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Da "Umanità Nova" n. 20 del 2 giugno 2002
La politica americana in Medio Oriente
La "doppia alleanza"
I recenti avvenimenti in Palestina hanno, ovviamente,
concentrato l'attenzione internazionale sull'operato dell'esercito israeliano,
sulla vera e propria mattanza di Jenin e sugli innumerevoli omicidi, torture e
massacri dei quali si è reso responsabile l'apparato bellico dello stato
ebraico. Non altrettanta attenzione, invece, si è prestata al
significato profondo delle visite compiute nell'area dal vice presidente
americano Dick Cheney e dal Segretario di stato Colin Powell. Della missione di
quest'ultimo si è voluto leggere soltanto il significato più
superficiale, attribuendo al suo lavoro diplomatico il senso della "mediazione"
tra israeliani e palestinesi. Mediazione che, ovviamente, non è mai
avvenuta, consistendo la proposta americana a Arafat nel semplice diktat tra lo
stop alla resistenza e la concessione della possibilità di sopravvivere
alla distruzione dell'Autorità Nazionale Palestinese.
In verità, però, la questione palestinese è solo una delle
questioni alle quali gli Stati Uniti prestano particolare attenzione
nell'evolversi di una strategia che, ormai, mira al controllo diretto del Medio
Oriente, in quanto territorio principale dell'estrazione del petrolio e nodo
internazionale dei traffici mondiali (Canale di Suez, Golfo Persico in diretto
contatto con l'Oceano Indiano). In un precedente articolo per UN, avevamo visto
come l'operazione in Afganistan, con il correlato riorientamento del Pakistan e
le operazioni sottotraccia nelle Filippine, puntassero a un solo obiettivo:
isolare la Cina e l'India, potenziali concorrenti futuri per il dominio
planetario, presenziando militarmente l'area dell'Asia Centrale e circondando
questi stati di veri e propri vassalli degli Stati uniti. La questione, in
quest'area, non riguarda solo il potenziale petrolifero della "zona caspica",
ma il problema dei rapporti di forza in tutta l'Asia. Come sappiamo,
l'Afganistan è diventato un protettorato USA, il Pakistan è stato
trasformato in uno stato vassallo e non più in un alleato, e gli stati
ex sovietici dell'Asia stanno seguendo la stessa sorte. La Cina, in questo
modo, ha perso un vecchio alleato (il Pakistan, per l'appunto) e si ritrova con
il fianco Ovest completamente scoperto e le basi aeree americane a poche
migliaia di chilometri di distanza. L'India, da par suo, si è illusa di
aumentare il proprio peso specifico nell'area grazie alla "guerra duratura", ma
si è trovata a essere emarginata dal gioco americano che, invece di
punire il Pakistan vero e proprio "stato fomentatore del terrorismo islamico",
ne ha accompagnato la trasformazione in vassallo fedele privo di una propria
politica estera.
Anche in Medio oriente la questione petrolifera, sia pur centrale, non è
che uno degli aspetti della partita in corso, i cui obiettivi rimangono quelli
di sempre: cancellare l'Iraq in quanto stato politicamente autonomo per
sostituirlo con un protettorato ancora da definire, e isolare sia l'Iran,
"stato canaglia" politicamente indipendente da Washington e occupante una
posizione centrale nei flussi economici euroasiatici, sia la stessa Arabia
Saudita, alleato di vecchia data degli USA ma oggi considerato infido, anche a
causa dell'evidente ruolo giocato da uomini dei servizi di questo stato nei
fatti dell'11 settembre.
Gli Stati Uniti da alcuni anni stanno rivedendo la loro politica in Medio
Oriente, non perché abbiano intenzione di abbandonare i loro vecchi
obiettivi, bensì perché hanno intenzione di sostituire strumenti
di egemonia diventati obsoleti con altri che gli permettano di puntare
direttamente al dominio di quella parte del mondo senza pagare pegno a alleanze
costose e infide.
