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Da "Umanità Nova" n. 25 del 7 luglio 2002
La lunga marcia
Il professore, l'impero e i disobbedienti
Accade, a volte, che classiche domande (chi siamo? da dove veniamo? dove
andiamo?) ricevano risposte ritualizzate, perché acontestuali rispetto
ai movimenti che si danno, perché supponenti l'esistenza del famoso filo
rosso che si tratta solo di riannodare. Ci sono però almeno due
categorie di persone che non corrono questo rischio: da una parte il professor
Toni Negri e il milieu di intellettuali post-operaisti che lo omaggia,
dall'altra, il movimento che oggi si fa chiamare Disobbedienti. Non c'è
passato, non c'è presente, c'è solo - immaginifico e totalizzante
- un futuro che si propaga all'indietro, risucchiandoci verso di esso.
La tesi principale che questo articolo tenterà di sviluppare è
che il professore, sul piano teorico, offre pezze d'appoggio sicure, ma anche
sovradimensionate rispetto alle reali necessità del movimento
disobbediente, mentre la caratterizzazione che questo si da, offre sponda alle
teorizzazioni negriane. Niente di particolarmente originale, d'accordo, ma non
si può nascondere l'ammirazione per una corrispondenza particolarmente
riuscita fra teoria e prassi.
Cominciamo dal passato. Nella sua recente opera Impero[1] - Toni Negri procede ad una sistematica demolizione
e reinterpretazione della storia dell'umanità dell'ultimo millennio. Non
è un impazzimento, è, in realtà, un'operazione molto
lucida che tende a scardinare la periodizzazione marxista fondata sul
susseguirsi di forme produttive (modi di produzione). Un po' grossolanamente
potremmo dire che una storia delle idee e delle autorappresentazioni
sostituisce quella della materialità delle forze produttive e dei
rapporti sociali determinati. Il capitalismo sbiadisce in una tendenza alla
modernizzazione; il suo rapporto con gli apparati statuali diventa un conflitto
tra immanenza e trascendenza; la funzione repressiva di questi ultimi si
annacqua nel passaggio dal regime disciplinare a quello del controllo
introiettato; l'imperialismo scompare, come una fase superata dello sviluppo
capitalistico; la lotta di classe diventa un episodio irripetibile; e
così via.
Per il professore, insomma, - e qui siamo all'oggi, riverberato dal domani -
siamo entrati nell'era della post-modernizzazione, nella quale questa
vis senza determinazioni spiana le rughe della società umana
transnazionalizzandola e spostando le contraddizioni e le difficoltà ad
un livello superiore, quello globale. Ma attenzione, non siamo semplicemente di
fronte al solito escamotage, molto praticato e che consente di non fare mai i
conti con i propri errori, perché a livello globale c'è l'Impero,
onnicomprensivo e onnisignificante. L'Impero non è solo il nuovo ordine
della globalizzazione (come cita il sottotitolo del libro di Negri) ma è
anche l'articolazione di questo ordine a tutti i livelli, è il sistema
dei poteri, è potere imperiale. Impero è un non luogo, è
dunque inutile cercarne una localizzazione, gli Stati Uniti non sono il centro
dell'Impero, perché questi non ha un centro. L'Impero (mi si perdoni
l'intreccio alchimistico-hegeliano) è l'essenza intima del processo
storico umano, distillata dalle sue vicende parziali e che contiene in
sé, in nuce, tutti gli elementi per chiudere, in gloria, questo
processo. Ma usciamo un attimo dalla metafisica e, empiricamente, come dice il
professore, analizziamo brevemente la "piramide della costituzione
globale" [2], ovvero quanto c'è di
osservabile sovrastrutturalmente del costituirsi del potere imperiale.
Al vertice ci sono gli Stati Uniti che "esercitano l'egemonia sull'uso
globale della forza"; al secondo livello c'è "un gruppo di
stati-nazione che controllano i principali strumenti monetari globali",
questi stati-nazione si ritrovano insieme in una serie di organismi (G8, club
di Parigi, Londra e Davos; al terzo livello c'è "un complesso
eterogeneo di associazioni (comprendente più o meno le stesse potenze
che esercitano l'egemonia sui livelli militari e monetari) che dispiegano un
potere culturale e biopolitico di portata globale". Questi tre livelli
possono essere definiti il "comando unificato globale".
