|
Da "Umanità Nova" n. 19 del 26 maggio 2002
Terapia di gruppo per la Fiat
Lavoratori in rottamazione
La terza settimana di maggio è stata assai ricca di eventi per lo
sviluppo della crisi Fiat. Il 14 maggio si è svolta l'assemblea degli
azionisti del gruppo per valutare il bilancio finale 2001 e l'azienda ne ha
approfittato per sfornare una serie di dati sull'andamento disastroso del primo
trimestre e fare deflagrare il "caso Fiat". Le cifre del disastro non sono
più una indiscrezione giornalistica, ma numeri esatti diramati in sede
ufficiale. Il gruppo ha prodotto l'anno scorso 2.050.000 veicoli , con un calo
di quasi 300.000 unità rispetto all'anno precedente (un anno che
è stato archiviato con dati record per il mercato mondiale). Il settore
auto di Fiat ha prodotto perdite per 1.442 milioni di euro, che si aggiungono
ai quasi 600 milioni di euro perduti nel corso del 2000. In due anni l'auto ha
dunque bruciato 2.000 miliardi di euro Nel primo trimestre 2002 la perdita del
settore auto è stata di 429 milioni di euro. Quindi in poco più
di due anni la Fiat Auto ha perso quasi 2.5 miliardi di euro, cioè quasi
5.000 miliardi di lire. Infatti il debito netto (cioè lo sbilancio tra
debito totale e crediti da incassare), anziché ridursi come era stata
promesso al momento di decidere l'aumento di capitale del dicembre scorso,
è salito da 6 a 6,6 miliardi di euro. Le vendite del primo trimestre
sono state pari a 518.000 veicoli, cioè il 15% in meno del primo
trimestre 2001. Tutto questo mentre tutti i principali concorrenti di Fiat
riescono a crescere e rosicchiare quote di mercato ai suoi danni, relegando la
produzione del Lingotto su terreni sempre più asfissianti. L'andamento
dell'azione riflette esattamente la crisi di sopravvivenza del gruppo:
dall'inizio dell'anno Fiat ha perso in borsa il 24%, mentre General Motors
saliva del 38%, Peugeot del 26% e tutti gli altri registravano crescite magari
irrisorie, ma positive. Di fronte al delinearsi di questo disastro, gli
amministratori hanno dovuto fare qualcosa di più che annunciare il
taglio del proprio stipendio del 40%, in linea con il calo del titolo.
Naturalmente in questi casi si parte da una bella ristrutturazione, industriale
e finanziaria: in termini di ricaduta sociale, partono i tagli degli
stabilimenti e negli stabilimenti. Fiat ha annunciato che chiuderà 18
stabilimenti (2 in Italia e 16 all'estero), ed ha precisato l'entità dei
tagli occupazionali che farà in Italia. Si tratta in totale di 2.442
dipendenti diretti e 445 addetti delle aziende di Servizio (Gesco e Sepin). La
scelta sembra essere ricaduta più che altro sul "numero di matricola",
cioè sono stati individuati i lavoratori che avevano i presupposti per
usufruire della "mobilità corta", quindi gli ultracinquantenni che
dovrebbero maturare il diritto alla pensione entro i prossimi due anni.
Ciò spiega il forte impatto dei tagli sulle zone di più antico
insediamento produttivo (1.655 addetti diretti a Torino, più 350 addetti
Gesco e 140 Sepin), mentre stabilimenti "prato verde" come Melfi non sono
toccati dalla ristrutturazione. In realtà lo stesso Fresco ha
riconosciuto che la dimensione complessiva della manovra potrebbe coinvolgere
non meno di 10-12.000 addetti nel ciclo produttivo dell'indotto, con un impatto
francamente devastante sul tessuto produttivo del comprensorio torinese. Va poi
considerato che il ridimensionamento produttivo non conteggia tra le sue sicure
vittime migliaia di lavoratori interinali che lavorano in Fiat o per le
fabbriche sue fornitrici, che vedono definitivamente compromessa la
possibilità di vedere mai un giorno la conferma e la stabilità
del posto.
Per capire come sta cambiando la città basta scorrere poche cifre su
questi ultimi 10 anni: nel 1991 Mirafiori occupava 40.680 addetti, Rivalta
12.200, la Lancia di Chivasso 5.500; oggi Chivasso è chiusa da 10 anni,
Rivalta sta per essere chiusa e a Mirafiori lavorano ancora in 9.900. La
realtà è che la Fiat è in contrazione da sempre, dopo il
1980, e l'apertura di nuovi stabilimenti come Termoli, Melfi e Pratola Serra
non è servito che a nascondere la verità di una produzione che si
sposta verso nuovi terreni vergini, sfruttando risorse meno costose e corposi
finanziamenti pubblici, in buona parte a fondo perduto. Il dato occupazionale
di un anno "normale" come il 2001 è esplicito: i dipendenti del gruppo
Fiat sono scesi da 221.000 a 199.000, con un calo superiore al 10%!
