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Da "Umanità Nova" n. 19 del 26 maggio 2002
Nero, atipico, interinale...
Il lavoro rende liberi?
Il lavoro rende liberi è una massima che negli ultimi periodi della
storia occidentale è passibile di controverse interpretazioni. Anche
senza far riferimento alla malvagia ironia di Auschwitz, è ben difficile
stabilire quanta verità essa contenga, anche perché la
verità andrebbe misurata qualitativamente e non quantitativamente, con
buona pace di messieur Descartes...
Comunque, secondo la retorica della produzione, il lavoro dovrebbe permettere
all'essere umano di acquisire dignità, in quanto gli permetterebbe di
poter provvedere da solo al suo sostentamento, questo lo renderebbe autonomo ed
autosufficiente e quindi responsabile del suo proprio destino; in più il
lavoro dovrebbe rendere l'individuo fiero di sé, poiché gli
permetterebbe di contribuire al benessere e, al limite, anche allo sviluppo
della sua comunità; inoltre, il lavoro dovrebbe anche soddisfare la
persona, permettendole di dispiegare nel mondo le sue abilità, il che le
darebbe l'opportunità di aumentare la stima di sé; per non
parlare poi del senso di appagamento che si dovrebbe provare nel gustare la
consapevolezza della propria utilità per sé e per gli altri.
Tutto ciò è valido per qualunque tipo di lavoro, non esistono in
quest'ottica lavori più o meno umili: è il valore sociale del
lavoro che rende l'individuo fiero di sé e degno di appartenere al
consorzio sociale. È questa profonda consapevolezza del proprio valore
in quanto lavoratore/lavoratrice che dovrebbe rendere ogni persona libera,
poiché profondamente consapevole di essere uguale ad ogni altra.
Ma "libero" significa principalmente "in grado di scegliere". A sua volta
però la scelta non è mai assoluta; si tratta sempre di scegliere
fra alcune opzioni messe a disposizione dalla realtà contingente.
Andiamo a vedere nei fatti, allora, come il lavoro ci rende liberi. Prendiamo
come esempio l'Italia dei nostri giorni.
Io desidero essere libero ed allora scelgo consapevolmente di entrare nel
mercato del lavoro: quali sono le opzioni tra cui posso scegliere?
a) LAVORO NERO
Questa formula sta ad intendere un lavoro non garantito da alcun contratto
formale. Ufficialmente il lavoratore è disoccupato. Come lavoratore a
nero non ho alcuna garanzia: se mi faccio male sul lavoro è un problema
mio; se mi ammalo non solo non sono retribuito per i giorni in cui mi assento
dal lavoro, ma rischio di perdere la mia occupazione; il mio orario non
è regolato da altro che dalle esigenze del datore di lavoro, come anche
la paga, come anche la continuità lavorativa (ovvero, posso essere
cacciato via da un momento all'altro). La maniera migliore di mantenere
l'impiego è quindi lavorare come un ciuccio, dire sempre sissignore e
pregare che il mio datore di lavoro non trovi qualcuno disposto a fare lo
stesso lavoro per un prezzo inferiore.
b) LAVORO ATIPICO
Sono in questo modo denominati tutti i lavori che prevedono un contratto,
diciamo così, "fantasioso". I contratti che lo regolano sono sempre di
breve durata e dipendono dalla disponibilità del datore di lavoro o
dalle necessità produttive che quest'ultimo ha (finita l'attività
in cui è coinvolto, il lavoratore non ha più nulla a pretendere).
Questi tipi di contratti sono stati pensati per l'inserimento nel mondo del
lavoro, partendo dal presupposto che pur di inserirsi nel mondo del lavoro la
persona è disponibile ad alcuni sacrifici ed adattamenti, quali ad
esempio: una paga piuttosto bassa, assenza di contributi pensionistici, nessuna
garanzia in caso di malattia, ferie non contemplate, orari flessibili (leggi:
ti pagano per quattro ore e ne lavori anche dieci o più) e così
via. Inoltre alcuni di questi contratti, come ad esempio quello di
collaborazione coordinata e continuativa, che per altri versi è quello
che garantisce meglio il lavoratore/lavoratrice, non è più
rinnovabile dopo la seconda volta. Così spesso il datore di lavoro, per
evitare di assumere a pieno titolo, (il che gli comporterebbe una spesa
superiore per i vari contributi da versare) si libera del
collaboratore/collaboratrice e ne prende uno nuovo. Così, anche in
questo caso, la maniera migliore di mantenere l'impiego è quindi
lavorare come un ciuccio, dire sempre sissignore e pregare che il mio datore di
lavoro non trovi qualcuno disposto a fare lo stesso lavoro per un prezzo
inferiore.
