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Da "Umanità Nova" n. 26 del 21 luglio 2002
Lo Stato e il Capitalismo sono irriformabili
I temi e le proposte degli "Anarchici contro il G8"
Un anno fa eravamo a Genova. C'eravamo insieme a
diverse migliaia di compagni anarchici, italiani e stranieri, che
caratterizzavano con la loro presenza i cortei dei migranti del 19, del
sindacalismo di base del 20 e quello generale del 21 luglio. Una buona parte di
noi era associata nel percorso di "Anarchici contro il G8", che aveva alle
spalle mesi di riunioni, discussioni, elaborazione di documenti, sintetizzati
poi nell'appello indirizzato al movimento anarchico e libertario e a chiunque
si riconoscesse nelle posizioni espresse, in volantini, comunicati e manifesti.
Che cosa dicevamo un anno fa? Che cosa possiamo rivendicare oggi di quelle
posizioni e del percorso fatto? Molto, io credo.
Innanzi tutto il ruolo dello Stato che molti vedevano - e vedono - trasformato
in modo sostanziale, ammorbidito, indebolito e quindi passibile di una dolce
conquista. Scrivevamo che lo Stato, nella parziale ritirata dall'intervento
diretto nell'economia, conservava e rafforzava le funzioni di controllo
sociale, poliziesco e militare del territorio. La premeditazione e l'estrema
violenza con la quale gli apparati repressivi dello Stato si sono scatenati
contro i manifestanti nelle giornate di luglio, di per sé parla chiaro:
prove di guerra contro la popolazione urbana di una grande città. E il
controllo poliziesco, attuato ad esempio con le rinnovate misure contro gli
immigrati, fa il pari con quello militare, all'interno e all'esterno del paese,
con la ristrutturazione delle forze armate e il protagonismo che queste
rivendicano nelle varie missioni di "polizia internazionale". Sul piano stesso
dell'economia il ruolo dello Stato è tutt'altro che ridimensionato.
Infatti, se da un lato la gestione diretta di alcuni settori della produzione e
dei servizi viene dismessa attraverso le privatizzazioni, dall'altro lo Stato e
gli organismi istituzionali preposti conservano ben salde le funzioni di
controllo attraverso la costituzione di società miste, la regolazione
dei finanziamenti e comunque conservano la possibilità di intervenire
direttamente (ad esempio il principio di sussidiarietà per quanto
riguarda il settore pubblico) qualora il "privato" non risponda alle
aspettative. Dove è la crisi dello Stato? Nel federalismo da operetta
bossiano, teso solo ad ottenere sgravi fiscali per i padroncini padani? La
crisi di sovranità degli Stati-nazione (come pomposamente la definisce
il professor Negri), se c'è, opera ad altri livelli e non intacca
minimamente il ruolo e le attribuzioni degli Stati capitalisticamente avanzati.
Caso mai siamo di fronte ad una crisi di sovranità degli Stati
capitalisticamente più deboli i quali, nei vari consessi e consulte
internazionali, sono esclusi (G8 appunto) o hanno sempre meno rilevanza in
relazione al loro diminuito "peso" nei processi di transnazionalizzazione. Ma
attenzione, anche qui si tratta di sovranità "esterna" e non di quella
"interna" che borghesie nazionali e i loro apparati di controllo di classe
continuano ad esercitare ferocemente nei confronti degli sfruttati di ogni
paese.
Scrivevamo, poi, del ruolo egemone del complesso
militare-industriale-finanziario degli USA nei confronti delle altre aree
imperialiste rivali (Europa-Germania, Oriente-Giappone), capaci di competere
sul piano economico, ma non su quello del controllo militare dell'assetto
geopolitico del globo. La guerra in Afganistan (così come era avvenuto
per la guerra del Golfo e quella in Kosovo) mostra una capacità
fortissima da parte degli americani di esercitare funzioni di "polizia
internazionale" secondo i propri interessi strategici, economici e finanziari,
imponendo ai, più o meno, recalcitranti alleati i tempi, i modi e gli
impegni degli interventi militari. Anche questa è una manifestazione,
sia pure in forma "dislocata", dello scontro interimperialistico in atto tra i
tre poli capitalisticamente avanzati.
Scrivevamo ancora, un anno fa, dell'irriformabilità del capitalismo che
si dimostra sempre più un sistema economico-sociale incapace di
autoregolarsi o anche solo di automoderarsi (persino l'ultra-liberista Bush
manifesta qualche segno di preoccupazione per gli eccessi) se non per brevi
fasi e su questioni specifiche. È un meccanismo onnivoro che, sempre di
più, divora ambiente, risorse e vite umane. Ma se così stanno le
cose, se il capitalismo è strutturalmente incapace di autoriformarsi, da
dove può arrivare una spinta che - obiettivo men che minimo e non certo
il nostro - lo obblighi a fare i conti con le proprie storture? Oppure - e
così va meglio - quale è il soggetto che può far leva
nelle sue contraddizioni (quelle vecchie e quelle nuove) per scardinarne il
potere?
