![]() Da "Umanità Nova" n. 26 del 21 luglio 2002 Un altro mondo è necessarioGenova, un anno dopo. Ancora in piazza, ancora con la stessa rabbia e la stessa determinazione. Ma lo scenario complessivo non è più lo stesso e una nuova consapevolezza si impone. Il clima di guerra "duratura e permanente" in cui siamo stati immersi a partire dall'11 di settembre è diventato una costante del nostro vivere quotidiano, con tutti gli annessi e connessi del caso (manipolazione dell'informazione, propaganda, falsità, repressione, contenimento psicologico, ecc.). Gli esperti della guerra ad alta e bassa intensità sono all'opera per restringere ovunque gli spazi di libertà politica e sindacale, ora in modo palese, ora in modo occulto. La lotta al "terrorismo" è diventato il pretesto per sferrare un attacco determinante e determinato a tutti i nodi di crisi, a tutti gli ostacoli che stanno sulla strada degli interessi del capitalismo americano, prima che altri soggetti acquisiscano una forza tale da mettere in discussione tale supremazia. D'altronde l'euforia, la baldanza, che avevano caratterizzato le "magnifiche sorti progressive" della globalizzazione economica, osannata dal neoliberismo imperante, si stanno progressivamente sgonfiando in seguito alla fase recessiva attuale contraddistinta da contrazione dei commerci, dalla limitazione dei movimenti finanziari, da prudentissime stime di sviluppo. Un ridimensionamento che costringe le classi dirigenti a riavviare politiche di intervento "pubblico", cioè statale, per far fronte sia alle necessità delle politiche di guerra che agli effetti del "laisser faire" precedente (il riferimento agli scandali che, a catena, si stanno riversando sul mondo economico e finanziario americano è d'obbligo). In questo contesto il processo di globalizzazione economica spinto dalle multinazionali e sostenuto dai loro organi di riferimento (WTO, FMI, ecc.), rallenta la sua marcia, mentre si registra una forte ripresa delle politiche nazionali o macroregionali, manifestatesi sia nella conduzione della guerra in Afganistan, che nel processo di costruzione europea e nello stesso ridimensionamento del ruolo della NATO. D'altronde ragionare di "cose" come spesa pubblica con tutto il suo corollario di priorità di interventi ed incentivi, non significa altro che parlare di politica dei redditi, con tutto quello che consegue in termini di rafforzamento del ruolo degli Stati nazionali. In effetti la globalizzazione economica era diventata un grande sipario che nascondeva quanto in realtà succedeva in scena: una continua ridefinizione dei poteri e della loro gerarchia. L'11 settembre ha costretto all'apertura del sipario disvelando la volontà di controllo totalitario del globo da parte dei gruppi dirigenti statunitensi, il cui comportamento non può e non deve essere soggetto ad alcun giudizio (significativo a riguardo l'atteggiamento di rifiuto nei confronti dell'istituzione del tribunale internazionale sui crimini di guerra). Il monito di Bush - o con noi o contro di noi - testimonia della volontà USA di imporsi, sempre e comunque, in un contesto reso più complesso dai processi di globalizzazione economica e dai suoi, a volte, inestricabili intrecci. Intrecci che più di una volta, nel recente passato, hanno condizionato lo sviluppo di tale volontà, ma che, dopo l'attacco alle Twin Towers, non ne paiono più in grado. La forza militare dello Stato nordamericano è tale da farci intravedere una nuova fase del processo di globalizzazione: quella incentrata su una sorta di politica imperiale che costringe tutti gli altri Stati a un rapporto di subordinazione, ove coabitano pratiche contemporaneamente di integrazione e di concorrenza, in uno scenario che vede la guerra come esito inevitabile della crisi dei rapporti internazionali. In questa situazione il movimento che si è espresso contro la globalizzazione economica, contro le multinazionali e i loro organi, è costretto a ridefinire pratiche e obiettivi. In un contesto di guerra, non ci si può più limitare alla contestazione degli organismi economici senza affrontare cosa e chi li regge e quali politiche li muove. Occorre fare un salto, dando consistenza politica e sociale alle proprie proposte, alla propria rabbia, alla propria indignazione, riattualizzando le proposte rivoluzionarie dirette all'abbattimento del potere politico e all'autogestione generalizzata. Salto tanto più necessario nella misura in cui gli USA tendono a porre nello stesso "fronte antimperialista", il movimento antiglobalizzazione e i gruppi islamisti, per costringere ad un riallineamento quanti (e noi tra loro) non si riconoscono in tale connubio. Nel clima di "guerra civile" che è stato artatamente creato per occultare responsabilità e volontà reali, per scatenare gli uni contro gli altri, lavoratori e popoli, giovani e movimenti, occorre vederci chiaro e individuare pericoli e trappole. Come quello, ben presente, di rinchiudersi su base regionale o nazionale, etnica o religiosa, come tentativo di chiamarsi "fuori", ridando fiato alle logiche nazionaliste. Occorre invece ridare fiato all'internazionalismo, quello che ha animato questa stagione di lotte, quello che ha avuto nelle componenti sociali più radicali e libertarie, l'anima più lucida e determinata. Il relazionarsi dei movimenti ovunque essi si manifestino, il dialogo tra le diverse culture politiche ed ideologiche che li animano, il confronto a tutto campo, sono e debbono essere gli strumenti di una politica che vuole opporsi alla barbarie della guerra, che vuole affossare la guerra e tutto il sistema che la genera. Ma che per essere tale non deve cadere nell'ennesima illusione riformista, sostanzialmente socialdemocratica, che a Porto Alegre ha celebrato il suo ultimo rito. Non ha senso infatti un internazionalismo che non abbia una base ben solida costituita dall'impegno di lotta contro il "proprio" Stato, contro il "proprio" sistema di potere; ed è, in effetti, su questo terreno che si può misurare l'effettiva volontà di trasformazione sociale che anima le diverse anime di movimento. Nella fase che stiamo vivendo, caratterizzata, come ben vediamo, da un'accelerazione delle politiche di taglio e liquidazione delle "garanzie" sociali, di contenimento e di selezione sociale, dipenderà da quanto sapremo mettere in campo, come proposta, come intelligenza, come energia, lo sviluppo e l'orientamento del movimento. Un movimento che dovrà essere in grado di "bypassare" le forche caudine di un'opposizione di facciata per aggregare intorno a sé quanti non sono più disponibili a subire la violenza quotidiana del sistema di potere, quanti credono veramente che un altro mondo non solo è possibile, ma addirittura indispensabile. Max
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