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Da "Umanità Nova" n. 27 del 1 settembre 2002

Dell'americanizzazione dell'Europa
Questa storia parla di noi

Uno degli aspetti più rimarchevoli della possibile prossima guerra statunitense è che il governo degli USA sta trattando con i vari alleati e satelliti le modalità dell'offensiva con l'attitudine di un feudatario che deve punire un servo riottoso e che esercita un diritto talmente evidente da non richiedere altra giustificazione formale che la "dimostrazione" del fatto che il servo non si è comportato secondo le regole definite dal suo signore.

È, quindi, comprensibile che l'arroganza statunitense susciti tensioni in ampi settori dell'opinione pubblica europea e simpatie nemmeno troppo nascoste per gli avversari, reali o virtuali, degli USA.

L'unico sbocco politico possibile, in mancanza di una prospettiva e di una posizione rivoluzionaria, di una simile attitudine è la rivendicazione di uno stato unitario in Europa a meno di non immaginare che gli staterelli marginali che gli USA, volta volta, mettono in castigo possano costituire una forza adeguata per sconfiggere gli yankees.

Ritengo, di conseguenza, che sarebbe bene liberarsi dall'antiamericanismo subalterno e propongo alcune considerazioni sull'argomento.

Gli USA siamo noi. Decenni di "mondo libero" non sono passati invano. Non possiamo, quindi, non dirci statunitensi. Lo siamo nel consumo musicale ed in quello televisivo, lo siamo nello stile di vita e nei valori di riferimento. Può piacerci o meno ma è un fatto.

Gli stessi movimenti antisistemici che, decenni addietro, pretendevano di rifarsi alla rivoluzione culturale proletaria cinese o alla guerriglia latino americana hanno accelerato l'americanizzazione dell'Europa: fine della famiglia tradizionale, individualismo edonistico, atomizzazione degli individui. I Beatles contro Claudio Villa con la scontata vittoria dei primi.

Diverse sono le considerazioni da fare per le lotte radicali dei lavoratori europei, lotte che si sono sviluppate su questioni certamente parziali ma, almeno, senza illusioni sui caratteri presunti superiori del socialismo realmente esistente.

Il blocco orientale, l'impero del male, l'avversario per antonomasia del mondo libero è morto e lo ha fatto dolcemente. La nomenclatura comunista ha suicidato lo stesso sistema che l'aveva prodotta e si è, rapidamente trasformata da classe di amministratori del capitalismo di stato in una rete di racket politico/mafiosi, classica fase di gestazione della borghesia. Il momento aurorale del capitalismo si ripete simile a se stesso: dal crimine alla legge, dal racket allo stato, dall'estorsione all'accumulazione.

D'altro canto il blocco orientale socialista lo è stato in senso assolutamente particolare. Si è, infatti, sviluppato, piuttosto, come una forma di nazionalismo economico, come un tentativo, alla fine perdente, di porre un freno al dominio mercantile mediante un rinserramento nell'immenso territorio eurasiatico del vecchio impero zarista e, poi, nell'impero cinese mediante una rivoluzione a direzione borghese e a base contadina. Una paradossale, rivincita del populismo ottocentesco sul marxismo novecentesco estenuatosi nelle socialdemocrazie europee.

L'industrialismo sovietico, caricatura elefantiaca dell'azienda fordista, è stato sconfitto sul suo stesso terreno, quello della razionalità economica. La cieca e potente vitalità del mercato contro la cieca e parassitaria razionalità del piano. Comunque, parce sepulcro.

Eppure un crimine reale il bolscevismo lo ha commesso e dobbiamo rendergliene atto, ha espropriato le ricchezze delle classi dirigenti dei paesi ove ha trionfato. Dal nostro punto di vista un padrone unico in luogo dei mille padroni che affollano l'economia di mercato. Dal punto di vista delle borghesie dell'occidente una colpa gravissima, in fondo, per un borghese, non vi è sostanziale differenza fra capitalismo di stato e comunismo libertario.

D'altro canto i borghesi sanno che i criminali di ieri sono gli imprenditori di oggi e hanno fatto i loro affari con il blocco sovietico fornendo prova del loro consueto realismo.

La deviazione dal modello dominante, comunque, è stata corretta, oggi il capitale viaggia libero da New York a Mosca e da Berlino a Pechino. Anche dove sventolano ancora le bandiere rosse nessuno crede più alle vecchie panzane bolsceviche, in Cina si parla di socialismo di mercato e a Cuba i dollari e gli euro sono ricercati in ogni modo.

Al modello statunitense di capitalismo sembrerebbe opporsi quello renano basato su di un diverso compromesso sociale ma non su di una diversa organizzazione della produzione e del consumo.

Negli USA centralità della funzione militare ed imperiale e utilizzo della forza per imporre il dominio della propria moneta, un vero e proprio potere usuraio, in Europa ricerca di mediazioni con il movimento operaio e accettazione di un ruolo subalterno su base regionale.

Non manca chi sogna una grande potenza europea capace di spezzare il dominio statunitense e le stesse guerre del grande fratello sembrano spesso volte a disciplinare i satelliti europei oltre che a ribadire il dominio americano sulle aree, volta volta, coinvolte e, in ultima istanza, sul pianeta.

Al dominio USA si può opporre il sogno di una Grande Europa ad egemonia tedesca e basata sull'alleanza con la Russia. Oggi questa prospettiva è priva di effettualità ma non può essere esclusa. In ogni caso, non avrebbe nulla a che vedere con l'espropriazione degli espropriatori.

Vi sono, nella storia americana, vicende che alludevano ad un altro possibile destino? La risposta è scontata, gli IWW ed i martiri di Chicago, la rivolta contro la guerra del Vietnam e le insurrezioni dei ghetti neri. Nel cuore dell'impero le rivolte dei sottomessi hanno toccato vette comparabili ai momenti più alti del conflitto sociale nella vecchia Europa. La rivoluzione sociale è stata piegata negli USA come in Europa seppure in forme diverse.

Negli USA si è sviluppata senza impacci feudali e clericali quanto di più vivo, dal punto di vista del dominio, ha prodotto l'Europa. Il "dominio americano", di conseguenza, sotto il profilo sociale non è altro che il dominio della merce che appare per la prima volta sulla scena nelle città europee del XIII secolo. Gli USA riconsegnano all'Europa, in forme nuove e, a volte conturbanti, l'Europa stessa.

Se noi siamo gli USA ne dobbiamo trarre le conseguenze. Il modello sociale ed economico che ci forma e che combattiamo ha come primo carattere la plasticità, la capacità di proporsi come seconda natura e di incorporare le stesse mille dissidenze che suscita.

Solo una rivolta che sappia misurarsi con questi dati ha la possibilità spezzare le false opposizioni fra modelli del dominio e l'azione stessa ci chiede di liberarci di schemi mentali che non possono che impacciarla e condurla su strade senza sbocco.

I caratteri stessi di alcune mobilitazioni degli ultimi anni rendono conto di questo dato ma molto è da fare: solo una rete internazionale delle opposizioni sociali e delle forze di segno libertario può porre in relazione le lotte che si sviluppano nel ventre della bestia e quelle che agitano le immense periferie del pianeta.

Si tratta di connettere iniziative locali e particolari alla denuncia dei caratteri stessi dell'attuale ordine del mondo e si tratta di farlo proprio sul terreno che il dominio ci impone.

Cosimo Scarinzi



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