A partire dal secondo dopoguerra gli USA hanno avuto un doppio registro di
alleanze nell'area: quella saudita, ereditata dalla Gran Bretagna, protettrice
fin dalla nascita dello stato della dinastia Saud, e quella israeliana,
concepita come cuneo nel corpo degli stati arabi produttori di petrolio. Il
nemico per gli americani, allora come oggi, era il nazionalismo arabo, ossia la
volontà da parte delle élite occidentalizzate e modernizzanti di
parte dei paesi del mondo arabo, di prendere il controllo delle proprie risorse
interne (in primis il petrolio) e di rinegoziarne vendita, sfruttamento e
commercializzazione da parte degli occidentali. Contestualmente l'obiettivo
americano era quello di espellere le due vecchie potenze coloniali (Francia e
Gran Bretagna) dall'area. A ridosso della prima guerra arabo-israeliana
(1948-49), gli Stati Uniti colsero due significativi obiettivi in questo senso:
da un lato Israele era riuscito a imporsi in gran parte della Palestina
mandataria contro la volontà non solo dei paesi arabi confinanti, ma
della stessa Inghilterra. Dall'altro il fallimento militare dei regimi arabi
apriva la strada alla penetrazione americana al loro interno. Il problema
americano era quello di contenere le spinte nazionaliste del mondo arabo; per
farlo adottò una politica apparentemente contraddittoria: da un lato
l'appoggio ai regimi arabi più apertamente islamisti e socialmente
conservatori, dall'altro il massimo appoggio agli stati non arabi della regione
che facevano del nazionalismo e della modernizzazione il loro cavallo di
battaglia. L'Iran dello Shah Reza Pahlevi, Israele e la Turchia dei militari
kemalisti, laici e nemici dell'islamismo identitario. Il calcolo era semplice:
utilizzare come alleati sicuri stati che, a causa della loro alterità
rispetto al mondo arabo se ne sentivano minacciati nei loro progetti
nazionalisti e avevano quindi bisogno di un potente protettore esterno, mentre
al contempo si favorivano all'interno del mondo arabo tutte le espressioni
più reazionarie che, per sopravvivere al vento della modernizzazione e
della decolonizzazione allora in pieno sviluppo, avevano altrettanta
necessità di trovare un sostegno esterno.
Questo composito equilibrio trovò la sua sintesi nel contenimento dei
regimi "progressisti" (in verità espressione del nazionalismo
modernizzante delle élite militari e burocratiche occidentalizzate di
quei paesi) dell'Egitto, della Siria dell'Algeria, del Libano e dell'Iraq. In
realtà un tentativo di colonizzare anche l'Egitto venne fatto dagli
americani negli anni precedenti la "crisi di Suez" (1956), ma la pervicacia
israeliana nel mantenere aperte le ostilità con il paese arabo e il
tentativo fallito anglo-francese di occupare il Canale, fecero colare a picco
quella prospettiva, spingendo l'Egitto di Neguib e di Nasser nelle braccia
dell'Unione Sovietica.
Il doppio registro delle alleanze americane nell'area ha tenuto per oltre
quarant'anni, reggendo alle scosse di due guerre arabo-israeliane (1967 e 1973)
che in realtà finirono per allargare l'influenza americana su paesi come
l'Egitto. Il colpo più duro in questa prospettiva fu quello subito dagli
americani con la rivoluzione iraniana, la cacciata dello Shah e l'imposizione
del predominio politico e sociale del clero sciita. Quest'ultimo avvenimento
è d'altronde spiegabile con la reazione popolare a un regime
profondamente reazionario sul piano sociale ma fortemente modernizzante dal
punto di vista della religione e dei costumi. Miscela apertamente favorita da
Washington ma che, in presenza di un disagio sociale sempre più forte a
seguito della crisi petrolifera iniziata con la guerra del 1973, doveva
sfociare nell'imposizione del regime degli Ayatollah, reazionari anch'essi sul
piano sociale ma portatori incorrotti dell'etica e dei costume religiosi sciiti
contrapposti alla "dissolutezza" dell'occidentalizzante Pahlevi e del suo
regime.
