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Da "Umanità Nova" n. 26 del 21 luglio 2002
La parabola no-global
Dalla Selva Lacandona a Genova
L'emergere sulla scena politica e sociale di vasti
movimenti di contro globalizzazione che, da Seattle in poi, sono balzati con
prepotenza sulla scena pubblica, se da un lato pare ridare fiato e spazio di
visibilità politica a movimenti extrasistemici radicali, dall'altro ci
pone di fronte alla necessità di ripensare le coordinate di un
intervento che abbia la capacità di radicarsi al di là delle
grandi manifestazioni.
In realtà quella che abbiamo di fronte è un'onda lunga che prende
avvio dalla Selva Lacandona per investire lentamente l'intero pianeta. Sin
dall'inizio del movimento zapatista emergono alcuni dei principali attrezzi
teorici e di strategia politica che oggi vediamo all'opera nelle piazze ai
quattro angoli del pianeta. L'EZLN non a caso incarna un paradosso che nessuno,
credo, avrebbe prima pensato realizzabile: un movimento armato, indigeno,
locale che si proietta immediatamente sulla scena mondiale ridisegnando
l'intera semantica della lotta extrasistemica. I volti coperti che
anziché nascondere rivelano, una curiosa commistione di tattiche della
non-violenza e di movimento guerrigliero, comunitarismo e internazionalismo, il
pensare e agire localmente ed il pensare ed agire globalmente, la reinvenzione
della cosiddetta "società civile" quale soggetto di una politica dal
basso che non disdegna il dialogo con le istituzioni, la valorizzazione della
tradizione autoctona e l'uso della Rete per una comunicazione a tutto campo.
Lo slogan echeggiato in decine di appuntamenti internazionali di lotta contro
WTO e Banca Mondiale, i vari G-8 e i summit dell'UE come quelli delle Americhe,
"La nostra lotta sia transnazionale come il capitale" rispecchia in modo
puntuale lo spirito zapatista. È peraltro significativo che all'inizio
degli anni '90, che ormai vedevano al tramonto il vecchio e usurato
terzomondismo, quasi ovunque siano nati gruppi, comitati, associazioni di
sostegno alla lotta zapatista, che ben presto, al di la dell'opera di
solidarietà con i ribelli chiapanechi, hanno rivolto la loro
attività verso altri, più ampi ambiti di intervento. I vari
incontri per "l'Umanità e contro il neoliberismo" promossi dal movimento
zapatista contribuiscono all'allargamento delle prospettive, alla creazione di
relazioni, rapporti, reti internazionali. Abbiamo assistito al tentativo di dar
vita ad movimento inedito, capace di superare sia la tendenza alla
frammentazione e al "particulare" tipica degli anni '80 sia l'afflato
universale ma poco attento alle questioni ed alle culture locali caratteristico
del decennio precedente. Tuttavia un esame più attento dei movimenti
sviluppatisi in questi ultimi tre anni, al di là dell'avvincente
dichiarazione programmatica dell'unità nella diversità, della
pluralità delle lotte e dei percorsi nelle mobilitazioni, rivela che
molti nodi restano irrisolti. E non è, come ritengono alcuni, una mera
questione di "stile". In gioco non è tanto la strategia di piazza
preferita quanto la prospettiva delle lotte e qui il discorso diviene
infinitamente più complesso perché le linee di cesura e quelle di
convergenza tagliano in modo del tutto trasversale gruppi ed appartenenze
consolidate spezzando talora vecchi fronti e ricomponendone di nuovi. In altri
termini l'elemento che tende a colpire i più ossia le azioni di piazza
è alla fin fine la questione meno interessante perché il "blocco
nero" o la resistenza nonviolenta fanno parte dello spettacolo mentre i
contenuti restano spesso sullo sfondo. Ci chiediamo ad esempio quale futuro
potrà avere un movimento che vede al proprio interno sia le componenti
postmoderne che quelle antimoderne, quelle laiche ma anche, hainoi, quelle
religiose, quelle internazionaliste ma, insieme, quelle nazionaliste.
I nodi cominciano a venire al pettine e non crediamo sarà facile
scioglierli perché toccano questioni cruciali. La rivolta contro la
logica annichilente della merce, la rabbia per la distruzione ambientale, il
crescente divario tra chi ha troppo e chi nulla sono alla radice di questi
movimenti, che se da un lato paiono schiudere le porte ad una prospettiva laica
e libertaria tuttavia al contempo ridanno spazio a miti delle origini e ansie
mistiche, tanto più pericolose quanto più simili a quelle
analoghe cui da voce la destra più profonda.
