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Da "Umanità Nova" n. 28 dell'8 settembre 2002

Incerti equilibri
Svolazzi estivi sui patti europei

La fine dell'estate e la ripresa dello scontro politico pre-autunnale hanno portato ad una forte vivacizzazione del dibattito sullo stato dell'economia. La sinistra chiede al centro-destra cifre precise sui conti pubblici, il governo traccheggia e studia il da farsi. Su tutti incombe la spada di Damocle del patto di stabilità che prevede una costante supervisione comunitaria sui pasticci che combinano i vari governi per salvare la pellaccia in questi tempi grami. Tutti sono ansiosi di chiedere (e ottenere) una revisione del patto, ma solo pochi osano dirlo esplicitamente. La crescita mondiale è fortemente imballata e le stime sono continuamente aggiornate al ribasso: è evidente ormai che anche l'Europa non riuscirà ad andare oltre l'1% nella crescita del Pil relativo al 2002. Tuttavia ci sono forti resistenze ad ammettere la crisi del modello di integrazione comunitaria che le classi dirigenti europee avevano scelto a Maastricht ormai oltre 10 anni fa, nonché di tutte le decisioni che successivamente hanno cercato di attuare per step successivi il percorso previsto. Il patto di stabilità e di crescita, che nelle intenzioni iniziali doveva garantire soprattutto la Germania e il marco di fronte ai costumi spendaccioni di Italia, Grecia, Belgio, ecc., è diventato una camicia di forza che imbriglia qualunque decisione di politica economica teoricamente a disposizione dei vari governi. È dunque fortissima nelle classi politiche dei paesi membri la tentazione di cambiare il patto, ammorbidendo le rigide regole tese a contenere e sanzionare gli scostamenti dal sentiero della "stabilità". In Italia questa posizione è trasversale sia alla maggioranza di governo, che alla sedicente opposizione: Buttiglione, Martino, Bossi e Gasparri, uniti nella lotta, hanno chiesto la revisione del patto; altri ministri, quelli che contano, ci sperano ma non osano dirlo; gli alfieri della sinistra sono come sempre tentati di fare i campioni del rigore, proponendosi come i custodi ortodossi del vero credo europeista, a fronte del lassismo ex-democristiano del governo in carica.

Questa buffa inversione di ruoli lascia indifferenti, per ora, i detentori delle leve del potere euro-comunitario: la Commissione e la Banca Centrale Europea. I Commissari hanno preso nota, educatamente, delle richieste dei vari ministri in carica, ma hanno rinviato qualunque decisione in merito. La Bce se ne infischia delle chiacchiere politiche, ben consapevole, come sostiene il rettore dell'Università di Siena, che "essendo l'euro una moneta inventata, la sua sorte dipende soprattutto dalla credibilità degli inventori", i quali non farebbero una bella figura se dopo tre anni di moneta unica cambiassero le regole di comportamento, prendendo atto dell'ingestibilità della situazione.

Il fatto è che il patto di stabilità prevede delle regole e infrangerle è costoso. Lo stato membro che si astenga dal correggere una situazione di deficit eccessivo può essere multato. Il Consiglio d'Europa può imporre un deposito infruttifero pari alla somma di due componenti: una parte fissa pari allo 0,2% del Pil e una parte variabile pari ad un decimo dell'eccesso di disavanzo dal 3%, che è il valore di riferimento. Se dopo due anni il deficit non è stato corretto, la somma viene incamerata dalle casse comunitarie.

La situazione che si è venuta a creare è però del tutto imprevista: la crescita si è fermata, l'economia è in crisi, la sinistra ha perso il potere quasi ovunque in Europa, il patto sociale gestito da sindacati e partiti "laburisti" è saltato, le riforme strutturali incontrano una crescente opposizione sociale. I promessi tagli alle tasse non hanno più una base di finanziamento nella crescita del gettito fiscale legato all'espansione economica, quindi non resta che tagliare la spesa sociale e abbellire i bilanci pubblici con le cartolarizzazioni. Modificare il patto non si può? Allora "reinterpretiamolo"! La proposta che ha le più ampie "chance" passa attraverso l'estrapolazione dal disavanzo pubblico delle spese per investimenti infrastrutturali, in altre parole i grandi lavori per ridisegnare territorio e vie di comunicazioni. Anche nel Centro-Europa, dopotutto, bisogna ricostruire, dopo la disastrosa alluvione e dunque ben venga un bel patto politico europeo, allargato alla nuova maggioranza francese di centro-destra, per piegare i banchieri centrali alle esigenze del business (dopotutto un po' d'inflazione non ha mai fatto male!).

Bisogna però aspettare che si creino le condizioni favorevoli per discutere di tutto ciò: in particolare le elezioni tedesche del 22 settembre possono aprire la strada ad una Europa più omogenea politicamente e coesa nelle decisioni da prendere, facendo partire finalmente la batteria di provvedimenti capaci di snellire il mercato del lavoro, tagliare le pensioni in modo duraturo e fare decollare davvero sanità e previdenza private.

Un bel governo conservatore, con un adeguato numero di anni davanti prima di altri confronti elettorali, solidamente in sella in Germania, come già in Italia, Francia e Spagna, può aiutare a "sfondare" verso un modello di Europa non più blindato nei parametri monetari, ma orientato ad una crescita selvaggia e sregolata sul modello americano.

Non mancheranno di certo, nei prossimi anni, terreno di ricerca e terreno di scontro per il conflitto sociale.

Renato Strumia



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