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Da "Umanità Nova" n. 29 del 15 settembre 2002
Un anno dopo l'11 settembre
Il mondo di prima, come prima
È trascorso un anno da "il mondo non sarà
più come prima" ma, a dispetto degli acidi commentatori a stelle e
strisce, il mondo è come prima, il governo americano non gode di miglior
fama e la solidarietà ai padroni della terra arriva solo dai loro servi
e vassalli.
Più di qualsiasi dotta spiegazione politologica, penso che bastino i
dati che seguono, per dare conto dello iato incolmabile che separa gli Stati
Uniti dagli altri paesi. Molti ricorderanno il bombardamento di una festa di
nozze afgana, effettuato per errore dall'aviazione statunitense or sono alcuni
mesi. I morti causati da quella incredibile "leggerezza" furono 48, e
più di un centinaio i feriti. Per ogni morto è stata stanziata, a
titolo di risarcimento, la favolosa somma di 380 dollari circa, in tutto 18.500
dollari, o euro se il conto riesce più facile, con buona pace dei loro
congiunti che almeno riceveranno qualcosa, a differenza di quelli degli altri
civili finiti sotto le bombe umanitarie della Air Force. Questo a fronte del
miliardo di dollari che i famelici avvocati della Grande Mela, appoggiati dalle
autorità, hanno pensato bene di chiedere per ognuna delle 2.800 vittime
delle torri gemelle, con il bel risultato, tra l'altro, che gli sceicchi
sauditi, che teoricamente dovrebbero pagare il conto, hanno previdentemente
ritirato dalle banche americane circa un terzo dei loro depositi.
Non c'è niente da fare. L'"antiamericanismo", così
incomprensibile per chi non vuole accettarne le ragioni, è una costante,
un dato di fatto, un tratto ineluttabile della modernità. Un inevitabile
meccanismo di difesa, un necessario momento di conflitto, che attraversa
orizzontalmente le società di mezzo pianeta. Sotto varie forme, con le
sue inevitabili diversità qualitative e quantitative, esprime il rifiuto
di una realtà troppo spesso, troppo crudamente, inaccettabile. E mette
in secondo piano anche quel non piccolo debito che, volenti o nolenti, tutti
potremmo avere con la società civile d'oltreoceano, con i suoi
intellettuali, con i suoi artisti, con i suoi scienziati, con i suoi pensatori
straordinariamente innovativi.
È la ribellione contro l'impero che dà linfa a questo sentire,
è il rifiuto di sottostare all'arroganza del potente, è
l'impossibilità di accettare l'espropriazione, è il desiderio di
preservare la propria identità, è il bisogno di difendere gli
spazi di libertà, è l'orgoglio della propria appartenenza ed
è, forse più di tutto, l'amara consapevolezza che alla fine si
dovrà, comunque, soccombere. Non c'è niente da fare! è il
sasso di sempre scagliato da milioni di Davide contro un unico, mostruoso,
Golia.
Del resto sono proprio i governi americani, tutti indistintamente, che si
sforzano di alimentare questo senso di repulsione così diffuso. È
inutile qui rielencare le crudeli ingiustizie della politica americana e i
conflitti nati a difesa degli interessi strategici ed economici
dell'establishment statunitense: nella logica del potere sono cose normali e
sempre successe, oggi le fanno gli Usa, in altri tempi fu l'impero britannico o
il cattolicissimo re di Spagna, il principe dei credenti o il senato
dell'antica Roma. Ma non ci vengano a raccontare, per piacere, che la guerra
del Vietnam, l'invasione di Panama, la famigerata Desert Storm e quant'altro
sono episodi di quella lotta del bene contro il male che la grande mamma
americana combatte per tutti noi. Questa impudica pudicizia ad ammettere la
"legittimità" della difesa ad oltranza dei propri interessi è
altrettanto intollerabile e criminale dei milioni di bombe sganciate su mezzo
mondo. Dal Corriere della Sera di sabato 7 settembre: "C'è un
solo cambiamento nell'economia afgana, per alcuni addirittura decisivo nello
scatenare l'offensiva di Washington. Il 30 maggio Karzai ha firmato con il
Turkmenistan e il Pakistan un protocollo d'intesa per la costruzione del
gasdotto destinato a portare sull'Oceano indiano il gas del mar Caspio. Un
progetto che negli Usa veniva considerato di interesse strategico da almeno 10
anni. La compagnia che trarrà i maggiori benefici è l'americana
Unocal. Kabul si avvantaggerà grazie ai diritti di transito e alla
retribuzione della manodopera impegnata nella stesura dei tubi. Spiccioli,
purtroppo. Il presidente Karzai, ex consulente privato della Unocal, lo sa
benissimo".
In questi giorni, al Festival cinematografico di Venezia, è stato
proiettato un film, a quanto pare straordinario, nel quale 11 registi hanno
realizzato 11 pezzi di 11 minuti ciascuno per ricordare, secondo la loro
sensibilità, i morti dell'11 settembre. Nessuno ha ceduto al ricatto
della retorica, anzi, tutti hanno inteso onorare gli innocenti morti delle
torri, sottraendo il loro destino all'enfasi celebrativa che li circonda. Loach
ricorda l'11 settembre del 1973, quando Pinochet diede inizio alla mattanza
cilena, Chahine fa rivivere il fantasma di un marine ucciso a Beirut nel 1983,
Makhmalbaf ambienta il suo episodio in una scuola elementare afgana, Ouedraogo
racconta di un gruppo di ragazzi del Burkina Faso che sognano di intascare la
taglia su Bin Laden, Tanovic riporta le immagini delle donne di Srebrnica. E
così via. L'eccezionalità del crollo delle torri restituita alla
normalità delle storie e della storia. Un doloroso, profondo omaggio a
quella tragedia, privo però di quel funereo sadismo che, più o
meno consapevolmente, accompagna le cronache sulle Twin towers. Ed è
bastato questo omaggio, tanto sincero quanto non rituale, per scatenare, come
sempre, i cani da guardia del padrone americano, attenti a rintuzzare ogni
tentativo di lesa maestà. Ciechi ad ogni evidenza, preoccupati solamente
di nascondere la realtà dei fatti e di negare le colpe del sistema
politico ed economico americano, diventano essi stessi, nella loro foia a
stelle e strisce, i veri nemici di quello che, nonostante tutto, potrebbe
davvero essere un grande paese.
Massimo Ortalli
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