Su di un altro versante sempre meno ricomponibili appaiono le fratture tra le
tendenze stataliste e neowelfariste e quelle autogestionarie. Per le prime il
solo antidoto efficace alla globalizzazione è nel rafforzamento degli
stati nazionali e nella ripresa di politiche (neo)socialdemocratiche; le
seconde puntano invece su pratiche di opposizione alla logica capitalista
sostenendo la radicale antitesi tra prassi autogestionaria e ambito statuale.
È immediatamente evidente che non si tratta di questioni di poco conto e
la scelta di una prospettiva rispetto ad un'altra ha determinato orientamenti,
alleanze a breve e lungo periodo, strategie di intervento, che fuori dalle
contestazioni di piazza, hanno aperto orizzonti assai diversi e presumibilmente
divaricati.
Le tante anime dei movimenti di contro globalizzazione sono riuscite a
convivere nella loro fase aurorale ma, da Genova in poi, lo scontro tra aree
riformiste, fautrici di una "moralizzazione" dei processi di globalizzazione ed
aree radicali, convinte dell'urgenza di una politica anticapitalista ed
antistatale si è fatto sempre più aspro. Nel nostro paese, dove
il peso delle tradizioni politiche della sinistra moderata è ancora
forte, e dove questi movimenti, sia pur tardi, hanno assunto dimensioni ben
più ampie di quelle di altri paesi, il tentativo egemonico delle aree
moderate, attuato attraverso buona parte dei Social Forum locali e,
soprattutto, attraverso il partito-non partito, l'Italian Social Forum, passa
anche attraverso la marginalizzazione e la criminalizzazione delle aree
radicali e libertarie.
La vergognosa operazione di fare dell'area anarchica tutt'un blocco, magari
"nero", di infiltrati e poliziotti, portato avanti sin dalle tragiche giornate
di Genova, è clamorosamente fallito. Ma soprattutto è fallita la
costruzione di una sorta di "partito no-global" che riassumesse e
rappresentasse l'intero movimento. Sin dall'inizio abbiamo assistito allo
sfilamento della Rete di Lilliput che si è sostanzialmente estraniata
dal percorso dell'Italian Social Forum, denunciandone il carattere verticistico
ed autoritario. Se a ciò si aggiungono i diversi e confliggenti
interessi dei vari attori in gioco, incapaci di dar vita ad una struttura che
fosse qualcosa di più di un litigioso intergruppi, cominciamo ad avere
un quadro più chiaro. Lo scorso anno, nel luglio genovese Rifondazione
è stata disponibile, pur fornendo un apporto considerevole alla riuscita
delle manifestazioni, ad assumere un ruolo formalmente defilato ma nelle fasi
successive ha fatto pesare sempre più la propria macchina organizzativa.
Inoltre la nascita di un fronte di opposizione antigovernativo, se da un lato
ha visto vaste mobilitazioni di piazza, dall'altro ha reso possibile un, sia
pur parziale, riavvicinamento tra Rifondazione e settori dell'Ulivo a scapito
di una radicalizzazione dei contenuti del percorso No-global, che si è
vieppiù appiattito sulle esigenze della politica istituzionale
nostrana.
Le decine di migliaia di persone che intorno all'appuntamento genovese e poi
nei mesi successivi si erano avvicinate da protagoniste all'agire politico e
sociale, partecipando sì ai cortei, ma anche al dibattito nei vari
Forum, sia fisici che virtuali, sorti un po' ovunque, si sono pian piano
ritrovate ai margini di un processo decisionale definitivamente avocato a se da
risicate minoranze di politici di professione.
La cosiddetta "crisi del movimento" è in definitiva il risultato di
fattori diversi e certamente non di segno univoco. L'eccessiva
spettacolarizzazione voluta da alcuni settori, come i Disobbedienti, finisce
col mostrare la corda quando l'armamentario di "trovate pubblicitarie" tende ad
esaurirsi. D'altro canto le "dichiarazioni di guerra" virtuali della premiata
ditta Casarini & C. si sono infrante tragicamente di fronte alle pallottole
di piombo sparate a Genova da carabinieri e questurini, di fronte alle botte,
alle torture, alle detenzioni illegali, di fronte al massacro della Diaz. Ci
è poi voluto l'11 settembre e la guerra in Afganistan per chiarire anche
ai più incalliti amanti della farsa che il gioco feroce dei potenti si
era fatto dannatamente reale. Di fronte alla guerra, alla militarizzazione
della società ed al contestuale tentativo di equiparare no-global e
terrorismo il movimento ha dato i primi segnali di incertezza, di
incapacità di esprimere in modo forte la propria opposizione. In
quell'occasione sarebbe stato necessario un salto di qualità, la
capacità di dar vita ad iniziative internazionali coordinate capaci di
smontare la prodigiosa macchina propagandistica messa in campo dei signori
della guerra, ma per tutti i mesi dell'offensiva americana in Afganistan il
movimento è apparso per lo più sulla difensiva.
