![]() Da "Umanità Nova" n. 23 del 23 giugno 2002 Fiat. Un mese in coma e poi l'ossigenoI trenta giorni che hanno diviso il 14 maggio dal 14 giugno hanno portato molti elementi di conoscenza per quanto riguarda il prevedibile destino del gruppo Fiat. Sono due date che aprono e chiudono una fase: l'assemblea dei soci del 14 maggio aveva deciso di vendere tutto il possibile per fare cassa e ridurre i debiti, l'accordo su Italenergia del 14 giugno conclude la prima fase di accordi con le banche creditrici e i principali partner industriali di Fiat. In mezzo ci stanno l'accordo con le principali banche e le dimissioni di Cantarella. Cerchiamo di capire cosa è successo nel frattempo e di stabilire come ne escono i vari soggetti protagonisti, per delineare il possibile futuro strategico della principale azienda italiana, che con il suo indotto rappresenta circa il 4% del Pil italiano. Partiamo dal presupposto che sui piazzali giacciono ad oggi invendute, secondo fonti interne all'azienda, non meno di 300.000 auto e che nel mese di maggio la Fiat ha perso circa il 23% di pezzi venduti in Europa rispetto al maggio 2001, a fronte di un calo del mercato pari all'8%. L'assemblea del 14 maggio aveva deciso la quotazione di Ferrari e la vendita di Comau e Magneti Marelli, ma il rischio esiziale di un declassamento del rating da parte delle agenzie internazionali non era stato ancora scongiurato. Standard & Poor si era espressa per una sospensione del giudizio fino al momento di vedere le reali mosse del management e quindi il pericolo tragico di un "downgrading" non era stato sventato: ipotesi disastrosa, perché perdere la B3 significava per Fiat vedere le proprie obbligazioni diventare dei "junk bond", titoli spazzatura che non avrebbero più potuto essere ospitati (per regolamento) nei portafogli dei fondi d'investimento, con effetto devastante sulle loro quotazioni di mercato. Teniamo presente che i bond, cioè le obbligazioni Fiat quotate sui mercati, rappresentano una massa di 15 miliardi di euro, quindi circa il 43% del debito totale (gli altri 20 miliardi di euro sono debiti verso le banche). Per prevenire il pericolo la Fiat ha iniziato uno stringente confronto con le principali banche finanziatrici, sotto la discreta supervisione della Banca d'Italia, assai preoccupata del livello di indebitamento del gruppo, arrivato troppo vicino ai coefficienti di vigilanza per quanto riguarda l'esposizione bancaria. La normativa Bankit è infatti più stringente di quella Consob e impone il raggruppamento del debito Fiat fino a comprendere anche quello delle partecipazioni non maggioritarie, tipo Italenergia (dove Fiat ha il 37%). Le banche sono quindi state invitate a intervenire, con il delinearsi di due fronti: da una parte le tre banche maggiori (Sanpaolo Imi, Intesa Bci, Banca di Roma), dall'altra Mediobanca. Quest'ultima, da anni in guerra con il Lingotto, ha cercato di spingere per l'estromissione immediata della famiglia dalla gestione del gruppo, proponendo alle banche di trasformare subito i loro crediti in azioni Fiat e assumere la gestione diretta del risanamento attraverso manager di propria fiducia. Questa linea è stata per il momento battuta per due circostanze: 1) è stato reso pubblico che in caso di cambio dell'azionariato, General Motors avrebbe potuto pretendere la restituzione in denaro contante (2,4 miliardi di dollari) dell'anticipo per il 20% di Fiat Auto pagato a marzo 2000; 2) le banche hanno preferito salvare per il momento la famiglia e tutelare i propri interessi in modo diverso. Vediamo come. Fiat chiedeva di trasformare una serie di debiti a breve in un prestito subordinato da parte delle banche, uno strumento che avrebbe potuto essere rimborsato, in caso di fallimento, solo dopo la soddisfazione di tutti gli altri creditori. Le banche hanno invece ottenuto di sostituire i debiti a breve con un prestito convertibile da 3 miliardi di euro, uno strumento che gli permetterà di convertire i propri soldi in azioni Fiat, entro giugno 2003, se non saranno state rispettate da Fiat una serie di condizioni, tra cui la principale è la riduzione da 6.6 a 3 miliardi di euro del debito netto del gruppo. Le banche hanno dunque ottenuto una sorta di opzione a diventare azionisti diretti se il processo di risanamento non sarà portato a compimento con il necessario rigore. La Fiat deve dunque vendere davvero tutto ciò che riesce a vendere. Fa parte dell'accordo la cessione del 51% di Fidis-Sava, la società di credito al consumo che finanzia i finanziamenti a tasso zero, principale responsabile del crollo della redditività e dell'esplosione del debito del gruppo. La cessione, che potrebbe essere fatta alle banche ma anche alla General Motors, permetterebbe di scorporare dal passivo Fiat 8 miliardi di euro di debiti, una cifra tale da riportare sotto livelli accettabili l'esposizione totale di Fiat in centrale rischi sulla Banca d'Italia. Altri interventi finanziari sono stati richieste a banche estere (in particolare Deutsche Bank e Citigroup), per l'evidente ragione che la loro esposizione non compare nel totale dei debiti verso istituzioni italiane. La partita più significativa si gioca però