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Da "Umanità Nova" n. 23 del 23 giugno 2002

Il golden goal delle multi
Continua il viaggio tra sport, sponsor e business

In questi giorni roventi sono le polemiche su arbitri, goal annullati, rigori mancati mentre una nazione di calciologi si interroga sulla seconda volta della Corea contro l'Italia. Vale la pena, dopo il pezzo della scorsa settimana sui giganti dell'industria dell'abbigliamento sportivo, continuare il nostro viaggio tra sponsor e business. Le nostre informazioni sono tratte da una ricerca di Ersilia Monti e Claudio Portugalli della Lilliput di Milano. L'attenzione è particolarmente focalizzata sugli sponsor della nazionale italiana, sui palloni da calcio, sul lavoro minorile, sulle condizioni di sfruttamento bestiale cui sono sottoposti lavoratori. Per approfondimenti rimandiamo ai siti www. cleanclothes.org, www. indianet.nl (in inglese).

Lo sponsor della nazionale italiana di calcio, Kappa

In Italia la propensione all'acquisto è differente rispetto agli Stati Uniti, siamo meno sportivi, quindi il messaggio pubblicitario, made in USA, è efficace solo per un pubblico giovanissimo; per gli altri, che sono soprattutto tifosi di calcio, conta l'aspetto dell'appartenenza e dell'identificazione con la squadra del cuore. Così si spiega la politica di sponsorizzazione verso le squadre.

Specialista del merchandising per il calcio è la società torinese BasicNet, proprietaria dei marchi Kappa, Robe di Kappa e Jesus Jeans, che con il marchio Kappa veste la nazionale italiana. Nella scorsa stagione ha venduto quasi 500 mila pezzi fra maglie ufficiali e accessori con i colori della Roma di cui è sponsor con il marchio Kappa, ma rimane pur sempre un nano rispetto a Nike e Adidas, con un fatturato di "appena" 260 milioni di euro.

Nike e Adidas spendono per uno spot quanto BasicNet investe in un anno in comunicazione (circa 20 milioni di euro solo sul marchio Kappa). Fra i principali azionisti di BasicNet figurano, oltre a Marco Boglione, presidente e amministratore delegato, la 21 Investimenti della famiglia Benetton, il gruppo bancario svizzero Ubs, e Li & Fung di Hong Kong, una delle maggiori trading company asiatiche. BasicNet è presente sul mercato americano in joint venture con la statunitense Reda Sports con il nome Kappa USA e ha stipulato di recente un accordo con Li-Ning group, operatore dell'abbigliamento sportivo con oltre 2 mila punti di vendita, che sarà licenziatario esclusivo dei marchi Kappa e Robe di Kappa per il mercato cinese. Si tratta in sostanza di un'azienda molto dinamica e in forte crescita.

BasicNet produce in tutto il mondo: Cina, Vietnam, Thailandia, Cambogia, Portogallo, Turchia, Romania, India, Isole Maurizio, Filippine, Indonesia, Sri Lanka. Di una cosa bisogna darle atto, non si astiene dal dichiararlo in etichetta, come fanno invece altre sue illustri concorrenti, ma non si fa scrupolo di rifornirsi in Birmania, una delle dittature militari peggiori del mondo. (...)

BasicNet non è nuova a campagne di questo tipo. Nel 1999 l'organizzazione pacifista israeliana Gush Shalom riuscì con una forte mobilitazione internazionale ad impedire all'azienda italiana di avviare una produzione di abbigliamento sportivo Kappa nella colonia ebraica di Barkan in Cisgiordania.

