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Da "Umanità Nova" n. 29 del 15 settembre 2002

Johannesburg
Il tramonto del riformismo

Il fallimento di Johannesburg era ampiamente previsto, non solo dagli addetti ai lavori. E non solo dalle aree estremiste per le quali ormai tali summit denunciano uno spreco di risorse in vista della loro plateale realizzazione - miliardi in fumo, cibo in abbondanza per i delegati, costosi viaggi aerei, ecc. - e l'impotenza del sistema delle Nazioni Unite in cui quantitativamente i paesi meno ricchi sono in maggioranza. Tuttavia l'attuale epoca delle relazioni internazionali non è affatto democratica, secondo i canoni tipici della procedura decisionale.

Forse sarebbe il caso di abolirli del tutto, tali vertici inutili, al di là della bontà delle considerazioni in ordine sparso che pur si registrano nei documenti per l'occasione. E anche al di qua della drammaticità dei problemi per una grossa fetta di popolazione del pianeta, assente dai summit perché sterminata, non rappresentata, nemmeno dai movimenti sociali che solo in pochi dispongono di risorse per farsi sentire nei luoghi selezionati. Del resto, la lotta quotidiana, ciascuno al proprio posto, è quella che paga nei fatti, magari non sulla scena mediatica, comunque non certo una volta ogni sei mesi per i vertici dei potenti e delle loro corti più o meno coinvolti a spartirsi le briciole lasciate dai ricchi.

È però importante, ritengo, capire perché i vertici falliscono sovente, nonostante le dichiarazioni di facciata, l'urgenza dei problemi, la buona fede di alcuni partecipanti, l'impegno degli stipendiati (lautamente) al servizio della global politics. Infatti, paradossalmente, né la politica né le istituzioni ufficiali contestano le cifre drammatiche sulla povertà, sulla iniquità della distribuzione delle risorse idriche. Anche la cornice culturale, che crea problemi di "traduzione" tra contesti e quindi diversi quadri ermeneutici di interpretazione e significato, ossia diagnosi e terapie differenti, è tuttavia abbastanza solida da contenere al proprio interno i dati dell'UNDP e persino quelli della World Bank - al di qua appunto delle vie da seguire e che non vengono affatto seguite. Perché l'intesa tra ricchi e poveri non viene praticata, quantomeno per prevenire che la moltitudine schiacci un giorno o l'altro una oligarchia planetaria?

Per noi anarchici, il fallimento conferma una opzione ideologica secondo la quale il riformismo diviene vera e propria utopia quando dovrebbe entrare in azione perché i margini di implementazione sono bruciati dalle riforme e dalle controriforme che la dialettica politica istituzionale attua sulla pelle dei più. Le intese svaniscono perché non c'è più spazio di negoziazione, di mediazione per intendersi su uno scambio a somma positiva, in cui ricchi e poveri qualcosa guadagnano pur cedendo parte delle loro posizioni e proposte politiche. Il riformismo internazionale sotto forma dei summit globali o settoriali alla ricerca di accordi planetari è pratica morta e sepolta anche prima di Seattle 1999.

Ovviamente, però, una motivazione ideologica, pur se vicina alle nostre ipotesi di fondo, lascia insoddisfatti in quanto difficilmente ci farà capire dove stiamo andando e come ci attrezziamo per un conflitto lungo il percorso e in vista di un orizzonte oggetto del conflitto stesso (ad esempio: quale globalizzazione, di chi e per chi).

L'estrema minoranza arroccata nei centri residenziali protetti da polizia di stato e private, l'estrema minoranza rappresentata e ascoltata nei luoghi istituzionali in essi talmente immersi da smarrire il legame associativo con i più loro vicini in spazi altri - respinti, incarcerati, affamati, invisibili - è ormai convinta che la sua sopravvivenza in quanto minoranza assediata e insidiata sebbene ricca e potente passa per lo sterminio economico e militare, che diviene immediatamente unica politica globale, esautorando altri significati della categoria della politica (mediazione, compromesso, arte del possibile, stile della prudenza nella guida degli affari pubblici) ereditati nel corso di secoli di cultura occidentale.

Così mi spiego la cosiddetta cecità americana nel non voler applicare i già minimi parametri di Kyoto, non solo per una tentazione di unilateralismo muscoloso, non solo perché la società americana di ridimensionare la sua ricchezza debitrice dei soldi altrui e delle sventure altrui (l'inquinamento) non intende sentire neanche accennare, ma anche perché i poveri possono e devono strutturalmente continuare a esistere in sempre maggiore degrado affinché alla fine cessino di rappresentare una minaccia virtuale e si disciplinino in via definitiva come esseri servili ridotti a totale impotenza.

La morsa a tenaglia delle politiche economiche e dei ricatti bellici, che comincia a farsi sentire anche nei riguardi di alleati riottosi o meno cinici, denota un carattere criminale e distruttivo ai limiti del patologico, in quanto spinge alle estreme conseguenze nichiliste il quadro di valorizzazione capitalistico che a forza di sfruttare alla morte e in ogni centimetro vita e terra, esseri umani e ambiente, alla fine potrebbe esaurirsi poiché non rimane più nessuno.

Non a caso le punte più avanzate e più futuribili del ceto dei global master stanno già sperimentando clonazioni e colonizzazioni extraterrestri come ulteriore linea di frontiera una volta abbandonata a se stessa la terra, secondo uno scenario apocalittico ma non irrealistico in cui miliardi di individui sopravvivono più morti che vivi, senza acqua e senza ossigeno pulito, mentre chi può pagare troverà sempre acqua e aria nelle metropoli spaziali orbitanti intorno alla terra.

Forse è da questa lettura prospettica fantapolitica che occorre muovere per sbarazzarsi di pericolose illusioni riformatrici e praticare stili globali di vita in conflitto che, scontrandosi con tale scenario, riabitui la terra a vedersi popolata insieme alle risorse necessarie alla vita stessa, acqua e aria pulita innanzitutto (visto che stiamo parlando del vertice di Johannesburg); una ecologia ambientale senza dubbio, ma non solo, anche una ecologia sociale, politica e dell'immaginario, di un anarchismo diffuso di cui siamo portatori ed eredi ben oltre le varie tattiche di contestazione con cui misurarsi di volta in volta e che restano metodi contingenti di lotta funzionali a orizzonti tutti da ritradurre in linguaggi contemporanei.

Salvo Vaccaro



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