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Da "Umanità Nova" n. 25 del 7 luglio 2002
Rivolta nella città della Fiat
Torino, Piazza Statuto, luglio 1962
Torino, Piazza Statuto, luglio 1962: rivolta nella "città della Fiat"
Quarant'anni fa la protesta operaia torinese per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici culminava, nel luglio del 1962, negli scontri di Piazza Statuto. Il 4 luglio, vista l'interruzione delle trattative tra Confindustria e sindacati, furono proclamate una serie di agitazione per i giorni seguenti. Contemporaneamente la Fiat si diceva disposta ad aprire un confronto, per chiudere a livello aziendale la vicenda contrattuale, coi "liberi sindacati", ovvero UIL, SIDA e CISL, con esclusione della CGIL. La CISL rifiutava, UIL e SIDA vi partecipavano e concludevano un accordo separato. Subito divampava la polemica tra i sindacati e i lavoratori.
Lo sciopero del 6 luglio riusciva nei vari stabilimenti Fiat. Spontaneamente alla SPA Stura un corteo di circa seicento operai lasciava la fabbrica e si dirigeva verso Piazza Statuto, collocata al centro della città, dove risiedeva la sede della UIL per protestare contro l'accordo appena firmato. Fra i partecipanti alla manifestazione molti erano gli iscritti a quel sindacato, sdegnati da un comportamento che non condividevano affatto. Giunti in piazza si radunavano sotto la sede della UIL, fischiavano e urlavano contro il "contratto bidone" e contro alcuni sindacalisti, tentavano di penetrare all'interno della sede sindacale, altri lanciavano pietre contro le finestre. Intanto una folla di curiosi, composta soprattutto di giovani meridionali che abitavano nelle vie limitrofe, si radunava per assistere allo spettacolo.
Manifestanti in Piazza Statuto
Fischi, urla e pernacchie si levavano quando arrivava la polizia, applausi invece per gli operai raccolti sotto la sede della UIL. Nel primo pomeriggio avveniva la prima carica per disperdere i dimostranti e la folla che si era radunata per guardare. Era l'inizio di una serie ripetuta di scontri che si protrassero per tre giorni avendo come epicentro la piazza. I dimostranti si ritiravano nelle vie laterali, scappavano a piccoli gruppi in direzioni diverse; poi, quando la polizia ritornava al centro della piazza, ricomparivano. A nulla valsero i tentativi fatti dai dirigenti della Camera del lavoro e del PCI per convincere i manifestanti a sciogliersi e a ritirarsi dalle vie adiacenti la piazza. Gli scontri, che erano iniziati il sabato pomeriggio, si protrassero per altri due giorni e cessarono del tutto solo alle due di mattina di martedì 10 luglio. In tre giorni di scontri 1.251 persone furono fermate, 90 furono arrestate e processate per direttissima, un centinaio denunciate a piede libero, 169 gli agenti feriti.
I giornali e i rotocalchi non mancarono di marcare la presenza dei giovani operai, molti dei quali meridionali, quali protagonisti degli scontri definendoli "teppisti", "teppaglia", "facinorosi", "giovinastri" che si erano introdotti nella manifestazione operaia e che, verso la fine della giornata di sabato 7 luglio, erano riusciti a togliere "di mano il controllo della situazione" ai dirigenti sindacali. Tra i fermati per disordini, nella giornata di sabato 7 luglio, ben 291 erano giovani e i tre quarti di loro erano meridionali: "molti - si leggeva su «La Stampa» del 10 luglio 1962 - hanno l'aspetto di bulli di periferia, alcuni si direbbero studenti. Tutti vestono nello stesso modo: una camicia di colore o una maglietta sgargiante, molte volte rossa, fuori dai pantaloni, maniche rimboccate".
Essere giovani e meridionali a Torino
Per questi giovani torinesi di recente immigrazione, protagonisti di una rivolta spontanea e rabbiosa, che solo indirettamente aveva a che fare con la vertenza contrattuale alla Fiat, ed esprimeva piuttosto il malcontento e la rabbia accumulate nella città dell'auto da chi era costretto a vivere situazioni sociali, economiche e di vita pesantissime, non c'era spazio di comprensione, neanche da parte delle forze di sinistra. Anzi, queste ultime, accusate di essere le organizzatrici della manifestazione e, in particolare i comunisti, di aver retto la regia degli scontri, reagirono prendendo le distanza dalla "teppa", accusando i provocatori neofascisti che si erano infiltrati nella manifestazione allo scopo di provocare disordini, arrivando a definire quei giovani i "teddy boys di Valletta", scaricati in piazza da "lucide Giuliette T, spider e sprint" guidate da individui che li "assoldavano" nei bar e nella periferia al prezzo di "1200 lire" («Vie Nuove», 12 luglio 1962).