La risposta alla prima domanda è, astrattamente, semplice: un movimento
di classe forte e radicato, a modello della storica socialdemocrazia tedesca o,
quantomeno, del movimento operaio italiano degli anni '70. Obiettivi
discutibili - le riforme - ma comprensibili e largamente condivisi nella
working class. C'è oggi, anche nel nostro limitato panorama italiano,
una progettualità che vada in questa direzione? No, non c'è. Non
c'è nella sinistra istituzionale, non c'è nel popolo dei
"girotondi", non c'è in R.C. avvitata tra movimentismo generico e
nostalgie welfaristiche, non c'è nei sindacati confederali, derubricati
a controparti della concertazione. E soprattutto non c'è in campo
"antagonista" - almeno nei suoi settori più consistenti - dove chi, fino
a ieri - pur agitando il discutibile vessillo del reddito di cittadinanza
alimentato dalla famigerata Tobin Tax [*] -
poneva quantomeno attenzione alla condizione dei settori deboli della working
class (precari, disoccupati, lavoratori in nero), oggi ha dissolto il suo
progetto neo-riformista nelle negriane nebbie "imperiali" delle moltitudini
disobbedienti (?), prive di ogni connotazione. Anche alla seconda domanda
c'è una risposta altrettanto teoricamente semplice, ma su questo
torneremo un po' più avanti.
Scrivevamo, infine, un anno fa a proposito del "popolo di Seattle" e dunque del
cosiddetto "movimento no-global": che questi era la manifestazione più
lampante dell'aggregazione provvisoria di interessi di classe molto diversi:
metalmeccanici americani e agricoltori francesi, ambientalisti ed esponenti di
movimenti sindacali europei e sudamericani, studenti e minoranze
rivoluzionarie. A Genova (o meglio nel percorso che ha portato da Seattle a
Genova) è rimasta la provvisorietà dell'aggregazione e sono
spariti gli interessi di classe (anche nella loro forma più blanda o
spuria). Prova ne sia il disinteresse totale con cui i politicanti del Social
Forum hanno considerato i temi del lavoro (precario, sottopagato, flessibile),
portati avanti dai soli sindacati di base. Prova postuma ne è il recente
libro bianco del Social Forum dove (su oltre un centinaio di pagine) la
manifestazione dei lavoratori di Sampierdarena del 20 luglio (indetta da CUB e
SLAI-Cobas e fortemente appoggiata dal nostro movimento) è liquidata in
un occhiello di una ventina di righe. La verità è che il "popolo
di Genova" ha espresso un movimento, oltreché variegato, precario e
provvisorio, ideologico e sostanzialmente disancorato - nella sua grande
maggioranza - dalle istanze reali di classe. Non sarebbe stato tuttavia un dato
completamente negativo - 300.000 persone determinate a manifestare contro i
potenti della Terra, anche se prevalentemente per motivi ideali, costituiscono
un movimento importante, debole, ma foriero di sviluppi - se gli Agnoletto e
soci non avessero contribuito a farne strame con i loro maneggi, le loro
tresche con le istituzioni, la loro incoscienza irresponsabile che ha mandato a
farsi massacrare dalla polizia migliaia di persone, il loro opportunismo di
fondo, che però, visti i risultati disastrosi di molte liste no-global
alle amministrative è stato ripagato con la giusta moneta.
Ma lasciamo questi personaggi non proprio nitidi alle loro sorti: il meccanismo
dei Social Forum è allo sbando. È probabile che il 20 luglio 2002
rappresenti l'ultima tappa di massa del movimento no-global italiano. Chi ha
dato, ha dato, chi ha avuto, ha avuto. Cerchiamo ora di rispondere, almeno in
linea di principio, alla domanda che ci ponevamo prima: quale è il
soggetto che può far leva nelle contraddizioni del capitalismo
"globalizzato" per scardinarne il potere?
Scrivevamo un anno fa che non potevamo che ribadire la necessità di
lotte radicali e senza illusorie mediazioni al sistema capitalistico, in tutte
le sue forme, manifestazioni e trasformazioni. La transnazionalizzazione del
capitale e dello sfruttamento crea - come sempre - anche le condizioni per una
sua caduta: la nascita di un proletariato sovranazionale che parla lo stesso
linguaggio di oppressione, di condizioni di sfruttamento e di voglia di
riscatto, l'humus per un nuovo internazionalismo rivoluzionario.
Non possiamo, oggi, che ribadirlo nuovamente e con più forza.
Walker
[*] La proposta della Tobin Tax era (era anche perchÈ recentemente il professor Tobin ne ha precisato i profondi limiti) una teorica imposizione sulle transazioni internazionali dei capitali, tesa a scoraggiare il movimento dei capitali speculativi. Al di lý di tutto, Ë veramente triste che ci si riduca a fondare una progettualitý di sinistra sui cascami delle teorie di un economista borghese.
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