I palloni da calcio

La piaga del lavoro minorile nella produzione dei palloni sale per la prima volta alla ribalta della cronaca nel 1996 per un'indagine di Life. Fanno il giro del mondo le foto che ritraggono bambini pakistani intenti alla cucitura di palloni da calcio Nike con il logo della FIFA. Nel distretto di Sialkot in Pakistan si concentra l'80% della produzione mondiale di palloni da calcio, il resto viene lavorato in India e, negli ultimi anni, anche in Cina. Da allora si susseguono svariate campagne di denuncia, capofila la Global March Against Child Labour, ideata da Kailash Satyarthi, fondatore della ong indiana South Asian Coalition on Child Servitude (SACCS), che ha dedicato la vita a liberare i bambini dal lavoro forzato soprattutto nella produzione di tappeti. Mentre è alta l'attenzione sul lavoro minorile, i campionati del mondo di calcio del 1998 si aprono con la denuncia di un ex internato in un campo di lavoro cinese che accusa Adidas di aver fatto uso di lavoro forzato per produrre palloni promozionali per i mondiali. Il fornitore della multinazionale tedesca si serviva di laboratori in una zona rurale che, accanto a personale proprio, occupavano prigionieri politici di un vicino campo di rieducazione, per 15 ore al giorno e una paga di 1,50 dollari al mese. In Italia, è il giornalista Riccardo Orizio del Corriere della Sera a denunciare in modo circostanziato nello stesso anno la presenza di lavoro minorile nella produzione di palloni gadget per conto di importatori italiani (Globo Sport e Mondo), di Nestlé e Coca Cola.

Recenti indagini in Pakistan evidenziano come, malgrado i progressi conseguiti dal Sialkot Project, il programma per l'eliminazione del lavoro minorile finanziato dall'OIL, siano ancora migliaia i bambini impegnati nella cucitura dei palloni, mentre i salari corrisposti agli adulti sono pari a un terzo di ciò che servirebbe per vivere. Le indagini svolte in India dalla ong olandese India Committee of the Netherlands pongono l'accento sull'inadeguatezza dei programmi di vigilanza adottati dagli imprenditori che non tengono conto di aspetti importanti, come i livelli salariali degli adulti, ben al di sotto dei minimi legali, la tutela della salute, i diritti sindacali. A completare l'opera è intervenuto il governo indiano quando, nel dicembre 1999, ha escluso i centri di cucitura dalla legge sul lavoro nelle fabbriche che dava diritto a un contratto di lavoro, un premio annuale, il doppio della paga oraria per gli straordinari, e altro ancora ("The dark side of football: child and adult labour in India's football industry and the role of FIFA", 2000; "Child labour and rights in the sporting goods industry: a case for corporate social responsibility", 2002, in www.indianet.nl).

Mentre in India e in Pakistan la lavorazione dei palloni è interamente realizzata a mano e si svolge in gran parte a domicilio, in Cina l'assemblaggio viene effettuato a livello industriale con una prima fase di lavorazione a macchina. In quali condizioni questo avviene lo racconta uno studio uscito nell'aprile 2002 che si basa su interviste realizzate ai lavoratori di tre fabbriche del Guangdong che producono palloni, guanti e accessori sportivi per conto di note aziende occidentali come Adidas, Puma, Umbro e le italiane Lotto e Diadora ("Report on working conditions of soccer and football workers in mainland China", in www.cleanclothes.org).

Le condizioni di lavoro sono del tutto simili a quelle descritte la scorsa settimana per le scarpe e l'abbigliamento: giornate lavorative che raggiungono le 13 ore, violazione delle norme sulle retribuzioni, mancanza di assicurazioni sociali e perfino restrizioni della libertà personale. Le pelli sono ammorbidite con sostanze chimiche e calore intenso da operai sprovvisti di strumenti di protezione adeguati, con il risultato che essi sono esposti a svariati rischi di malattie professionali. I rischi più comuni sono gli infortuni da intossicazione, bruciature, tagli e deformazioni delle articolazioni dovuti all'intensità della produzione. Gli operai sono tenuti all'oscuro del loro diritto ad essere risarciti. La retribuzione è incerta con riferimento sia alla regolarità dei pagamenti, con ritardi fino a 30 giorni, sia all'effettivo importo corrisposto per ogni pallone prodotto (quote di circa 100 al giorno), in quanto questo varia anche in funzione dell'ordine e dei tempi di consegna. Quanto si guadagna? Da 36 a 48 dollari al mese in bassa stagione, arrivando a 72-120 nei picchi. Il salario minimo garantito dovrebbe essere 54 dollari al mese per 40 ore settimanali. In bassa stagione e senza pesanti straordinari non si arriva al salario minimo, anche se questo non consentirebbe in ogni caso di vivere dignitosamente. L'unico modo per tirare avanti è accettare i dormitori e mangiare alle mense, interni, per la "modica" decurtazione di circa 19 dollari al mese.



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