In quanto al resto crediamo bastino i risibili risultati elettorali delle liste
"Disobbedienti" alle recenti amministrative per comprendere che la critica e la
volontà di trasformazione espresse dal movimento No-global sono
difficilmente riassorbili in ambiti istituzionali, sia pur travestiti da
esperienze municipaliste, e che il processo di reistituzionalizzazione del
movimento operato dell'Italian Social Forum incontra sempre più
resistenze.
I movimenti no-global hanno fatto riemergere il protagonismo di piazza. Una
piazza che ri-diviene luogo pubblico, spazio della critica e della rivolta,
luogo di una presenza diretta non delegata di persone che prendono in mano la
facoltà politica, fuori e contro i tragicomici teatrini della democrazia
parlamentare.
È la piazza fisica nella quale si esprime la ribellione e lo scontro
contro i poteri costituiti ed è la piazza virtuale nella quale si
colloquia con il mondo intero. È una piazza nella quale agiscono attori
diversi: da chi esprime una rivolta radicale ma nichilista come il Black Bloc,
a chi insegue forsennatamente la visibilità mediatica, e, perché
no, una poltrona (quest'anno nel consiglio comunale di Genova e tra qualche
tempo, chissà, in parlamento).
Questi movimenti esprimono oggi un disagio difficilmente riassorbibile da
ambiti istituzionali ma al cui interno si va purtroppo consolidando una
reistituzionalizzazione che passa attraverso il controllo di una leadership in
buona parte informale ma a maggior ragione sempre più potente ed
indiscussa ed indiscutibile. I vari "rappresentanti" o "portavoce" che da
Genova in poi si stanno arrogando il diritto di rappresentare quello che
pomposamente è stato ridefinito "Movimento dei movimenti" non paiono
altro che la riedizione, in salsa zapatista, dei vecchi intergruppi.
La parabola iniziata nel profondo della selva Lacandona nell'ormai lontano
1994, sviluppatasi poi negli incontri intercontinentali "per l'umanità e
contro il neoliberismo", e poi nelle varie giornate di lotta a Seattle, come a
Washington, Praga, Quebec, Ottawa, Nizza, Davos, Genova, potrebbe essersi
arenata a Porto Alegre, nella mega kermesse mediatica svoltasi tra il 31
gennaio ed il 4 febbraio nella città governata da uno dei candidati alle
presidenziali brasiliane.
A Porto Alegre il concentrarsi della critica sul capitale finanziario risulta
miope e riduttivo, in ultima analisi funzionale alla promozione di quella
campagna per la Tobin tax, che "azionisti" new-global di buon peso politico e
mediatico come Attac, pongono al centro delle loro esili strategie di
resistenza al capitalismo. La scarsa attenzione alla natura distruttrice (di
vite, salute, ambiente) del capitale nella sua classica veste industriale pare
proporre un'ingenua contrapposizione tra capitalismo produttivo (buono) e
speculazione finanziaria (cattiva).
La dimensione propriamente politica del dominio viene sapientemente elusa,
aggirata, cortocircuitata nel tentativo di assolvere la dimensione statuale,
fittiziamente dipinta come residuale, dalla responsabilità per il mondo
intollerabile in cui la stragrande maggioranza degli uomini, donne e bambini di
questo pianeta sono forzati a vivere. Anzi. L'orizzonte statuale,
frettolosamente assolto dalle proprie responsabilità, appare come linea
di demarcazione insuperabile di un agire politico che, oltrepassando e, di
fatto, scavalcando la dimensione orizzontale dei movimenti, riallinei verso la
democrazia parlamentare le tensioni e le intelligenze entrate in gioco da
protagoniste nel movimento no-global.
Ma, la stessa Porto Alegre, con le sue migliaia di partecipanti, con le
centinaia di forum paralleli più o meno ufficiali, con le numerose
contestazioni "interne" contro i vari esponenti governativi presenti, dimostra
che il movimento non è facilmente riconducibile ad una matrioska
new-global in cui il grande Forum mondiale contiene, a cipolla, tutta la
ricchezza e la varietà, che le varie piazze del mondo hanno espresso in
questi ultimi tre anni. Se poi si tiene conto che, negli stessi giorni di Porto
Alegre, i no-global erano in piazza a New York ed a Monaco e la loro presenza
è stata tutt'altro che "invisibile", appare chiaro che i giochi sono ben
lungi dall'essere fatti.