Al di sotto c'è il piano a partire dal quale "il comando viene
distribuito in modo più estensivo ed articolato su tutta le superficie
mondiale". Su questo piano della piramide troviamo due livelli: "le reti
delle corporazioni capitalistiche transnazionali" (le multinazionali) e il
"complesso degli stati-nazione" che in diversi modi producono e regolano
l'organizzazione dei mercati.
Il piano sottostante della piramide, il più vasto, è composto da
"organismi che rappresentano gli interessi popolari nell'organizzazione del
potere globale". Qui troviamo gli stati-nazione subalterni e le
organizzazioni che in qualche modo rappresentano "la società
civile": le ONG in generale, le organizzazioni per la difesa dei diritti
umani, i gruppi pacifisti, gli organismi per l'assistenza medica e per la lotta
contro la fame, ecc.
È una bella piramide, che governa una società "liscia"
come ama dire il professore. Comando, potere, articolazioni del potere,
rappresentanza della società civile ovvero del popolo. E se il popolo
rappresenta la Moltitudine, allora il cerchio si chiude: nel momento in cui la
Moltitudine entrasse direttamente nella piramide "contaminandola"
(riplasmandola) il gioco sarebbe fatto, sarebbe la fine della storia, la
società nuova.
Rimane solo qualche dettaglio. Che cosa è la Moltitudine per il
professore? Che rapporto ha, se l'ha, con il proletariato, con la working
class? La risposta alla prima domanda è semplicissima: la Moltitudine
sono tutti coloro che sono sottoposti all'Impero, ma non vi hanno ancora
cittadinanza, è dunque un insieme chiuso e aperto al contempo dice il
professore, Moltitudine è l'Antagonista (ma credo che per il professore
sia una parola un po' troppo forte) al potere imperiale, la contraddizione
immanente (questo gli piacerebbe di più) all'Impero. La risposta alla
seconda è ugualmente semplice: è un rapporto di inclusione totale
in quanto la working class è privata delle sue determinazioni classiche
(estrazione di plusvalore, lavoro salariato) tramite il vecchio giochino della
produzione immateriale. Chiariamo meglio questo punto: se la produzione
immateriale (intellettuale, culturale, affettiva, ecc.) è ormai egemone
(fuori e dentro la fabbrica, grazie all'informatizzazione) nei confronti di
quella materiale, che senso ha conservare una segmentazione sociale fondata
sulla seconda? Tanto più che, come ci conferma il professore, tutti
hanno un cervello, delle capacità, delle risorse intellettuali e delle
conoscenze che possono mettere a profitto come "produttori immateriali". E
questo offre grandi possibilità alle "singolarità" di cui
è composta la Moltitudine.
Ma passiamo ora alla lunga marcia dei Disobbedienti. Le ex Tute Bianche -
pollone della vecchia area autonoma - non hanno una storia lunghissima, ma
densa. Potremmo partire - sorvolando gli illustri antecedenti teorici di
Quaderni Rossi e Classe Operaia [3] dei quali
sicuramente i Disobbedienti non conservano alcuna memoria - dalla costituzione
dei primi centri sociali, zone occupate con una forte motivazione antagonista
(in altri tempi si sarebbe potuto dire sovversiva), titolari di una
progettualità "forte", sulla quale si poteva non essere d'accordo, ma
che aveva una sua dignità e una sua coerenza (la fuoriuscita delle
contraddizioni dalla fabbrica e il loro riversamento nel sociale). Ma la fase
duramente antagonista (all'interno della quale si consumava la separazione tra
il ceto colto e quello militante), coinvolta nella crisi generale della
sinistra di classe, si esauriva progressivamente, portando ad una spaccatura
(evidenziata dalla famigerata Carta di Milano) tra l'ala vetero-marxista e
quella innovatrice, rappresentata grosso modo dai centri sociali del nord-est.
