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Da "Umanità Nova" n. 28 dell'8 settembre 2002

Il triangolo di Washington
Iran, Iraq, Arabia Saudita

Nel corso di quest'estate la "Guerra duratura" del Presidente americano Bush ha fatto passi da gigante, avvicinando il mondo alla realizzazione della seconda avventura imperiale del rampollo della famiglia di petrolieri texani, le cui origini derivano in linea diretta dai Padri Pellegrini del Mayflower (alla faccia di chi sostiene che negli Stati Uniti non esiste l'aristocrazia). La decisione dell'intervento in Iraq è stata definitivamente presa all'interno dell'élite che governa le sorti della superpotenza globale; le divisioni che tuttora sussistono riguardano esclusivamente i tempi di realizzazione della guerra. Una parte consistente di quest'élite, infatti, ritiene prematuro l'attacco in Iraq stante l'evidente difficoltà israeliana di chiudere la partita in Palestina e l'assenza (per ora) di Quisling locali capaci di accettare lo scambio proposto dagli americani tra la costituzione di un Bantustan palestinese con seggio all'ONU, bandiera e inno nazionale ma senza sovranità, con la fine della guerriglia anti-israeliana. È del tutto ovvio che un attento osservatore della realtà mediorientale non possa che ritenere che aggiungere nuovi motivi di frustrazione e disperazione per la popolazione dei paesi arabi vassalli come Egitto e Giordania non potrebbe che procurare rogne agli USA. Il fatto che tra gli attentatori degll'11 Settembre non figurino cittadini di paesi nemici come la Siria e l'Iraq, ma di paesi vassalli come l'Egitto o alleati in fase di allontanamento come l'Arabia Saudita deve aver fatto suonare qualche campanello d'allarme nella testa di personaggi come Kissinger, saggiamente convinti che l'ordine imperiale americano può tenersi in piedi solamente procurandosi vassalli sicuri e stabili e alleati consenzienti nelle varie aree del pianeta teatro degli interessi americani. Inoltre, l'appartenenza sociale degli attentatori (tra loro nessun desperado, tutti provenienti dal ceto medio), non può che suggerire agli americani che, in questi paesi, si stia saldando un'alleanza sociale tra i diseredati delle metropoli e un ceto medio a lungo illuso dei possibili benefici della modernizzazione e oggi frustrato nelle sue ambizioni dall'evidente condizione di sudditanza dei propri paesi nei confronti della potenza americana. Un radicalismo di destra di tipo islamico si sta imponendo in tutta l'area come risposta a una modernizzazione dipendente e subordinata all'Occidente con esiti potenzialmente devastanti non solo per le popolazioni locali ma anche per l'ordinato proseguimento della valorizzazione capitalistica. In questo processo, per di più, si mescolano due istanze tra loro differenti se non totalmente divergenti: la lotta di liberazione nazionale condotta dai palestinesi nei confronti del colonialismo sionista o da vasti strati del ceto medio intellettuale di paesi come l'Egitto contro l'imperialismo USA, e il tentativo di una parte consistente dell'élite araba di affermarsi come potenza indipendente con uno sviluppo economico non subordinato alle strategie di Washington. È del tutto evidente che azioni come quella delle Twin Towers e organizzazioni come Al Qaeda sono strumenti della seconda istanza, quella che rimanda in modo esplicito allo scontro tra potenze (sia pure giocato con altri mezzi rispetto alla guerra aperta), ma l'incapacità americana (e, se è per questo anche europea) di offrire soluzioni e sbocchi all'istanza anticolonialista non può che produrre con il tempo la saldatura tra queste due aspirazioni, tanto più che la sconfitta radicale e definitiva del progetto indipendentista laico del "socialismo arabo" ha lasciato la strada aperta all'imporsi del fondamentalismo islamico come collante generale del mondo arabo. D'altra parte "chi la fa, l'aspetti...", furono proprio gli USA a foraggiare lo sviluppo del "nuovo nemico occidentale" quando quest'ultimo era utile alla sconfitta delle sinistre arabe e ai loro progetti di liberazione nazionale. Come spesso è accaduto nella storia, la fine di un nemico comune porta con sé la rovina delle alleanze stipulate contro di lui. Così è avvenuto nello scenario mediorientale dove d'altronde Washington avrebbe voluto mantenere in piedi la sua alleanza con il fondamentalismo, non rinunciando però né all'appoggio a Israele, né alla subordinazione dei paesi arabi. `Cca nisciuno è fesso, e non si vede perché l'élite fondamentalista, foraggiata, armata e resa più forte dalla vittoria contro l'URSS in Afganistan e dal radicarsi della guerriglia islamica contro paesi laici come l'Algeria e la Libia, non avrebbe dovuto cercare d'imporsi come padrona in casa propria.

