![]() Da "Umanità Nova" n. 30 del 22 settembre 2002 Disertare la guerraA quanto pare, tra pochi giorni, poche settimane o pochi mesi, saremo di nuovo in guerra. E anche le forze armate italiane porteranno nuovamente i loro umanitari strumenti bellici a seminare morte e distruzione a migliaia di chilometri di distanza dai patrii confini. C'è stato un politologo dal nome esotico che, appena crollato il muro di Berlino, ha decretato la fine della storia. Finita l'era dei due blocchi, il mondo sarebbe restato saldamente immobile sulle uniche fondamenta rimaste, quelle dell'impero americano. Morte della storia e morte della dialettica, fine del racconto, pagina chiusa: c'è ancora qualcosa da dire? Non mi pare che questi ultimi dieci anni gli abbiano dato ragione! Con una sconcertante progressione, infatti, i conflitti che vedono impegnati gli Stati Uniti e i loro paesi satelliti, occupano sempre più costantemente le prime pagine dei giornali. La guerra del Golfo, l'aggressione alla Serbia, l'invasione dell'Afganistan, la prossima, inevitabile spedizione contro l'Iraq. Tre guerre più una in dieci anni. Come fine della storia non c'è male e sudiamo freddo a pensare cosa sarebbe successo se la storia fosse andata avanti.
Molte volte, sulle colonne di questo nostro povero ma insostituibile giornale, altri compagni hanno spiegato con la consueta lucidità i veri perché delle scelte belliciste del "mondo libero": il controllo delle risorse naturali, gli interessi strategici, gli scontri di civiltà, le logiche di dominio, la spartizione della refurtiva. Tutti motivi mascherati furbescamente, però, dietro considerazioni altamente etiche e universali, riassumibili nella immortale frottola della lotta del bene contro il male. E così, inevitabilmente, anche la guerra che scoppierà tra breve non sarà che un nuovo episodio di quella saga hollywoodiana che ciclicamente ripropone il remake dello scontro fra due civiltà: in questo caso, la cosiddetta civiltà di Bush e la cosiddetta civiltà di Saddam. Che stanchezza! Ci sarebbe da sbadigliare dalla noia, se tutto questo non prevedesse il solito, drammatico carico di civili inermi massacrati e terrorizzati, il solito intollerabile corollario di sofferenze che peseranno unicamente sulle inconsapevoli masse di manovra di poteri criminali, il solito vischioso vomito di bugiarda retorica che prezzolati "professionisti dell'informazione" rovesceranno instancabilmente sulle nostre teste.
Se l'elemento strutturale della guerra è l'interesse materiale, sia esso economico, strategico, militare, uno degli elementi sovrastrutturali, altrettanto indispensabile, è la retorica guerrafondaia. Quella forma di esaltazione collettiva che, in qualsiasi situazione, impone la criminalizzazione del nemico, l'esaltazione della propria missione civilizzatrice, il disinteressato eroismo della truppa, la dimostrazione del coraggio proprio e della vigliaccheria altrui, la giustificazione della violenza come deterrente di altra violenza. La menzogna istituzionale con la quale le "migliori" democrazie e le "peggiori" dittature hanno sempre convinto i propri sudditi della bontà delle proprie decisioni. Perché una guerra non basta dichiararla, ma bisogna anche che qualcuno la faccia! E infatti, eccoli qua, sul piede di guerra ancora una volta, scalpitanti e con la fregola nel fondo dei calzoni, con gli occhiali a specchio per nascondere le proprie vergogne, con le ridicole divise e le espressioni maschie, decisi a farsi rispettare e a far rispettare le loro regole criminali. Eccoli i berretti verdi, eccola la Royal Army, eccoli i gerarchi della Folgore o del Col Moschin, ed eccoli, nei deserti arabi, eccoli quegli altri generali tutti uguali, quei pasciuti parassiti di un popolo ridotto allo stremo, eccoli, in attesa dell'ordine, in attesa di poter dare ed eseguire finalmente quell'ordine che legittima il loro stipendio. E la brutalità del loro "mestiere". E al loro fianco un altro esercito di diplomatici, di esperti, di tecnici, di analisti, di strateghi, i colleghi in guanti bianchi dei soldatini di cui sopra, intenti, con le armi del sotterfugio e della menzogna, a convincere il mondo che la guerra è inevitabile, che di fronte alla minaccia irakena rimane il male minore, che le sofferenze di oggi saranno la sicurezza di domani, che solo portando nuova morte e terrore al popolo iracheno lo si libererà, vivaddio, dal terrore e dalla morte. Insomma, che un nuovo delitto porrà fine a un delitto precedente.
Da qualche tempo, complice la volgarità del presente esecutivo, nascono nuove mobilitazioni e nuove energie si risvegliano. E al di là delle ambiguità e delle ambizioni che caratterizzano lo stato maggiore di una sinistra ancora frastornata dalle batoste elettorali, l'imprevisto successo delle più recenti manifestazioni di piazza dimostra che una coscienza sociale, civile e solidale non è ancora scomparsa in questo paese, e non intende scomparire. E che a livello popolare si riaprono spazi di intervento e possibilità di iniziativa ben più ampi di quelli a cui ci avevano abituati gli anni novanta. La validità dell'antimilitarismo anarchico ha un carattere universale. Il nostro antimilitarismo, infatti, si basa su convinzioni slegate da valutazioni contingenti, e come tali limitative, e trova il proprio fondamento in un'analisi generale del potere e dei suoi strumenti coercitivi. Ha radici antiche e solide, ci è costato isolamento e repressione, è uno dei nostri più preziosi patrimoni. È un valore, se questa parola ha un senso, e come tale dobbiamo farlo diventare un bene collettivo. Non solo un ideale sentire comune, ma anche uno strumento utile a scardinare le fondamenta sulle quali poggia il sistema di cose presente. Se siamo convinti, e lo siamo!, che ogni guerra è ingiusta perché è una guerra, portiamo ovunque questa nostra convinzione e facciamola diventare diserzione generale. Diserzione dalla guerra, diserzione dal militarismo, diserzione dal potere e dai suoi meccanismi di morte. Diserzione dall'infamia della quale vorrebbero renderci tutti complici. Massimo Ortalli
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