E qui siamo a ieri, gli invisibili, le prime Tute Bianche, conservavano un
progetto debolmente antagonista, ma almeno radicalmente riformista (potremmo
dire con Andrea Fumagalli di utopia riformista), che aveva una certa coerenza
interna: dalla considerazione della "invisibilità" sociale di vasti
strati alla richiesta del cosiddetto reddito di cittadinanza come collante tra
lavoratori, lavoratori in nero, precari e disoccupati. Purtroppo alla debolezza
intrinseca della piattaforma [4] si aggiungeva l'interpretazione della prassi in termini esclusivamente mass-mediatici. In altre parole l'attenzione ai
movimenti e alle motivazioni reali dei senza-lavoro diventava pressoché
nulla e le Tute Bianche assumevano una funzione sostitutiva e non
rappresentativa di questi. La crisi politica delle T.B. nasce da qui, ma anche
dalla disfatta "militare" subita nelle giornate di Genova del luglio dello
scorso anno. In quell'occasione è andato in crisi momentanea un altro
aspetto della strategia tutabianchista e cioè la capacità di
rappresentare (più che di gestire) un rapporto complesso con le
istituzioni, ma dove le trattative e la mediazione possono cedere in qualsiasi
momento il passo alla repressione più dura. Ma veniamo all'oggi: le Tute
Bianche scompaiono e compaiono i Disobbedienti (ci sono anche i giovani di RC)
che ora hanno anche una sorta di documento programmatico 5. Per chi non avesse modo di consultarlo tentiamo di metterne in luce i tratti salienti: in primo luogo c'è il trasferimento d'obbligo al livello globale (Per la
resistenza globale alla guerra globale) dove si immagina un movimento
generalizzato "contro la guerra come contro gli attacchi del padronato
industriale al lavoro, contro l'aziendalizzazione dell'istruzione come contro
le leggi razziste" [6] che nella realtà
non esiste se non come somma di movimenti parziali non comunicanti. In secondo
luogo c'è una scontata quanto singolare rivendicazione di protagonismo
nel percorso che ha portato allo sciopero generale del 16 aprile (percorso al
quale, nella sostanza, i Disobbedienti non hanno portato nessun apporto) e un
benvenuto al ritorno della CGIL sul terreno della lotta che tace completamente
sulle motivazioni e le dinamiche complesse che l'hanno determinato. Infine, in
terzo luogo, l'occupazione della dimensione "municipalistica", che in soldoni
significa il rapporto stretto con istituzioni locali, la caduta definitiva
della pregiudiziale antielettoralistica (ma c'è mai stata?) e il
passaggio esplicito - non dichiarato ma praticato - alla dimensione
cooperativistica e/o microimprenditoriale. Il cerchio si chiude, le due lunghe
marce convergono, l'universo parallelo del professor Toni Negri fornisce il
contesto teorico ai programmi dei Disobbedienti. La Moltitudine ha già
la sua rappresentanza e il suo percorso di "contaminazione" dell'Impero.
Un compagno, un paio di anni fa, sosteneva che il percorso delle Tute Bianche
fosse neo-riformista. Aveva torto, il riformismo storicamente si è
sempre manifestato attraverso grandi movimenti di massa dei lavoratori e dure
lotte, su obbiettivi largamente condivisi e con il progetto di strappare una
fetta di potere allo Stato e al capitale. Quello dei Disobbedienti è
semplicemente un progetto di "integrazione controllata e progressiva"
nell'esistente, senza l'intenzione reale di modificarne nulla.
La lunga marcia sta finendo.
Walker
Una versione più approfondita di questo articolo comparirà sul
prossimo numero di Collegamenti Wobbly, che uscirà a settembre di
quest'anno.
Note
[1] Michael Hardt / Antonio Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002.
[2] Salvo diverso avviso tutte le frasi e i termini virgolettati e in corsivo sono tratti dallopera succitata.
[3] Per una storia un po fuori dalle righe di quelle esperienze cfr. Mauro Guatelli, Alle origini del 68: loperaismo, in AltraStoria n. 4 del gennaio 1999 e Il fascino discreto delloperaismo, in AltraStoria n.5 dellagosto 2000.
[4] Cfr. su questo punto: Guido Barroero, Quando le parole costano poco e Cosimo Scarinzi, La Tobin tax, in Collegamenti Wobbly n.8-9 del 1999-2000.
[5] Cfr. Lettera aperta del movimento delle e dei disobbedienti, comparso da qualche parte sulla rete il 6 giugno 2002.
[6] Ivi
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