c) DIPENDENTE DI MICRO IMPRESA
Si definisce micro impresa una piccola impresa che ha meno di 15 dipendenti. Se
anche riesco ad ottenere un contratto a tempo indeterminato da un'azienda del
genere, per mantenere il mio impiego non posso smettere di lavorare come un
ciuccio, dire sempre sissignore e pregare che il mio datore di lavoro non trovi
qualcuno disposto a fare lo stesso lavoro per un prezzo inferiore,
poiché in un'azienda così piccola non vale l'articolo 18 dello
statuto dei lavoratori, che prevede la riassunzione in caso di licenziamento
senza giusta causa. Insomma, l'unico vantaggio che ho è che il mio
datore di lavoro è tenuto a pagare per me allo stato i contributi ai
fini pensionistici. Così, dopo aver passato una vita a lavorare,
potrò finalmente godermi la mia pensione di circa 300 EURO (si,
perché ormai lo stato non può pagare più pensioni
dignitose e allora cerca di incentivare le pensioni integrative private, che
ovviamente un salariato medio, con circa 900 EURO al mese non può
permettersi...)
d) DIPENDENTE DI IMPRESA CON Più DI 15 DIPENDENTI
Finalmente ce l'ho fatta! Ho ottenuto un contratto a tempo indeterminato presso
una struttura per la quale vale l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori. La
mia dignità come lavoratore è garantita. Solo che adesso il
governo ha intenzione di abrogare l'articolo 18. - Per permettere una maggiore
flessibilità del mercato del lavoro - è la motivazione. Mi viene
il serio dubbio che per flessibilità non si intenda la
possibilità del lavoratore di alternare formazione e lavoro per
acquisire sempre nuove competenze e quindi ricoprire ruoli e
professionalità diverse, ma si intenda invece la capacità del
lavoratore/lavoratrice di genuflettersi e piegarsi a seconda dell'estro e della
fantasia del datore di lavoro. Insomma, ancora una volta, la maniera migliore
di mantenere l'impiego sarà quella di lavorare come un ciuccio, dire
sempre sissignore e pregare che il mio datore di lavoro non trovi qualcuno
disposto a fare lo stesso lavoro per un prezzo inferiore.
Dopo questa disanima della situazione è evidente che la libertà
che il lavoro mi fa conquistare è quella di poter scegliere più o
meno a chi dire sissignore e da chi temere che mi metta da un momento all'altro
in mezzo ad una strada senza alcuna garanzia di sapere come fare a
sopravvivere.
Tenuto conto che senza lavoro però non si può vivere (a meno di
non essere molto ricco di famiglia o disponibile a fare il barbone),
poiché devo comunque procacciarmi i mezzi per la mia sussistenza,
preferirei, se fosse possibile, essere uno schiavo. In una tale condizione mi
sarebbero almeno garantiti i diritti minini di vitto, alloggio e assistenza
medica di base gratuita, in quanto lo schiavo è un investimento
economico e va quindi in qualche modo curato (un po' come quando ci si
preoccupa di garantire una manutenzione minima alla propria autovettura).
Inoltre, lo schiavo ha diritto a riprodursi, poiché per il padrone
questo è un investimento: nuovi schiavi che non vanno acquistati
(diritto che a causa dei salari da fame il lavoratore/lavoratrice non ha di
fatto: fare i figli costa e ci vuole tempo per accudirli). In più, lo
schiavo, dato il peculiare tipo di rapporto lavorativo che lo lega a vita al
suo padrone, ha diritto a dire che lavoro e padrone gli fanno schifo: gli
è evitata l'ipocrisia di dover dire che il suo lavoro gli piace e gli
dà soddisfazione.
Oltretutto, se fossi uno schiavo, chi mai mi perseguiterebbe moralmente se
mettessi in atto una rivolta? Tra l'altro, ai padroni converrebbe che io
vincessi, per potermi assumere come salariato: avrei così conquistato il
diritto di scegliere liberamente se morire di fame o farmi sfruttare. In questo
senso, si, è vero, il lavoro rende liberi.
KUVAH
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