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Da "Umanità Nova" n. 27 del 1 settembre 2002
Mercati: una depressione autoalimentata
I barbari della finanza
Dall'inizio di aprile alla fine di luglio abbiamo assistito ad una costante
discesa dei mercati azionari, che ha trovato qualche attimo di tregua soltanto
dopo ferragosto. Dopo il picco del marzo 2000, le borse mondiali hanno subito
una forte correzione e siamo arrivati ormai a 29 mesi di discesa quasi
continua. I settori che avevano patito di più nella prima fase del ciclo
negativo erano quelli della famosa triade TMT (telecomunicazioni, media,
tecnologici), mentre l'ultima fase ha visto un crollo vistoso ed
indiscriminato, che non ha risparmiato neanche i settori tradizionalmente
considerati più difensivi, come banche, assicurazioni, farmaceutici e
persino energetici. La ostentata indifferenza con cui politici ed economisti
avevano commentato i crolli delle borse nella prima fase comincia a lasciare il
posto ad una malcelata preoccupazione: la caduta della ricchezza finanziaria
tocca ormai pesantemente l'economia reale, aprendo la strada ad una recessione
molto più seria a lunga di quanto fosse possibile prevedere. Le migliaia
di miliardi di dollari (e di euro) bruciati dalle borse negli ultimi due anni
rischiano di bloccare per un periodo imprecisato la ripresa degli investimenti
aziendali e nello stesso tempo costringono il mitico e superindebitato
consumatore americano ad assumere comportamenti più previdenti,
innescando un calo dei consumi.
Contemporaneamente si dissolve l'illusione che il crollo delle borse fosse in
qualche modo ascrivibile unicamente agli effetti dell'11 settembre, cioè
ad uno shock esogeno imprevedibile ed eccezionale, superato il quale la vita
ritorna lentamente come prima. Lo spettro di una "double dip", cioè di
una doppia depressione, e di una curva a W del ciclo economico prende sempre
più consistenza. E nessuno osa più fare previsioni su
profondità e durata di questa nuova caduta del ciclo.
Proviamo ad esaminare punto per punto le caratteristiche della fase attuale,
partendo ovviamente dagli Stati Uniti per il ruolo centrale di guida che
continua ad esercitare il paese egemone nell'economia e nella finanza
mondiale.
1) Gli strumenti adottati dalle autorità monetarie nel corso del 2001
non hanno prodotto effetti durevoli: il ritocco dei tassi d'interesse per 11
volte, fino ai minimi storici, ha aiutato le aziende ad incentivare le vendite
con credito a tassi zero, ma c'è un limite fisiologico all'espansione
dei consumi, perché prima o poi le rate vanno pagate. Gli investimenti
non sono ripartiti e siamo arrivati ormai a sette trimestri consecutivi di
investimenti in calo. Finché non c'è una ripresa degli
investimenti che vada oltre la semplice ricostituzione delle scorte non si
potrà dire di essere fuori dalla crisi. La manovra di deficit spending
del governo non ha conquistato il consenso politico necessario e comunque ha
finanziato soltanto l'espansione della spesa militare, per soddisfare le lobby
degli amici dell'amministrazione.
2) La credibilità delle istituzioni finanziarie è stata scossa da
ripetuti casi di falsificazione dei bilanci, che hanno mandato all'aria, oltre
alla Enron, anche Worldcom e una decina di aziende "minori", i cui dirigenti
hanno sfruttato al massimo la posizione che ricoprivano per trarre favolosi
vantaggi personali attraverso la vendita delle stock option ed il saccheggio
delle risorse finanziarie che avevano la possibilità di usare. Tutto il
sistema dei controlli ha dimostrato una palese inadeguatezza, se non una
complicità diffusa e sistemica. L'effetto pratico di questo diffuso
comportamento criminale è stato quello di attirare sulle borse americane
una quantità crescente ed esponenziale di risorse finanziarie, drenate a
tutto il resto del mondo, con la partecipazione attiva e "allineata" di
manager, consulenti, analisti, revisori dei conti, autorità federali di
controllo. Tutti sapevano che tutto era falso, ma finché la borsa
cresceva tutti ne potevano trarre profitto, autoalimentando l'illusione di una
crescita continua.
3) A buoi ormai scappati, il governo ha cercato di chiudere le stalle,
emettendo comunicati durissimi verso chi tradisce la fiducia dei mercati,
adottando sanzioni severissime verso i dirigenti infedeli (in galera, in
galera!) e chiedendo il giuramento sui bilanci a quasi 1000 società
quotate, con azione di responsabilità sul patrimonio personale dei
dirigenti che dichiarano il falso. All'alba di ferragosto, soltanto 16
società si erano defilate dall'obbligo di presentare la dichiarazione
giurata: è da questo momento che le borse hanno ricominciato a risalire
la china.
