Da "Umanità Nova" n. 31 del 29 settembre 2002
La croce, la spada, la toga
Scuola: la libertà va a farsi benedire
Come è noto, da anni viene sollevata da più parti la questione
della legittimità sostanziale e formale dell'affissione della croce
nelle aule scolastiche.
A mio avviso si tratta di una questione sovente mal posta. Molti insegnanti,
studenti e genitori, infatti, ritengono che il problema sia rilevante quando vi
è la presenza in una classe di un certo numero di studenti di religione
diversa da quella cattolica. Si tratterebbe, insomma, di un'esigenza di
rispetto per il pluralismo religioso. Fatto salvo che, con ogni evidenza, non
è accettabile che un convincimento religioso sia considerato superiore
ad un altro, non ritengo che il vero problema sia quello di tutelare, per fare
un esempio, uno studente di fede islamica dall'invadenza cattolica. Se,
infatti, ci ponessimo su questo terreno accetteremmo, implicitamente, la tesi
integralista secondo la quale vi è un problema di rapporto fra
comunità religiose diverse e che corrisponderebbero a gruppi etnici:
italiani cattolici, arabi mussulmani ecc...
La vera questione è più semplice e più radicale e si
può così riassumere: è accettabile che la scuola pubblica,
cioè di tutti, esponga i simboli di una parte, poco conta se maggioranza
o minoranza?
Per chi abbia a cuore la libertà non solo e non tanto delle
comunità religiose quanto delle persone la risposta è sin troppo
chiara. La scuola pubblica è tale compiutamente solo se non impone una
particolare visione politica, religiosa, culturale ma è aperta al
confronto fra le diverse sensibilità. Altro non vi sarebbe da dire.
Naturalmente, invece, vi è chi provvede a spostare la questione su di un
terreno, come dire, ambiguo.
Vale la pena, a questo proposito di segnalare un recente pronunciamento
dell'Avvocatura distrettuale dello stato di Bologna che, rispondendo
all'interpellanza di un dirigente scolastico dell'Emilia Romagna ha ribadito la
piena legittimità dell'articolo 18 del regio decreto (le minuscole sono
volute) 30 aprile 1924 n. 965 e di quelle di cui all'allegato C del regio
decreto del 26 aprile 1928 n. 1297 che, appunto, impongono l'esposizione del
crocifisso.
Sin qui, nulla di particolarmente rilevante, almeno a mio avviso. A questo
mondo vi è chi produce ortaggi e chi produce pronunciamenti. Per parte
mia, chi produce ortaggi è decisamente più utile alla
società ma sino a quando vi saranno leggi e magistrati a costoro non si
potrà chiedere altro che di applicare la legge e, se possibile, di farlo
con competenza.
Il fatto è che i magistrati non si limitano ad applicare la legge ma ne
danno un'interpretazione che diviene essa stessa rilevante.
Scopriamo, dunque, che il pronunciamento in questione si fonda su di un parere
del Consiglio di stato (63/1988) che afferma che il crocifisso "...a parte il
suo significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e
della cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale,
indipendentemente da specifica confessione religiosa.".
Mi viene in mente, a questo punto, la famosa tesi di Benedetto Croce secondo la
quale non possiamo non dirci cristiani.
Per Croce questa tesi paradossale si basava sul riconoscimento che il
cristianesimo è costitutivo della civiltà europea ma non ritengo
si spingesse al punto di considerare opportuna l'imposizione da parte dello
stato di simboli religiosi.
Il fatto è che la tesi che i simboli cristiani sono da imporsi a tutti
perché parte della nostra storia è inaccettabile per ragioni a
mio avviso evidenti che cercherò di riassumere brevemente.
In primo luogo o l'esperienza religiosa è scelta individuale
significativa, appartenenza, avventura esistenziale, dimensione comunitaria o
è vuota ma potente esteriorità. Soluzioni intermedie non si
danno.
Il ridurre il cristianesimo a "cultura cristiana" non rende certamente un buon
servizio alla libertà degli individui ma nemmeno è un bene per
chi viva un'esperienza di fede di carattere non idolatrico.
Più grave ancora è il fatto di far coincidere la "civiltà
europea" con le sue presunte "radici cristiane". Vi sono infatti, per un verso,
spazzate via col ferro e col fuoco ma vive, radici più antiche sulle
quali non vi è spazio per indugiare e, per l'altro, un processo di
critica della religione che ha caratterizzato la modernità perlomeno nei
paesi occidentali.
La chiesa cattolica, con la sua tradizionale capacità di adattamento, ha
dovuto fare i conti con la secolarizzazione, con la fine di ogni
possibilità di tradizionale alleanza fra trono ed altare e, per
riconquistare lo spazio perduto o, almeno, per provarci, ha elaborato un
discorso accattivante e pericoloso.
Il cristianesimo, nella sua versione cattolica, ci viene presentato come una
"cultura" che deve essere tutelata dallo stato sia, soprattutto, con denaro
pubblico che con norme che favoriscano la penetrazione della chiesa nella
società.
Che questa "cultura" corrisponda ad un apparato poderoso e ad una parte viene
tranquillamente sottaciuto. Dolcemente si impone l'idea che chi non si piega
alle pretese clericali sarebbe un laicista di stampo ottocentesco o un fanatico
religioso di altra appartenenza.
Credo, di conseguenza, che su quest'ordine di questioni sia necessaria la
massima attenzione. Vi sono molti segnali di tentativi di ridar corpo ad una
"Europa cristiana" che dovrebbe opporsi ad un pericolo di invasione islamica e
fatti apparentemente minori come quello del quale ragioniamo vanno collocati in
questa deriva.
Cosimo Scarinzi
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