Il rischio di un'esplosione generale del sistema Medio Oriente è perfettamente chiaro agli "oppositori" americani alla seconda guerra d'Iraq, come è ancora più chiaro che l'implosione del paese arabo a seguito della deposizione di Saddam Hussein porterebbe ancora più problemi agli americani. Questo passo merita un'ulteriore spiegazione: se è vero, come è vero che il raiss di Baghdad è sostanzialmente un arrogante e megalomane capotribù che mantiene il controllo del paese tramite l'esercito e il partito Baath i cui ruoli dirigenti sono in mano a una cosca di tipo familiar-tribale, è altrettanto vero che questo sistema garantisce alla minoranza sunnita (30% della popolazione) di mantenere subordinata la maggioranza sciita filoiraniana (55% della popolazione) e di confinare la consistente minoranza curda (12% della popolazione) sulle montagne del nord dell'Iraq dove tira le fila del fiorente contrabbando in direzione turca e iraniana, senza però avere accesso ai ricchi giacimenti petroliferi di Mossul a poche centinaia di chilometri di distanza dal pseudo stato curdo. Un'eventuale implosione dell'Iraq, non più tenuto insieme dalla tirannia del clan Hussein, porterebbe come probabile conseguenza il costituirsi di più centri di potere in mano differente, senza nessuna istanza centrale a controllarli e a tenerli sotto la propria ruvida scarpaccia militare. Senza contare il rischio costituito dalla possibilità della formazione di un vero e proprio Kurdistan indipendente nel Nord con conseguenze immediatamente comprensibili per la Turchia, fedele vassallo americano, che vedrebbe vanificati i propri sforzi per negare anche solo l'esistenza di una popolazione di lingua curda nell'area (se i curdi del nord dell'Iraq possono farsi il proprio paese, perché quelli della Turchia orientale non possono nemmeno parlare la propria lingua?), oppure quello costituito dalla formazione di uno stato sciita orientato religiosamente e ideologicamente in direzione di Teheran nel sud dell'Iraq che verrebbe a rompere l'isolamento dell'Iran pervicacemente cercato dall'amministrazione Bush. Insomma, a Washington qualcuno si rende conto della possibilità concreta che questa volta siano gli Stati Uniti a lavorare per il Re di Prussia, con un'avventata azione di guerra che non produrrebbe l'ordine sperato nel Medio Oriente, ma piuttosto la necessità di nuovi interventi bellici con una scala sempre maggiore e con maggiori probabilità di un impegno "duraturo" sul terreno con conseguente scarsità di risorse energetiche, innalzamento del prezzo del petrolio e perdita di migliaia di vite di "bravi ragazzi americani". Senza contare che, come il Vietnam ha dimostrato, le potenze occidentali soffrono di un'ineliminabile vulnerabilità (sociale prima che militare) nella conduzione di una guerra di lungo periodo a terra, non avendo di fronte soltanto un esercito regolare, ma una molteplicità di soggetti militari non immediatamente riconoscibili. Questo dato, tra l'altro è tanto più vero quando non sia possibile costruire un'ideologia della "guerra giusta" a prova di tempo; per intenderci, l'identificazione di Saddam o Milosevic come impersonificazioni del demonio è possibile solo per guerre rapide a perdite (tendenti ) a(llo) zero, non certo in una guerra di lunga durata nella quale l'avversario (e il suo preteso volto demoniaco) tenderebbero inevitabilmente a sfumare o ad assumere le fattezze del dannato della terra e, certo, non del nuovo Hitler. In questa situazione gli interessi geoeconomici dell'élite imperiale statunitense diventerebbero troppo evidenti di fronte alla stessa popolazione americana per non alimentare una crisi di sfiducia interna troppo pericolosa per essere ignorata dai padroni del mondo. Non a caso solo il militarismo tedesco e quello giapponese hanno dato nel corso del secolo appena trascorso la giustificazione a Washington per effettuare guerre di lunga durata e, anche in questo casa gli USA hanno dovuto presentarsi al mondo e alla propria popolazione come i portatori di un ordine più giusto (e in piccola parte realizzarlo) rispetto a quello forgiato dagli imperialismi europei o da quello inseguito dall'alleanza tra il nazifascismo e il militarismo nipponico. Chi non consideri l'importanza avuta nell'affermazione dell'America come prima potenza mondiale dall'ideologia dell'autodeterminazione dei popoli dopo la Prima Guerra Mondiale (i famosi ventuno punti di Wilson) e da quella della decolonizzazione dopo la Seconda, non ha ancora capito che nelle società capitalistiche sviluppate l'elemento ideologico assume un'importanza estrema rispetto alla loro intima coesione e che il dominio da solo non basta a garantirne la riproduzione.