La perdita della pedina Iran, nel gioco americano, fu rimpiazzata
dall'acquisizione dell'Iraq di Saddam Hussein, utilizzato in funzione anti
iraniana. Fu però l'invasione dell'Afganistan da parte dell'Unione
Sovietica e la mobilitazione anti comunista che ne seguì in tutto il
mondo arabo a permettere agli americani di organizzare una vastissima
operazione di promozione, sostegno e sviluppo della jihad contro i sovietici,
che si può definire, a buon ragione, come il capolavoro diplomatico
della strategia della doppia alleanza. L'intera operazione, infatti, ebbe il
sostegno logistico di egiziani e sauditi, quello finanziario di sauditi e
inglesi e, infine, non mancò un interessato aiuto militare di parte
israeliana.
La tela delle alleanze americane, tessuta a lungo dal dopoguerra in poi,
avrebbe avuto un ulteriore conferma in occasione della crociata contro lo
stesso Saddam che, passato dal ruolo di utile alleato a quello di vassallo
ribelle, aveva cercato di ritagliarsi un proprio ruolo all'interno delle
dinamiche mediorientali. L'intero novero degli alleati arabi degli USA avrebbe
partecipato alla guerra, mentre Israele si sarebbe ritagliato un ruolo
più defilato (per non imbarazzare gli alleati arabi) ma comunque utile a
prorogare lo status quo in Palestina.
Gli avvenimenti seguenti, però, con l'avvio di un fittizio "processo di
pace" in Palestina, in realtà progettato dagli americani per ottenere
dalla dirigenza palestinese l'assenso alla trasformazione in bantustan
disarmati e impotenti del preteso stato palestinese, e soprattutto con la crisi
verticale delle dirigenze nazionaliste arabe rimaste, ormai prive della sponda
sovietica, avrebbero determinato la crisi della "doppia alleanza" americana
che, oggi, sta precipitando in rapporti sempre più tesi tra Washington e
Riyad.
Gli Stati Uniti, infatti, hanno progressivamente aumentato il loro impegno in
Medio oriente a favore della Turchia e di Israele, fino a patrocinare la
costituzione di un'alleanza (della quale rimangono i supervisori) perfettamente
in grado di controllare l'intera area e di intervenire militarmente contro ogni
possibile coalizione araba o arabo-iraniana.
Nel contempo, il protettorato di fatto instaurato in Arabia Saudita con la
costruzione della base di Dahran è sempre più malvisto da una
dirigenza saudita in crisi di legittimazione e non più impaurita dallo
spauracchio del nazionalismo arabo e dei suoi protettori sovietici. Gli
avvenimenti dell'11 settembre e dell'Afganistan sono stati solo
l'estrinsecazione di una tensione ormai fortissima tra gli USA e il vecchio
alleato costituito dalle organizzazioni fondamentaliste islamiche, largamente
sponsorizzate dall'Arabia Saudita. D'altra parte, la trasformazione del
Pakistan da alleato a vassallo degli Stati Uniti, ha reso chiaro alla dinastia
saudita quale sia il prezzo da pagare per mantenere l'amicizia di Washington. E
la famiglia Saud non sembra per nulla intenzionata a pagarlo, come dimostra il
fallimento del negoziato condotto da Cheney per costituire una nuova "grande
alleanza" araba per il prossimo attacco a Baghdad.
