Da "Umanità Nova" n. 22 del 16 giugno 2002
Sponsor, sport, business
I mondiali dello sfruttamento: Nike, Adidas, Reebok
Tutti i giornali dedicano pagine e pagine ai mondiali di
calcio, ma pochi trattano del business che li sostiene ed accompagna.
Particolarmente interessante, oltre all'ovvio aspetto mediatico, quello
relativo al settore dell'abbigliamento sportivo. È possibile avere una
serie di informazioni interessanti, datate sino a maggio 2002, da una serie di
siti, quali www.cleanclothes.org, www.indianet.nl (in inglese), riprese in
Italia dalla rete lilliput e manitese e dal giornale boycott. Le informazioni
che seguono sono tratte da una ricerca di Ersilia Monti e Claudio Portugalli
della Lilliput di Milano.
Il mercato dell'abbigliamento, calzature e accessori sportivi valeva nel 2001
29,5 miliardi di dollari (20 miliardi abbigliamento e accessori, 9,5 miliardi
scarpe sportive). Dopo due anni di calo seguiti nel 2000 da un leggero
recupero, il 2001 ha segnato una contrazione del 3% dovuta alla crisi dell'11
settembre, mentre per l'anno corrente è prevista una crescita del 2%.
Il protagonista principale è Nike con il 32% del mercato (9,5 miliardi
di dollari di fatturato nel 2001), seguono a distanza Adidas con il 18% del
mercato (5,5 miliardi di dollari nel 2001) e Reebok con il 10% circa (2,99
miliardi di dollari di fatturato nel 2001).
Nel particolare settore delle scarpe sportive Nike sale al 39%, seguono Adidas
al 15% e Reebok al 10%. I principali mercati sono quello statunitense e quello
giapponese.
La politica di marketing dei principali produttori è rivolta agli
sportivi praticanti e alle persone che fanno fitness. Questo target di
consumatori è stato meno influenzato degli altri dagli attentati dell'11
settembre, in quanto soggetti con una mentalità più forte e
positiva, interessati a prodotti molto innovativi e di punta. Per questo tipo
di consumatori il prezzo è meno importante rispetto all'innovazione
tecnologica e all'aspetto del prodotto. Un prezzo basso può essere
interpretato come scarsa qualità. Questo spiegherebbe, ad esempio, la
tendenza alla contemporanea riduzione del numero di scarpe vendute e
all'aumento del prezzo del singolo paio.
Una ricerca di mercato ha evidenziato come la partecipazione
all'attività sportiva sia legata, per la maggior parte degli americani
(92%), all'aspetto del divertimento piuttosto che a quello
salutistico/estetico. Un altro elemento è la sostanziale stabilizzazione
della crescita che porta la competizione sul terreno della conquista delle
quote di mercato.
In particolare sono Reebok, una delle case più antiche (anno di
fondazione 1895), affermatasi
nel settore dall'aerobica e che ora controlla il 10% del settore
dell'abbigliamento e scarpe sportive, la dinamica New Balance (specialmente in
USA) e Adidas a tentare di sottrarre clienti al gigante Nike.
Le campagne pubblicitarie evidenziano due aspetti, quello tecnologico e quello
del divertimento. Le caratteristiche tecnologicamente superiori del prodotto
consentono di trasformare la fatica in divertimento. "It's fun" (è
divertente) è il claim (messaggio) utilizzato. Per veicolare questo
messaggio è fondamentale il testimonial, che deve essere la figura di
riferimento nel suo sport, il vincente, giacché deve garantire la
fedeltà al prodotto o suscitare il desiderio d'acquisto. È il
migliore anche perché usa quel prodotto, che contemporaneamente, data la
sua superiorità tecnologica, gli consente di trasformare la fatica in
divertimento. Gli spot pubblicitari mostrano sportivi intenti più a
giocare e a confrontarsi con divertenti mostriciattoli che impegnati in
competizioni sportive reali.