intorno a Italenergia, una vicenda che dice molte cose sul possibile futuro di Fiat. Abbiamo detto che oggi Fiat ha il 37% di questa società, costituita nel luglio 2001 per scalare Montedison insieme a Edf (20%), le tre banche partner (Sanpaolo, Intesa, Banca Roma, insieme hanno il 23%) e la Carlo Tassara di Roman Zaleski (20%). Fiat non vuole uscire dall'azionariato, perché è convinta di dover proseguire la sua auspicata diversificazione nel settore energetico, anche e soprattutto se le vicende della vita la costringessero a mollare il settore auto. La soluzione trovata con l'intesa del 14 giugno è dunque la seguente: Fiat dà in garanzia il 23% di Italenergia a Citibank in cambio di un finanziamento da 1.150 miliardi di euro per tre anni, ma si riserva i diritti di voto; Fiat vende alle banche il restante 14% di Italenergia per 580 miliardi di euro, ma si tiene un diritto di prelazione da far scattare nel 2005, per potersi ricomprare la sua quota una volta risolti i suoi problemi di debito; le banche hanno ottenuto un'opzione per vendere nel 2005 queste azioni all'Edf, nel caso la Fiat non riuscisse a ricomprarle. La Edf è contenta di aver offerto salvagenti a tutti, perché pur prendendo impegni pesanti in una società di cui ha solo il 2% dei diritti di voto (contro il 20% delle azioni), è convinta che entro il 2005 potrà risolvere i suoi problemi con la privatizzazione e di aspirare a giocare un ruolo ben più corposo sul mercato italiano dell'energia.
Le dimissioni di Cantarella sono il primo passo di uno smantellamento del management che ha fallito nella sua missione strategica di tenere in vita un competitor debole, per la sommatoria di troppi errori, ma anche per la inadeguatezza del capitalismo familiare di fare i conti con la competizione globale. Incapacità di fare macchine di qualità, nell'incontrare i gusti del pubblico, di costruire uno stile coerente, di svecchiare la rete distributiva, di usare in modo capitalisticamente efficiente le risorse umane e tecniche a disposizione. Lo stile da caserma, la bassa qualità della struttura di comando (sia elevata che intermedia), la provincialità della gestione hanno portato al punto più basso le quotazioni della casa torinese. Lo sforzo per "salire di gamma", cioè costruire macchine di segmento più elevato con un diverso valore aggiunto, non è mai riuscito a nessun produttore. La cura Boschetti, quella della razionalizzazione e del taglio dei costi, è l'unica che la Fiat è capace a fare con maestria e si concretizza per ora nello stop alla politica dei "chilometri zero", facendo pulizia nei bilanci e nei fatturati gonfiati: l'effetto pratico sono il crollo del venduto, le 300.000 auto sui piazzali, le settimane di cassa integrazione. La Fiat proverà a risanare i conti succhiando i soldi dello stato, la sinistra seguirà con la richiesta di interventi per salvare l'industria automobilistica italiana, attraverso gli incentivi fiscali all'auto a metano o a basso impatto ambientale. Saranno probabilmente soldi buttati, perché Fiat vuole risanarsi in un anno o due per vendere l'auto comunque, come da anni vuole fare il principale azionista, l'Ifil di Umberto Agnelli, che potrebbe esprimere direttamente, con Galateri di Genola, il prossimo Amministratore Delegato. Chiunque sia, sarà un uomo gradito alle banche e probabilmente anche alla GM, perplessa e silente nella tentazione di lasciare i torinesi cuocere nel loro brodo ancora per un po' o provare invece a comprare tutto subito (anticipando di qualcosa l'opzione del 2004), per tentare un'unica grande ristrutturazione congiunta di Fiat ed Opel sul versante europeo. Per le banche l'acquisto americano rappresenterebbe comunque una garanzia, perché avere GM come grande debitore è assai meno preoccupante di avere Fiat. Fiat dunque proverà a risanare, tenendosi stretti i settori che le interessano di più per la sua diversificazione strategica (l'energia, un settore che dà flussi di cassa sicuri e costanti, in un settore ancora abbastanza protetto, le banche e le assicurazioni dove ha importanti interessi, con il 100% di Toro, il 7% di Banca di Roma, il 5% di Sanpaolo Imi, tramite Ifi-Ifil). L'auto andrà con ogni probabilità venduta e i centri di decisione si sposteranno altrove, come del resto è già avvenuto (facendo solo gli esempi più importanti) nell'ambito della chimica, della farmaceutica, dell'informatica, dell'aerospaziale, del nucleare, se vogliamo mettere insieme settori con gradi molto diversi di centralità e/o nocività. Resta aperta la questione di ciò per cui vale la pena battersi: una buonuscita più alta per gli operai rottamati, la difesa del capitale nazionale, la produzione di un'auto diversamente intesa, un modello di sviluppo meno feroce nei suoi esiti deindustrializzanti per i paesi a capitalismo debole. Sono questioni che solo una fase molto diversa di elaborazione sociale e politica potrebbe risolvere con esiti soddisfacenti. La dura realtà ci impone invece di pensare qui ed ora, in queste condizioni: un terreno su cui vincono purtroppo soltanto i creativi della finanza e gli interessi dei creditori. Renato Strumia
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