Se i "ragazzi delle magliette a strisce", protagonisti della rivolta giovanile del luglio 1960 contro il governo Tambroni, potevano ancora essere riassunti nella categoria di combattenti democratici e antifascisti, e in tal modo poteva essere data loro una patente di moralità ideale al loro comportamento che tranquillizzava la sinistra tradizionale, per i giovani di Piazza Statuto possibilità di mediazione non ve n'erano. Essi uscivano da schemi interpretativi resistenziali precostituiti, rappresentavano, nel loro comportamento violento, rissoso, nella loro ricerca del "casino per il casino", il prototipo italiano delle moderne rivolte giovanili che già avevano interessato la società inglese, quella francese e tedesca occidentale. Una rivolta che era l'espressione violenta di strati marginali, non integrati e non inseriti nel tessuto cittadino, esclusi dalla partecipazione a quei beni materiali che la pubblicità e le vetrine ostentavano e inducevano a consumare.
Nel caso specifico di Torino per spiegare la rivolta di Piazza Statuto si doveva fare riferimenti all'ondata massiccia di migrazione meridionale che aveva investito la città portando il numero degli abitanti dai 700 mila circa del 1950 a più di un milione nel 1962. Non era un caso che i due terzi delle persone fermate durante gli scontri di piazza fossero meridionali, e molti di loro giovanissimi. Meridionali giovanissimi, giunti sovente soli a Torino, sradicati e in rottura con la famiglia, sicuri di trovare lavoro come manovali nei cantieri edili, nelle piccole aziende meccaniche, liberi dai vincoli, dalle relazioni parentali e familiari, dalle tradizioni che li imbrigliavano nella vita sociale al Sud, ma con enormi difficoltà di inserimento e di integrazione nelle istituzioni sociali, politiche e sindacali presenti nella nuova collettività. Questo sradicamento, questa mancanza d'identità, unite alle difficoltà che si incontravano nella vita quotidiana, generavano il fenomeno dei giovani operai "bulli" che stazionavano a Porta Palazzo, covando rancore, rabbia e sfida vera e propria verso una città che li escludeva, sentimenti che potevano trovare sfoghi rabbiosi e ribellistici, com'era accaduto in Piazza Statuto. Lo ammetteva, d'altronde, lo stesso Paolo Spriano in un articolo su «Rinascita» del 14 luglio 1962 descrivendo il processo di immigrazione tumultuosa e incontrollata che rendevano la Torino di quegli anni simile ad una "città del West", nella quale si annidava "il gusto giovanile di andare 'là dove fa caldo' ".
Due anni dopo i fatti del luglio 1960 e alla luce di quanto era accaduto in Piazza Statuto a Torino, due redattori dell'appena nata rivista «Quaderni Piacentini», nel dicembre del 1962 traevano un bilancio delle recenti manifestazioni di piazza per segnalare che, accanto agli operai e ai contadini, emergeva un settore sociale nuovo: i giovani studenti e i giovani operai i quali coi fatti del luglio '60 e del luglio torinese di Piazza Statuto, avevano iniziato a far sentire la loro voce, diventando i protagonisti delle agitazioni. Per i due redattori si trattava di estremisti, termine col quale non si voleva darne una connotazione negativa, anzi, "riconoscerne la portata rivoluzionaria", perché al di là della ragione specifica per cui manifestavano, vi era nel loro modo di porsi e di esporsi uno sdegno e una insofferenza nuovi nei confronti delle istituzioni statali, partitiche e sindacali dalle quali si sentivano intrappolati e limitati.
Diego Giachetti
E ci chiamano teppisti/ e ci dicon provocatori/ ma noi siamo lavoratori/ che Togliatti non amiam./ Non vogliam il centro-sinistra/ preferiamo l'idea socialista/ alle tresche con i preti col governo e il capital./ Su compagni in fitta schiera/ innalziamo le baraccate/ e leviamo la bandiera/ quella rossa del lavor."
Testo riportato da Cesare Bermani secondo quanto riferitogli da Raniero Panieri; canzone canticchiata a Torino dopo gli scontro di Piazza Statuto.
Piazza Statuto su «Umanità Nova»
«Umanità Nova» dedicò ai "fatti" di Piazza Statuto tre articoli in prima pagina: I "fatti" di Piazza Statuto, 22 luglio 1962, I "teppisti" di Piazza Statuto, 5 agosto 1962 e I processi di Torino, 29 luglio 1962, da cui riprendiamo alcuni passaggi: "Sabato 21 aprile è stata letta la sentenza per i fatti di Piazza Statuto [...] Tutti gli imputati avevano affermato di trovarsi per caso a passare in Piazza Statuto durante le cariche della polizia [...] il solo ad affrontare il processo con fermezza e dignità è stato il giovane compagno Gerardo Lattarulo. Appena diciannovenne, ha dichiarato con voce calma, in Tribunale, di appartenere al movimento anarchico, di essersi appositamente recato a protestare contro la UIL e di aver anche rilanciato i candelotti lacrimogeni contro gli agenti di polizia [...] "Il Presidente gli chiede - È vero che avete rilanciato contro la polizia lacrimogeni? - Senza dubbio, risponde il Lattarulo, volevo che provassero anche loro che bell'effetto che facevano". Il giovane compagno è stato condannato a 11 mesi di prigione e 14 mila lire di multa. Gli è stata applicata la condizionale e messo subito in libertà. Il giorno dopo tutti i compagni di Torino - riuniti nella sede del gruppo Bakunin - hanno vivamente festeggiato il giovane Lattarulo per il suo ammirevole contegno".
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