto anche nella Bibbia, del resto: occhio per occhio...

Sono Enver, sono l'albanese, sono il vostro nemico numero uno, il vostro incubo, la vostra paranoia collettiva. Sono giunto con il gommone, come tutti noi. Sono un clandestino, come tutti noi. Sono cattivo e infido, pronto a colpire, come tutti noi. Sono rumoroso e spavaldo, quando mi trovo con i miei amici. E voi vi innervosite, vi prendete paura, vi sentite invasi e pensate che si debba fare qualcosa, qualsiasi cosa. Un fetente di politico che cavalchi le vostre paure non manca mai. Forse rimpiangete quando eravamo rinchiusi dal mio omonimo Enver. Enver Hoxha, lo ricordate? Ma la "fine del comunismo" ha i suoi alti e bassi, i suoi pro e contro. Io sono il vostro contro. Che buon pro vi faccia. Qui comunque faccio il muratore, a Tirana ho fatto il liceo, poi sono mancati i soldi perché la mia famiglia non mangia dalla mafia, quella albanese creata da voi e dal vostro governo. I miei soldi vanno tutti a casa. Qui consumo poco, mi dispiace per voi. Non vedo l'ora di tornare al mio paese. Le impronte prendetele pure, non sarà certo l'ultima umiliazione. Però dalla mano sinistra, la destra è fasciata, sono caduto dall'impalcatura del cantiere, dove gli albanesi sono tanti ma le misure di sicurezza poche. Si sa, con noi si può risparmiare, e di gommoni è pieno il mare.

Ho speso tutto, ho venduto tutto, sono rovinato, ma finalmente siamo qui, io Kemal e la mia famiglia. Finalmente siamo nella patria del diritto, nella culla della civiltà. Siamo scappati dal Kurdistan. Quale Kurdistan? Quello turco, quello iracheno, siriano, iraniano? Non importa, ovunque siamo prigionieri politici. Ma finalmente siamo in Italia, in Europa, a gustare il profumo della libertà. Sì, va bene, una libertà pagata cara, carissima, per entrare nessuna via legale, solo una traversata infame in balia di gente altrettanto infame di quella che ci ha costretti a scappare. Li abbiamo visti tutti in combutta, alla partenza e all'arrivo, a spartirsi, sulle due sponde, il lavoro della mia vita. Alla luce del sole e nell'oscurità, ma così sia, nell'oscurità non vogliamo più vivere. Non c'erano mai riusciti i turchi, ma so che voi ce la farete. Bravi, avete ragione, prendeteci le impronte, anche ai bambini. Perché anche loro, spero, cresceranno.

Sono più gli anni passati in Italia, ormai, che quelli in Iran. Io, Mohsen, qui ho studiato, qui mi sono laureato, qui lavoro, in ospedale, nel reparto di chirurgia intensiva. Qui ho una moglie italiana, qui ho dei figli, degli amici, colleghi, come fratelli. Qui la gente mi vuol bene, ci vuol bene. Ogni giorno, in ospedale, dimentico dove sono nato e lavoro, con coscienza, con dedizione, per tutti. Sì, d'accordo, anch'io come gli altri continuo a sentirmi un po' straniero, perché, capirete, non si può dimenticare il profumo della propria terra. Però non mi sembra un motivo sufficiente per prendermi le impronte digitali, il rilievo fotodattiloscopico, come diavolo lo chiamate. A nessuno dei miei colleghi è stato chiesto, eppure non sono meno bravo di loro.

Sono Kai, di Canton, e faccio fatica a comunicare con voi, perché nonostante sia in Italia da tempo, vivo segregata nel laboratorio, e l'italiano, davvero, non ho occasioni per parlarlo. Ho poco da dire comunque, non credo che i vostri poliziotti riusciranno a scovarmi. Non ci riescono nemmeno i miei parenti, in Cina, a sapere dove sono e a venire a liberarmi. Ma ogni notte ci penso, così come facciamo tutte noi. Un compagno, a Canton, mi aveva parlato di capitalismo. Francamente non ho capito cosa volesse dire. Comunque non credo sia una buona cosa. Ogni tanto sentiamo bussare alla porta e qualcuno parlare in italiano con la nostra sorvegliante. Un parlottare fitto, bisbigli e bisbigli, un frusciare di soldi, e poi più niente. Verranno, finalmente, a prenderci le impronte digitali?

Ormai mi conoscete, sono stato fra i primissimi ad arrivare. Sono Diop, vengo da Dakar, si proprio quella, quella della Parigi-Dakar. Bei posti, vero? Che motivi ho di essere allegro? Molti o forse nessuno. Ho una laurea in sociologia, parlo tre lingue, e continuo a vendere fazzoletti sotto i portici di Bologna. Bella città Bologna. Era bella quando c'erano i comunisti, era bella quando c'era il centrosinistra, è bella oggi con Guazzaloca. Come? Ci sarebbe qualche differenza? Certo, fra la gente, fra chi mi rispetta e chi mi insulta la differenza c'è, eccome! Per come sono stato accolto dalle istituzioni, trovatela voi una differenza, se siete capaci! Il potere è potere, e per raggiungerlo c'è chi sarebbe disposto a vendere anche.... No, no, non pensate male. Anch'io vendo, anch'io, nel mio piccolo, faccio parte della struttura produttiva di questo grande paese. Che le prendano pure le mie impronte, se questo può servire a raffreddare l'isteria dei bravi cittadini italiani, così spaventati di averci in mezzo a loro. Ah, dimenticavo, bisnes is bisnes. Vu' cumprà fazzoletto? Mille lire, amigo.

Ibrahim, Franziska, Safyra, Ignacio, Enver, Kemal, Mohsen, Kai, Diop

scrittura di Massimo Ortalli



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