Nel quadro dello scontro tra i fautori della guerra immediata a Saddam e i temporeggiatori, deve anche essere collocata la querelle mediatica in atto negli Stati Uniti che vede il furioso scontro di veline televisive dove la notizia dei massacri a sangue freddo di migliaia di Talebani a Mazar-i-Sharif, compiuta dagli elementi di Rashid Dostum coadiuvati dagli agenti della CIA viene usata dai secondi come arma per discreditare i falchi, mentre i primi brandiscono come spada i ridicoli video presuntamente "Made in Al Qaeda", dove si vede un cane ucciso da misteriosi gas, per rinfocolare l'odio contro il mondo arabo. L'aspetto più suggestivo di questo scontro è che esso è totalmente interno all'élite repubblicana, mentre la presunta "opposizione" democratica è completamente schiacciata sulle posizioni guerrafondaie del Bush minore. Anzi, il più risoluto oppositore della guerra all'Iraq è Pat Buchanan, per anni esponente dell'estrema destra repubblicana (quella composta da fondamentalisti cristiani, miliziani armati del Mid West e filonazisti assortiti, per intenderci) e, oggi, padre padrone di un piccolo ma combattivo partito. Questo per dire delle gioie della democrazia compiuta.

Qual è però la ragione che spinge i cosiddetti falchi dell'amministrazione Bush a tentare la strada rischiosa della guerra subito, nonostante la serie non indifferente di pericoli che il loro potere potrebbe correre a causa di quest'avventura? A mio avviso la chiave per rispondere a questa domanda non va cercata in maniera esclusiva nelle preoccupazioni elettorali di un Bush in caduta libera (la guerra in Afganistan non è andata poi così bene, la recessione avanza e lo scandalo Enron si sta moltiplicando) a pochi mesi dalle elezioni di Mid-Terme di Camera e Senato. Quest'aspetto deve essere tenuto presente, ma non va assolutizzato; il problema principale che gli USA si trovano oggi di fronte è quello del progressivo acutizzarsi del conflitto sottotraccia con l'Arabia Saudita, conflitto recentemente tornato agli onori delle cronache dopo la decisione saudita di ritirare i propri investimenti (stimati in ventitremila miliardi di dollari) dalle borse americane. Questo, ovviamente, non per indignazione di fronte al comportamento truffaldino delle imprese americane o dei revisori dei conti, quanto come atto di guerra non ortodossa a seguito del rifiuto americano di prendere anche solo in considerazione il piano del principe Abdallah per la pace in Palestina e del pervicace sostegno assicurato "sempre e comunque" dagli USA a Israele. Naturalmente questi sono solo gli ultimi atti di una guerra sorda e non dichiarata che oppone USA e Arabia Saudita a partire dalla fine della Guerra del Golfo. Terminata la guerra fredda, il primo attacco a Saddam fu l'occasione che permise agli Stati Uniti di mantenere legato a sé l'alleato mediorientale, occupandone anche il territorio con basi per le proprie truppe. Questa operazione permise agli USA, strategicamente dipendenti dal petrolio saudita di mantenere il controllo sulle proprie fonti di approvvigionamento principali e di evitare che un possibile concorrente vi mettesse le mani. Si può anzi dire che l'intera operazione "Guerra del Golfo" e la stessa trappola tesa a Saddam dall'ambasciatrice americana in Iraq, che diede il via libera all'occupazione del Kuwait, fossero state concepite a questo scopo. Ovviamente l'opposizione saudita all'occupazione de facto del proprio territorio non è mai stata aperta, né poteva essere diversamente visti i fili che legano le élite dei due stati. Negli ultimi cinque anni, però, lo sviluppo sotto l'ala protettiva dei servizi segreti sauditi di Al Qaeda, l'impressionante serie di attentati antiamericani culminati con l'11 Settembre, hanno dimostrato che esiste almeno una parte dell'élite saudita decisa a giocarsi ogni carta possibile (compresa