D'altra parte ci sono altre mosse americane che non possono che far pensare a
un futuro sganciamento dell'asse cinquantennale tra gli USA e la famiglia Saud:
il recente riavvicinamento USA-Russia (ridicolmente trasformato da Berlusconi
in un'adesione della Russia alla NATO grazie alla sua mediazione... la
buffoneria italiana non ha limiti), ha due obiettivi, dei quali il primo
è evidente, ossia isolare la Cina sul fianco Nord, ma il secondo
è, se è possibile ancora più importante, ossia garantire
agli USA una fonte petrolifera sicura e a buon prezzo, senza dover troppo
mediare con dirigenze arabe smaniose di indipendenza. La Russia, d'altra parte
è "alla canna del gas" finanziariamente e la prospettiva di impinguarsi
le casse esauste con un diluvio di dollari, ottenuti con l'aumento della quota
di produzione del petrolio, non deve essere sembrata malvagia all'ex agente del
KGB Putin.
La costruzione del prossimo attacco all'Iraq, quindi, apre nuovi scenari sul
fronte delle politiche medio orientali e, più in specifico, su quello
delle alleanze americane nell'area.
Lo scenario che si prospetta come il più probabile è un ulteriore
peggioramento delle relazioni USA-Arabia Saudita in occasione del prossimo
attacco su vasta scala all'Iraq, lo spostamento delle basi americane dal paese
arabo con destinazione Kuwait e Emirati Arabi Uniti, le cui dirigenze sono
completamente spalmate sugli interessi di Washington (che d'altronde
condividono: il 70-75% delle risorse finanziarie di questi due paesi sono
investite in America...), il progressivo isolamento di Riad che, a questo
punto, sarebbe circondato dall'alleanza turco-israeliana e minacciato
direttamente da una corona di protettorati americani tra i quali
bisognerà includere anche il "nuovo" Iraq, probabilmente
un'entità confederale tra arabi sunniti, arabi sciiti e curdi, sotto
supervisione americana.
A questo punto gli USA avrebbero colto il loro obiettivo primario, consolidando
il controllo dell'area. Essa sarebbe, a questo punto, costituita da una potenza
regionale, ossia l'asse Ankara-Tel Aviv, operante in stretta sintonia con
Washington e da una corona di stati vassalli o comunque clientes degli USA
praticamente senza soluzione di continuità dall'Egitto al Pakistan, dal
Kazakistan all'Oman. In questo quadro l'anomalia sarebbe costituita dagli unici
renitenti al dominio americano, Arabia Saudita e Iran, i quali non potrebbero
vivere sonni tranquilli con confini così presidiati da elementi ostili.
L'inclusione dell'Iran nella lista dell'asse del "male" da parte del presidente
americano è un chiaro segnale di cosa attende questo paese sicuramente
non più così ostile ai paesi occidentali ma ostinatamente deciso
a conservare la propria indipendenza.
A oggi questa prospettiva non trova significative opposizioni né
nell'area né nel resto del mondo. Solo l'ostinata resistenza della
popolazione palestinese sembra essere d'impaccio ai piani americani, dal
momento che il mantenimento di questa ferita aperta rischia di costringere i
vassalli arabi di Washington a opporsi alla "pax" israeliana, sotto la
pressione delle proprie popolazioni. Questo è il motivo profondo che ha
spinto Washington a occuparsi in prima persona dello stallo della situazione in
Palestina. I rimedi americani, d'altronde, sono quelli di sempre e mirano alla
definitiva accettazione da parte palestinese della prospettiva del Bantustan
sotto controllo israeliano. Per ottenere questo risultato gli uomini di
Washington si rendono conto che i massacri e le deportazioni israeliane non
bastano e, anzi, rischiano di accendere ulteriormente un'area che invece
vogliono pacificata in tempo per il "grande attacco" all'Iraq. In questo senso
si devono leggere le offerte americane ai palestinesi: polpette avvelenate tese
a impedire ogni reale autonomia di questo popolo dalla macchina militare
israeliana e a riconfermare il primato di Tel Aviv sui suoi vicini.
Giacomo Catrame
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