Inoltre in questa partita sempre più rilevante è il ruolo dei
media, sia quelli ufficiali, sia quelli "autogestiti", questi ultimi in
vorticosa crescita proprio grazie alla volontà di autorappresentazione e
comunicazione autonoma del movimento no-global.
In quella che Rifkin definisce "l'era dell'accesso" l'informazione svolge un
ruolo nevralgico non solo perché, classicamente, "orienta" l'opinione
pubblica ma perché diviene fattore decisivo non solo nella definizione
delle regole del gioco ma nell'accesso consentito o negato al gioco stesso.
L'importanza della narrazione dell'evento eccede, sovrasta al punto di
oltrepassarlo, l'evento stesso. La battaglia dell'informazione, condotta con
notevole successo a Seattle, diviene sempre più difficile nelle varie
piazze, dove, specie a Genova, la volontà criminalizzatrice del governo
e l'insistente ricerca dell'"evento" mediatico da parte di alcuni settori della
contestazione, creano una miscela esplosiva. L'ansia di rendersi visibili non
deve obnubilare le ragioni della protesta, la necessità del radicamento
sociale, la volontà di instaurare un dialogo diretto con gli oppressi e
gli sfruttati. La scelta di buona parte del movimento anarchico del nostro
paese, emersa in modo chiaro nel luglio scorso a Genova, di sfuggire lo
spettacolo mirando alla costruzione di un movimento al contempo radicale e
radicato ci pare non solo giusta ma capace, alla lunga, di dare i propri
frutti. In questi mesi vi sono stati significativi segnali di una crescita
dell'area dell'anarchismo sociale che sono il miglior indicatore dell'efficacia
della via intrapresa.
Oggi più che mai il saper fare deve coniugarsi ad un narrare che sia
azione, relazione, capacità di prefigurare nuovi mondi, fuori dal cono
di luce proiettato dai media.
Diviene peraltro sempre più importante essere presenti non solo nelle
varie piazze ma anche nello sforzo di elaborazione teorica e sperimentazione
pratica oggi indispensabile alla crescita delle sensibilità libertarie.
Occorre inoltre rafforzare la capacità di coordinamento a livello
internazionale degli anarchici, che sia vettore sia di reciproca conoscenza sia
di rafforzamento della possibilità di intervento.
La guerra infinita scatenata dopo l'11 settembre delimita un orizzonte che solo
l'autorganizzazione degli oppressi e degli sfruttati pare in grado di
scardinare, sia articolando un'opposizione su scala mondiale alle politiche
militariste e guerrafondaie che ri-assumendo in prima persona l'iniziativa
contro le politiche (neo)liberiste che a nord come a sud del mondo decretano
l'irreversibile impoverimento di vasti strati della popolazione. Lo Stato e il
Capitale sono irriformabili ed è oggi più che mai indispensabile
una saldatura tra le lotte su scala locale in ogni parte del mondo, pensando ed
agendo globalmente pur tenendo i piedi saldamente fissi nel proprio ambito.
L'invito ad una lotta globale non ha solo un significato spaziale ma anche e
soprattutto il senso di un movimento capace di investire con la propria
capacità critica e di intervento tutti gli aspetti della vita e,
soprattutto, quell'agire politico che in troppi vorrebbero ridotto a mero gioco
istituzionale. Solo così potremo evitare che il movimento no-global, nel
nostro paese, si riduca ad un breve "incidente" di percorso in un'estate troppo
assolata.
Ad un anno dalle giornate di Genova, mentre l'omicidio di Carlo Giuliani si
avvia ad essere, sul piano giudiziario, ridotto ad una tragica farsa, noi
sappiamo che fuori dalle aule dei tribunali e dalle pagine e gli schermi dei
media solo la volontà di esserci e contare dei senza potere e dei senza
patria potrà opporsi a chi, con la violenza e la menzogna, rende questo
mondo sempre più intollerabile.
Quelle che hanno ucciso Carlo Giuliani erano le pallottole di uno stato che non
ammette contestazioni, di un ordine che non accetta le critiche; i trecentomila
che hanno sfidato questo stato e quest'ordine sul lungomare di Genova ed i
tanti che hanno riempito le piazze nei mesi successivi sanno che questa
è una verità che nessun magistrato può cancellare.
Oggi il capitalismo è divenuto a tal punto pervasivo di divenire una
sorta di seconda natura per cui cade nell'oblio il suo carattere di costruzione
sociale storicamente data e questo diviene non il migliore, non il peggiore, ma
l'unico dei mondi possibili. Vi sono altri mondi, vi sono altre
possibilità.
Federazione Anarchica Torinese - FAI
(una prima versione di questo documento è stata presentata al convegno
FAI di Torino del 20 e 21 giugno 2002)
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