4) La discesa dei mercati non coinvolge però soltanto le azioni delle
aziende americane: i dubbi sulla veridicità dei bilanci hanno cominciato
ad aprire delle falle nella credibilità dei dati comunicati ai mercati
da tutte le multinazionali che negli anni passati hanno sostenuto una rapida
crescita con il ricorso all'indebitamento. Di conseguenza sono crollate le loro
obbligazioni. Il caso di Vivendi-Universal, che riguarda un'azienda
franco-americana, ma anche quello di Ericsson, Alcatel, France Telecom,
Deutsche Telecom dimostra che tutte le società hanno una crescente
difficoltà a trovare credito e chi possiede i loro titoli di debito
cerca di disfarsene, in cambio dei più sicuri titoli di stato. Aumenta
quindi il costo del credito, proprio in una fase in cui gli ingenti
investimenti del passato (per esempio per l'Umts, i telefonini di nuova
generazione) non possono tradursi in aumento dei ricavi per la contrazione del
ciclo economico. Le aziende hanno debiti altissimi a fronte di investimenti che
produrranno utili solo fra 4/5 anni.
5) Un ulteriore elemento di instabilità è la precarietà
dei grandi paesi debitori internazionali: dopo il crollo dell'Argentina
è entrato in fibrillazione il Brasile, dove si vota a ottobre. Anche qui
l'amministrazione americana ha pensato bene di dare il suo contributo,
dichiarando a marzo che non avrebbe più sostenuto il paese se avesse
vinto la coalizione del candidato sgradito. Soltanto a inizio agosto un
provvidenziale prestito del FMI, che verrà erogato per intero, si badi
bene, solo a fine anno, ad esito elettorale noto, ha risollevato
temporaneamente il Brasile dal rischio default.
Il sistema finanziario continua quindi a muoversi nel marasma della
volatilità, con una spasmodica attesa di dati su produzione e consumi
che in qualche modo forniscano un orientamento alla direzione da prendere, con
sommo gaudio degli speculatori professionisti che sfruttano ogni voce (specie
se falsa) per conseguire utili stratosferici con il sistema del mordi e fuggi.
Il disorientamento che la grande massa dei risparmiatori trae da questo
logorante tran-tran produce una generale disaffezione verso i mercati azionari,
dove hanno impegnato e perso enormi quantità di risparmio. Si assiste
quindi alla più irrazionale fuga dall'investimento azionario proprio
quando sarebbe il caso di fare il contrario, come nella più classica
delle tradizioni. Il ciclo delle vendite dirette e dei riscatti dai fondi
autoalimenta il meccanismo di discesa dei mercati, con effetti acceleratori. Le
grandi strutture finanziarie che dovrebbero calmierare i mercati (Banche
centrali, Commissioni di controllo sulle Borse, fondi pensioni, i fondi comuni
delle banche) spesso agiscono da detonatori, anziché agire in
controtendenza. Tutte le nuove famiglie di prodotti del risparmio gestito
"assecondano" i movimenti del mercato, anziché frenarli. In questo modo
è evidente che la volatilità, in un senso e nell'altro, tende a
crescere, per diventare un elemento di costante destabilizzazione dei cicli
finanziari del futuro.
Si tratta dunque di rileggere a ritroso, in modo diverso, la "inarrestabile"
crescita economica clintoniana e verificare fino in fondo la capacità di
mantenimento dell'egemonia economica americana sul lungo periodo. La minaccia
saudita di ritirare i capitali arabi dalle piazze finanziarie americane (in
conseguenza delle minacce di sequestro per gli attentati alle torri gemelle) fa
emergere la fragilità di una crescita basata su capitali esteri, nel
contesto di un sistema a conflittualità permanente non solo verso
culture e stati non totalmente allineati, ma anche verso alleati riottosi a
seguire le più insensate avventure come la minacciata nuova guerra
all'Iraq. In realtà la preoccupazione principale di Bush è
rappresentata dalle elezioni di novembre e lo spettro di finire impallinato
come il padre per colpa dei disastri economici prende via via consistenza.
L'egemonia politico-militare degli Usa è stata accompagnata negli anni
'90 da una forte ripresa di egemonia economico-finanziaria, ma questa
amministrazione sta dimostrando dei limiti palesi nel governo del mondo. La
mancanza di risposte efficaci sul fronte delle emergenze interne (dalla
disoccupazione crescente alla volatilizzazione dei risparmi previdenziali)
può portare ad una crisi molto seria del modello di consenso politico e
sociale che si è imposto nella fase del trionfo capitalistico.
Renato Strumia
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