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Da "Umanità Nova" n. 19 del 26 maggio 2002

Sicilia
Sete e rassegnazione

Agrigento, sabato 18 maggio 2002: marcia per l'acqua. Dopo la protesta degli abitanti del quartiere Borgo Nuovo di Palermo, lunedì 13 maggio, finita tra gli arresti e le cariche della polizia, la marcia di Agrigento rappresenta un momento di verifica dell'innalzarsi dello scontro sociale nell'isola. Tutti i commentatori ritengono che sulla questione idrica, e su quelle ad essa collegate della crisi agrumicola e di quella degli allevamenti, si gioca il futuro del governo di centro-destra nell'isola. Questo perché il presidente della regione Cuffaro ha ricevuto sei mesi addietro dal generale Iucci, già commissario straordinario, la pesante eredità della gestione delle risorse idriche in Sicilia. Cuffaro è recidivo: assessore all'agricoltura del precedente governo Capodicasa, di centro-sinistra, ha già avuto modo di dimostrare tutta la sua incompetenza (ma è proprio vero?) sulla questione. Alla vigilia delle elezioni amministrative, quella di Agrigento appare quindi l'ultima speranza di una improbabile riscossa propagandistica del centro-sinistra, dato per perdente alla grande dovunque si voti.

E invece la marcia si rivela un flop: meno di 400 i partecipanti, pochi gli agrigentini. Assenti persino il sindaco della città e il presidente della provincia. Ma questo fallimento era davvero inatteso? Cosa vi si nasconde dietro?

Dietro vi stanno anni e anni di assuefazione allo statu quo, di adattamento degli stili di vita a turni di erogazione sempre più sfibranti, di sostituzione della sfiducia nella politica dei partiti con lo scambio clientelare, non certo con l'azione diretta come piacerebbe a noi anarchici favoleggiare. È finita, almeno da queste parti, l'epoca delle rivolte popolari con l'incendio dei municipi e degli uffici dell'EAS e delle tasse: le ultime quelle di Licata, Palagonia, Castel di Iudica, sono ormai vecchie di vent'anni. Oggi basta chiedere all'amico dell'amico e, una mano lava l'altra, arriva l'autobotte che riempie del prezioso liquido i serbatoi antiestetici che ormai a grappolo proliferano sui tetti delle case. Sopportazione, spirito di adattamento e "vivi e lascia vivere". E intanto ingrassa la mafia degli autotrasportatori d'acqua, casta privilegiata e protetta dai poteri pubblici locali.

La stessa cosa, seppure con modalità differenti, avviene a Palermo. Anche qui si aspetta da anni una rivolta risolutiva che non scoppia mai. Al contrario, ad ogni piccola protesta, divampata per l'imperizia di qualche funzionario di polizia come al Borgo Nuovo, segue un nuovo "miracolo". L'ultimo è relegato in un trafiletto a pagina 47 del "Giornale di Sicilia" di domenica 19 maggio, che titola: "Borgo Nuovo. L'acqua del pozzo Lorenzini buona anche per usi potabili". Era stata la chiusura del pozzo Lorenzini, poiché inquinato, ad innescare la protesta del quartiere. A distanza di pochi giorni, rimangono due sole ipotesi: o l'inquinamento da piombo e da esaclorobenzene è compatibile con le difese immunitarie degli abitanti del Borgo Nuovo, o più verosimilmente l'acqua del pozzo era destinata ad altri scopi, ad esempio quelli agricoli, come sostenevano loro stessi. Fatto sta che anche stavolta tutto è stato ricondotto, in breve tempo, alla calma. E appare ben difficile, senza un lavoro di educazione e di organizzazione dal basso, a partire dai quartieri che la sinistra ha abbandonato totalmente alle clientele mafiose, ricostruire un tessuto condiviso di solidarietà e di lotta fra i cittadini, individuarne i bisogni e soprattutto delle prospettive di vita che vadano oltre la conservazione dello statu quo. In mancanza di ciò, il lampo della rivolta, per quanto esemplare ed efficace possa essere, viene attutito e recuperato al gioco di quelle stesse forze che l'hanno provocato.

La vera rogna, per gli uomini oggi al potere in Sicilia, è la sete delle campagne, che a differenza di quella delle città, tende a sfuggire al loro controllo. La situazione nelle campagne è veramente drammatica. Un intero settore rischia il tracollo economico. E non si tratta della perdita dei raccolti, in molti casi già compromessa, ma della stessa sopravvivenza delle coltivazioni, arse dal caldo e dalla siccità. Da martedì 21 maggio vari cortei di coltivatori diretti e allevatori, a partire dall'ennese e dal calatino, cominceranno a paralizzare l'intera rete viaria dell'isola. Essi sanno di essere stati abbandonati, per ragioni politiche ed economiche, dal governo regionale, e la loro lotta si va radicalizzando.