In questa fase la Fiat ha deciso di usare la mano leggera, richiedendo come
strumento gli ammortizzatori sociali già disponibili, senza rinunciare
comunque ad utilizzare tutti i mezzi di cui dispone per volgere a proprio
vantaggio la sensibilità politica subito espressa tempestivamente da
governo, amministratori locali e dirigenti sindacali. La pressione della Fiat
si è subito concentrata su alcuni obiettivi specifici, che possono dare
un vantaggio non solo temporaneo come si è rivelata essere in passato la
rottamazione. La transitorietà di questo tipo di incentivo è
infatti un'arma a doppio taglio: il mercato viene "drogato" per un certo
periodo, consentendo un utilizzo intensivo degli impianti ed un'impennata della
domanda. Esaurito l'effetto stupefacente, il mercato si siede e i problemi
tornano più gravi di prima.
La direzione che sta prendendo l'intervento pubblico in favore di Fiat è
invece proprio quello auspicato dal Lingotto: un incentivo permanente per
eliminare i veicoli ad alto impatto inquinante, con premi individuali elevati
per chi si converte al gas o al metano (attualmente l'incentivo è, dal
dicembre scorso, di 200 euro a testa). Naturalmente si tratta di agire a
più livelli: il governo può incentivare, le Regioni possono
diramare normative più severe (come sta facendo Formigoni), la Fiat
può proporre modelli a metano su scala più vasta, gli
investimenti in ricerca e sviluppo sulla "fuel cell" elettrica possono essere
direttamente messi a carico dello Stato. Si tratta, ancora una volta, di creare
un "sistema paese" congeniale al modello di sviluppo Fiat, in assenza del quale
scatta il ricatto: se volete che Fiat rimanga italiana, dovete pagarne il
prezzo. Le auto a metano prodotte e vendute da Fiat potrebbero così, da
qui al 2005, salire da 300.000 a 3.000.000, ma va creata una rete di
distribuzione a carico dello stato, perché gli attuali distributori
(pochi e concentrati solo in poche zone del centro nord) sono insufficienti per
supportare una circolazione di massa, e costruirli è costosissimo (da
250.000 a 500.000 euro l'uno), per cui mai nessun privato si lancerà mai
nell'impresa senza spinta e soldi pubblici.
In sostanza quindi abbiamo assistito al solito "refrain". La Fiat è in
condizioni disastrose. Per ripartire ha bisogno di aiuti pubblici. Per problemi
di normative comunitarie, questi aiuti non possono essere sfacciati e minare la
concorrenza, ma devono essere giustificati con una "buona causa" (il rispetto
dell'ambiente). Il sostegno pubblico e la "comprensione" sindacale sono
elementi essenziali del salvataggio. Solo a queste condizioni la Fiat
farà la sua parte.
La sua parte consiste nel risanamento finanziario, basato su tre assi:
quotare la Ferrari e ricavarne almeno 800 milioni di euro;
vendere Comau, Teksid e Magneti Marelli, con il metodo dello spezzatino, per
incassare di più;
ridurre i propri costi attraverso le sinergie dell'accordo con General Motors,
producendo più componenti comuni.
A livello commerciale, si può sintetizzare la strategia del nuovo
amministratore delegato dell'Auto Boschetti con poche priorità:
riposizionare Fiat sui segmenti di mercato più redditizi, sfidando la
propria tradizione di costruttore di utilitarie e cercare di produrre auto
più ricche e costose per mercati "affluent";
rilanciare il proprio ruolo nei segmenti bassi, producendo un modello che
erediti il mercato di Panda e Seicento;
cercare di riconquistare posizioni nel segmento "C" con una diversa politica di
prezzo della Stilo, che ha floppato nei suoi primi otto mesi di lancio.
razionalizzare ancora la sua rete distributiva, soprattutto italiana, riducendo
a non più di 600 il numero delle concessionarie, con un obiettivo di
vendita per ciascuna di almeno 1.000 pezzi venduti all'anno.
Nessuno sa dire se funzionerà. I più critici sostengono, con
buone ragioni, che Fiat non ce la può fare a vincere la sfida. La
struttura societaria a carattere familiare non sarebbe in grado di reggere agli
ingenti investimenti richiesti da una filiera produttiva impegnativa come
l'auto. La qualità non rientra nella tradizione Fiat, se non a parole, e
questo è diretta conseguenza della (scarsa) qualità del
management. Il carattere di gestione per delega rende poi questi dirigenti
così importanti da non essere facilmente sostituibili in tempi brevi,
per vari motivi (ad esempio Cantarella è considerato un dittatore
incapace, ma fa parte della famiglia perché ha sposato una Nasi, quindi
inamovibile).
La realtà è che Fiat vale così poco, rispetto ai suoi
concorrenti, che un ennesimo tentativo di rilancio è irrinunciabile.
Venderla adesso sarebbe proprio il momento peggiore. La proprietà deve
farla decollare ancora una volta, entro un paio d'anni, e poi disfarsene con un
buon ricavato. Fino ad allora Fiat è disponibile a "farsi aiutare" da
tutti, perché funziona sempre lo schema antico del socializzare le
perdite e privatizzare i profitti. E in questo momento vale la prima parte
dell'adagio.
Renato Strumia
| |