unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 30 del 22 settembre 2002

Afganistan
Il fronte aperto

Un caro amico di chi scrive conserva un tappeto afgano di un certo valore, lavorato a mano secondo l'antica tradizione nazionale, risalente al periodo della resistenza anti-sovietica; in esso, al posto dei consueti motivi floreali, sono raffigurati kalashikov e bombe a mano.

Basterebbe riflettere su questo, per comprendere quanto la guerra permei la storia e la cultura afgana, con cui prima degli Stati Uniti e dell'Urss ha dovuto fare i conti anche l'imperialismo britannico.

All'indomani della caduta del regime dei Talebani, anche se da più parti si parlò di vittoria americana, agli osservatori più attenti non era sfuggito che si trattava in realtà di propaganda legata alla sbandierata operazione "Enduring Freedom".

A distanza di quasi un anno, si può tranquillamente affermare che per gli Usa l'Afganistan rimane un fronte aperto e che il bilancio della loro guerra può dirsi poco meno che fallimentare.

Dopo settimane di bombardamenti che hanno causato la morte di almeno 4.000 civili, il cui peso evidentemente è di gran lunga inferiore alle vittime delle Twin Towers, gli Usa hanno rinunciato al controllo effettivo del territorio, in quanto una presenza consistente di truppe americane e/o occidentali avrebbe incrinato ulteriormente la coalizione anti-talebana e oltremisura screditato il debole governo affidato ad Hamid Karzai.

Attualmente il contingente USA in Afganistan ammonta ad appena 7 mila militari, una cifra irrisoria sufficiente a malapena a controllare alcune strutture a Kabul, ad addestrare le truppe governative, a mantenere i collegamenti con le diverse tribù guerriere e a dare la caccia alle ombre di Al Queida.

Neanche l'esercito sovietico, nonostante le ingenti forze di uomini e mezzi impiegati, negli anni Ottanta poté fare di meglio e il suo controllo era limitato perlopiù alla capitale mentre la guerriglia con le proprie basi nelle montagne e il banditismo tribale spadroneggiavano su quasi tutto il territorio.

Ben conoscendo i problemi sperimentati dalle forze armate russe, proprio perché a suo tempo sostennero i mujaheddin afgani (vi ricordate Rambo III?), gli Stati Uniti si sono ben guardati da un impegno diretto sul campo con contingenti di terra di maggiori dimensioni onde evitare di ritrovarsi in situazioni analoghe a quelle subite per oltre un decennio nelle risaie e nelle giungle vietnamite.

Probabilmente al Pentagono contavano di poter delegare il presidio del territorio all'esercito dell'Alleanza del Nord, ma questo si è velocemente disgregato e agli Usa non è rimasto che sostenere le deboli forze e del governo provvisorio - poche migliaia di miliziani quasi tutti tagiki -, garantendo a Karzai una guardia del corpo di cinquanta uomini.

L'elezione a presidente di Karzai nel giugno scorso da parte della Loya Jirga, l'assemblea di tutte le componenti etnico-tribali, è stata tutt'altro che unanime ed inoltre non si può ignorare il rilevante potere militare ed economico, legato alla produzione e al traffico d'oppio, dei vari signori della guerra.

La designazione della enclave tradizionale della Loya Jirga era stata infatti attraversata da gravi intrighi e contrasti di ogni genere, probabilmente superati soltanto al fine di ottenere i promessi aiuti economici e di poter continuare a produrre e commerciare oppio col beneplacito dei "vincitori", con la consapevolezza che comunque a chiunque fosse stata affidata la presidenza dello Stato questi e suoi tutori occidentali avrebbero dovuto fare i conti con i diversi, ma ben più reali, contropoteri tribali di sempre che per il proprio tornaconto - non certo per amore della democrazia o per divergenze religiose - hanno partecipato alla liquidazione del regime talebano ma che, allo stesso modo, potrebbero decidere di eliminare Karzai nel momento in cui il suo governo sotto protezione americana entrasse in conflitto con i loro interessi.

È cosa risaputa che signori della guerra, grandi e piccoli, sono decine: a Jalalabad, nel cui territorio bande armate vigilano sulla coltivazione intensiva del papavero, comanda Haji Abdul Qadee; a Mazar-I-Sharif governa il generale uzbeko Rashid Dostum, mentre a Herat domina Ismail Khan, tagiko e di fede islamica sciita e a Kandahar è tornato a regnare Hajii Gul Agha. Ma nella lunga lista dei nemici di Karzai vi sono anche gruppi tagiki, ex-combattenti dell'Alleanza del Nord, che non hanno accettato di buon grado il passaggio di poteri in favore dei pashtun di Karzai; forti nell'area della capitale, anche l'apparato di "sicurezza" è sotto il loro controllo.

Oltre al mullah Omar che nella provincia afgana del Kunar capeggia le bande talebane, tra i principali nemici dell'attuale assetto politico sembra emergere la figura di Gulbuddin Hekmatyar, a capo di un gruppo integralista sunnita, già protagonista della guerriglia antisovietica ed ora su posizioni antiamericane, dopo essere stato per anni ospite dell'Iran; è a lui che viene ricondotta la regia della strage nel centro di Kabul e il fallito - di poco - attentato alla vita di Karzai.

Ma questi episodi sono in realtà soltanto gli ultimi di una guerra che non si è mai interrotta e a cui ora si è andata sovrapponendo anche la crescente ostilità nei confronti della presenza militare occidentale; in questi mesi, anche se l'informazione vi ha dato scarso rilievo, innumerevoli sono state le azioni belliche: dal fallito attentato al ministro della Difesa Mohammed Fahim all'uccisione del vice-presidente e ministro Hajii Abdul Qadir, dal susseguirsi di tremende esplosioni in depositi di armi o contro sedi di imprese economiche agli attacchi, anche con armi pesanti, contro aeroporti ed installazioni Usa ed anche l'11 settembre, poche ore prima dell'inizio delle celebrazioni, la stessa base di Bagram e un campo volo a Khost usato dal contingente Usa sono stati bersagliati da razzi e armi leggere.

Necessario quindi interrogarsi sul senso della guerra scatenata dopo l'11 settembre e viene da pensare che, irrealizzati i progetti imperialisti per il controllo dell'Afganistan, una nuova aggressione all'Iraq non sia per gli Usa una dimostrazione di forza ma bensì di debolezza, se non persino di crisi, proprio come avviene con certe mosse obbligate nel gioco degli scacchi.

Uncle Fester



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