In realtà, dietro le crisi, dell'acqua e dell'agricoltura, che a bella posta si protraggono da anni, e nonostante i buoni propositi e le declamazioni retoriche restano insolute, emerge un preciso disegno economico. Per l'acqua esso è compendiato dalla privatizzazione delle risorse idriche; per l'agricoltura, invece, dalla sua cosiddetta modernizzazione, con l'adozione di sistemi di coltura industriale, con l'uso di sementi e piante non autoctone. Sullo sfondo, il liberismo rampante e i suoi presunti benefici.

È noto che sulla Sicilia piove annualmente quasi il triplo del suo fabbisogno d'acqua. Quindi la siccità non può addebitarsi a carenza di materia liquida, quanto invece ai lavori infiniti per la costruzione degli invasi e dei loro allacciamenti, alla dispersione dell'acqua attraverso condotte "colabrodo", all'accaparramento delle fonti da parte di speculatori e di organizzazioni criminali, alla cattiva gestione infine della rete di distribuzione. Attraverso l'ostentato fallimento dell'intervento pubblico, si induce la gente a pensare che per risolvere l'annosa questione idrica occorra da un lato privatizzare il servizio e dall'altro centralizzare le decisioni al riguardo. Questi due termini infatti - privatizzare e centralizzare - non sono tra loro in conflitto, come si sarebbe tentati di credere, ma possono, come nel caso degli Ambiti Territoriali Ottimali previsti dalla legge Galli (recepiti in Sicilia con decreto del presidente della Regione del 7 agosto 2001), amalgamarsi alla perfezione. Un ente unico provinciale, al quale i Comuni saranno ferreamente legati con un patto trentennale, deciderà come reperire, utilizzare, distribuire l'acqua necessaria alla vita quotidiana e alla produzione, concedendo ad un'unica azienda per provincia, solitamente privata, la facoltà di riscuotere le tariffe e di fissare le condizioni per l'organizzazione del servizio e l'erogazione dell'acqua. La centralizzazione politica consente di ridisegnare gli equilibri del malaffare, concludendo quel processo di rinnovamento e trasformazione delle vecchie catene di comando politico-mafiose, iniziato da noi con la trasformazione dell'Ente Acquedotti Siciliani (EAS), il più chiacchierato degli enti gestori, in società per azioni.

L'esasperazione della situazione di disagio tende, sull'onda della necessità e dell'emergenza, a far superare ogni resistenza al nuovo sistema di gestione delle acque. Si spiega così l'allontanamento del generale Iucci - che aveva dimostrato "possibile" in breve tempo la risoluzione di alcuni problemi di vecchia data - e il perché non sia stato attuato il piano d'emergenza - relativo al completamento di quattro grandi dighe - che egli ha proposto prima del suo esonero. E perché ancora il governo nazionale tardi a intervenire organicamente (ricordate le "grandi opere" del contratto con gli italiani!) e si affida tutt'al più ad interventi "tampone" essenzialmente in funzione d'ordine pubblico.

Ma si crede davvero che la privatizzazione e la centralizzazione politico-amministrativa risolveranno il problema idrico? Se così fosse, l'E.A.S., nato nel 1942 come "Ente Unico" per la gestione degli acquedotti siciliani, con ampia autonomia gestionale, avrebbe dovuto da solo risolvere ogni problema, e non distinguersi per l'inefficienza e per l'essere inquinato dalla corruzione politica e dalla criminalità organizzata. Il sistema degli A.T.O. sembra seguire le orme di simili predecessori.

Perché dunque non sperimentare l'alternativa della gestione diretta delle risorse e degli impianti idrici da parte delle comunità locali, che in molti luoghi funziona egregiamente? La gestione diretta, oltre ad essere efficiente, costringe la tecnologia ad adattarsi alle esigenze della popolazione e al rispetto dell'ambiente, e presuppone un sistema democratico di controlli e di partecipazione dal basso. Proviamo ad approfondire questa alternativa, se vogliamo davvero prospettare un superamento dell'attuale crisi idrica ed opporre ad una politica di sfruttamento economico dell'acqua, a cui è legata, una politica che punta alla sua valorizzazione sociale.

Natale Musarra



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