La lotta tra i vari produttori, per accaparrarsi i migliori atleti, ha portato
ad una crescita esponenziale dei budget pubblicitari. Siamo arrivati nel 2001
ad una spesa in pubblicità e sponsorizzazioni di circa 5,9 miliardi di
dollari, si tratta del 20% del fatturato complessivo del settore (29,5 miliardi
di dollari).
Questo significa che per una scarpa venduta al pubblico a 100 dollari (225 mila
vecchie lire) il costo di produzione è 45 dollari mentre il peso della
pubblicità è 9 dollari (20 mila lire).
Un esempio su tutti è il famoso giocatore di golf nero Tiger Woods
titolare di un contratto con Nike per 17,4 milioni di dollari all'anno, circa
48 mila dollari al giorno (circa 100 milioni delle vecchie lire).
Uno spot tra il primo e il secondo tempo delle partite del mondiale
costerà tra 100 e 200 milioni di euro.
Alla ricerca di crescenti quote di mercato in un regime di forte concorrenza, i
grandi marchi dello sport sono rimasti sulla cresta dell'onda trasferendo la
produzione in paesi dell'Asia, del Centro America, e negli ultimi anni,
dell'Europa dell'est, dove fornitori anonimi riescono a produrre a costi
bassissimi, senza il rispetto dei più elementari diritti sindacali e con
salari sotto il minimo di sussistenza. Questo malgrado i codici di condotta
sbandierati da grandi imprese come Nike e Adidas. Nel settore delle scarpe
sportive, i principali paesi esportatori sono oggi Cina, Indonesia e Vietnam.
La Cina, con il 65% della produzione mondiale di abbigliamento e scarpe
sportive, fa la parte del leone: ci sono almeno 40 fabbriche Nike in Cina che
impiegano circa 111 mila operai.
Nonostante un ordinamento del lavoro avanzato, e ufficialmente comunista, si
praticano in questo paese condizioni di lavoro terribili. I lavoratori, spesso
migranti interni senza permesso, sono privati dei documenti e costretti a
lavorare e dormire nella stessa fabbrica.
Devono depositare alcuni mesi di stipendio quando iniziano a lavorare (quasi
mai restituiti) e devono pagare vitto e alloggio alla fabbrica.
La China Labour Watch denuncia che per ogni paio di scarpe vendute, come
dicevamo prima a 100 dollari, un operaio cinese percepisce circa 0,4 dollari,
circa 900 lire, mentre per la pubblicità Tiger Woods percepisce, solo da
Nike, circa 100 milioni al giorno). Con la sua sponsorizzazione si potrebbero
pagare 40 mila lavoratori cinesi (stipendio correlato su base giornaliera 1,1
dollari al giorno = 2500 lire circa).
Spesso anche queste misere paghe ufficiali non sono rispettate e circa il 30%
dei lavoratori intervistati dichiara di percepire meno dei 33 dollari mensili
sbandierati.
Il lavoro è a cottimo, e visti i bassi salari si è forzati a
lavorare 12 ore al giorno per 7 giorni la settimana, con un solo giorno di
libertà al mese; niente maternità, niente malattia o infortunio,
nessun compenso per il licenziamento, niente pensione. Alcune di queste
garanzie sociali sono riservate solo agli impiegati di livello superiore, o ai
dirigenti.
In Indonesia, un'indagine recente condotta in alcune fabbriche di Nike e Adidas
("We are not machines" in www.cleanclothes.org) rivela che migliaia di
lavoratrici/ori continuano a vivere in grande povertà e a dover lavorare
un gran numero di ore per integrare una paga misera.
Con 2 dollari al giorno, in un paese stremato da un'inflazione crescente, una
famiglia contrae debiti per arrivare alla fine del mese e manda i figli presso
parenti nei villaggi per rivederli solo tre o quattro volte all'anno. Per aver
organizzato uno sciopero si può finire in galera, come è capitato
lo scorso anno a Ngadinah, operaia per un fornitore di Adidas; per aver
rilasciato un'intervista si può venire aggrediti a colpi di machete,
come è capitato Rakhmat Suryadi, esponente sindacale alla Nikomas, uno
dei principali fornitori di Nike e Adidas in Indonesia.
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