quella della Palestina e quella del fondamentalismo) allo scopo di acquisire una maggior indipendenza da Washington e lo status di maggior potenza regionale. Il disgelo saudita nei confronti dell'Iraq e dell'Iran, l'attivismo della Lega Araba sulla questione palestinese sono figli di questa prospettiva. D'altra parte Riad ha bisogno di giocarsi ogni carta possibile per evitare che si realizzi il Nuovo Ordine Mediorientale disegnato a Washington. Questo, per il semplice fatto che nel nuovo ordine non c'è posto per il regno saudita, se non in una posizione subordinata. Gli eventi di questo decennio hanno infatti dimostrato come gli USA, terminata la guerra fredda e con lei la necessità di mantenere buoni rapporti con gli stati maggiormente anticomunisti dell'area, abbattuti o relegati nell'angolo i regimi nazionalisti arabi come Siria, Libia, Iraq o Algeria, non ritiene più di dover mantenere un doppio regime di alleanze, con Israele da un alto, con i sauditi dall'altro. La scelta americana è sostanzialmente stata quella di puntare tutte le proprie carte su Tel Aviv, rafforzandone le posizioni tramite la costituzione del blocco Israele-Turchia e sposandone le posizioni più oltranziste sulla questione palestinese. Oggi, per recidere gli ultimi legami con i sauditi e costituire un unico blocco d'ordine in Medio Oriente basato su Ankara e Tel Aviv, però, Washington ha bisogno di porre sotto il proprio pieno controllo un paese mediorientale vicino a Turchia e Israele e ricco come l'Arabia Saudita di giacimenti di petrolio, oltretutto facilmente trasportabili grazie a infrastrutture già esistenti: il ritratto dell'Iraq. Il piano americano prevede, quindi, una breve guerra contro l'Iraq, l'instaurazione nel paese di un governo filoamericano e, a quel punto la riattivazione delle risorse petrolifere di Baghdad. Un Iraq filoamericano costituirebbe l'anello mancante per saldare un blocco di potere americano fidatissimo, dal momento che questa nuova situazione spingerebbe Giordania ed Egitto (gli unici stati arabi ad aver già firmato la pace con Israele) a abbandonare la posizione di equidistanza finora tenuta nei confronti del conflitto israelo-palestinese, priverebbe gli stessi palestinesi di qualsiasi retrovia costringendoli così ad accettare qualsiasi pace, chiuderebbe in una morsa la Siria, preparando probabilmente un cambio di regime in senso favorevole a Washington e chiuderebbe nell'angolo le due potenziali potenze regionali concorrenti, ossia l'Arabia Saudita e l'Iran. Non è un caso che in quest'ultimo periodo sia iniziato un sempre meno cauto avvicinamento tra queste ultime; d'altra parte il tenore della minaccia americana è tale da far scordare ai due rispettivi governi che, per la rispettiva ideologia religiosa ufficiale, la controparte sarebbe costituita da pericolosi eretici traditori dell'ortodossia musulmana. Questo scenario, però deve essere imposto in fretta da Washington, pena il rischio che i due stati arabi più apertamente filoamericani, Giordania ed Egitto, saltino in aria sotto la spinta della saldatura tra i fermenti independentistici del ceto medio frustrato dal vassallaggio verso gli USA e il messaggio millenaristico del fondamentalismo sunnita. Un'eventualità di questo genere, ovviamente, scompaginerebbe totalmente i piani USA, costringendo la superpotenza mondiale a lavorare al contenimento di un'onda ostile più che all'ordinato dominio dell'area. Per evitare problemi di questo tipo l'amministrazione Bush sta cercando di forzare la mano, arrivando alla guerra entro l'Autunno.

La fretta, però, è cattiva consigliera e non è infondata la speranza che, nel velocizzare i tempi di un'operazione insicura gli USA compiano errori che possono riaprire le sorti di quell'area strategica chiamata Medio Oriente.

Giacomo Catrame



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