Da "Umanità Nova" n. 32 del 6 ottobre 2002
Dibattito sul movimento antirazzista
Una partita difficile
Le prospettive del movimento antirazzista, dopo l'approvazione della Legge
Bossi-Fini sull'immigrazione, non appaiono rosee e dietro un'apparente
ritrovata convergenza delle varie componenti, emergono vari e non marginali
problemi irrisolti.
Negli ultimi dieci anni, è fuor di dubbio, parallelamente alla crescente
presenza di immigrati nel nostro paese si è andato formando un variegato
movimento che, seppure tra alti e bassi, ha visto l'incontro delle associazioni
antirazziste, delle comunità dei migranti, del volontariato laico e
cattolico.
Quanti sono stati parte di tale esperienza collettiva, dopo aver superato
l'impreparazione di tipo culturale nell'affrontare un fenomeno sociale che non
aveva precedenti, fin dall'inizio hanno dovuto misurarsi con varie
difficoltà ma allo stesso tempo hanno pure constatato le grandi
potenzialità insite in essa.
Tra le difficoltà, non si può non eludere quella di far essere
realmente protagonisti i soggetti interessati, ossia i migranti, concretizzando
un effettivo processo di autorganizzazione; infatti, nel migliore dei casi, si
è dato vita a momenti associativi più che rispettabili ma in cui
il ruolo degli immigrati raramente è andato oltre quello di una
partecipazione alle iniziative proposte dai militanti antirazzisti su
obiettivi, contenuti e parole d'ordine di rado del tutto compresi e condivisi
dagli stessi immigrati.
Esistono è vero numerose comunità a base etnica e talvolta
religiosa, sovente formalmente costituitesi in associazioni, ma pur praticando
una certa solidarietà interna difficilmente si sono dimostrate punto di
riferimento per rivendicazioni ed iniziative di lotta, anche perché da
tali esperienze tendono ad essere tagliati fuori i settori meno stabili e
garantiti dell'immigrazione ed inoltre vi è una scarsa comunicazione tra
le diverse comunità.
A questo primo problema, va aggiunto quello dell'autonomia ossia dei rapporti
con partiti, sindacati ed amministrazioni locali "di sinistra"; il confronto
con queste realtà è risultato quanto meno controverso. I partiti
che dovrebbero teoricamente essere a favore di una società aperta e
multiculturale (Ds, Verdi, Rifondazione Comunista), aldilà del reclamare
il diritto di voto per gli immigrati e proclamarsi loro difensori, hanno
evidenziato sconfinati limiti di comprensione delle dinamiche e delle
caratteristiche del fenomeno e quando erano parte del governo di
centro-sinistra hanno partorito quella Legge Turco-Napolitano che, per logica,
si è rivelata la premessa della Bossi-Fini, introducendo (alla faccia
della libertà di circolazione) le norme sui cosiddetti flussi
contingentati e istituendo quelle strutture di detenzione per innocenti
tristemente noti come Centri di Permanenza Temporanea; i sindacati ufficiali e
la CGIL in particolare hanno di solito dimostrato una maggiore attenzione nei
confronti dei lavoratori immigrati anche attraverso la creazione di appositi
uffici e servizi, ma ad essi è mancato il coraggio civile di scelte
conseguenti per affermare certi diritti fuori dell'ambito della cosiddetta
immigrazione regolare, così come le amministrazioni di centro-sinistra
che da un lato si sono rese promotrici di iniziative di facciata "volte a
favorire l'integrazione" ma che nella quotidianità mobilitano la polizia
municipale per dare la caccia ai "clandestini".
Tornando ai C.P.T., già resi operativi sotto il precedente governo,
ossia di veri campi che secondo Amnesty International in cui sono violati
sistematicamente i diritti umani, va purtroppo registrato che nonostante alcune
forti mobilitazioni il movimento antirazzista ha sostanzialmente perso la
partita non riuscendo, anche per le responsabilità politiche della
sinistra istituzionale, a farne una questione centrale nei confronti della
quale esercitare un'opposizione irriducibile e discriminante. Non solo infatti
si tratta di un orrore concentrazionario, ma rappresentano un elemento chiave
per la funzionalità delle leggi sull'immigrazione, come più volte
dichiarato e rivendicato dalla ex-ministra Livia Turco.
Purtroppo quella sinistra democratica che oggi si spreca in girotondi in difesa
della legalità non ha voluto rendersi conto di quanto in questi luoghi
separati dalla società civile fosse ed è in gioco l'idea stessa
di libertà, ma va anche detto che neppure la maggioranza degli immigrati
si è dimostrata consapevole di quanto avviene in tali luoghi,
considerandola soltanto come una delle tante misure coercitive in cui possono
incappare.
Al contrario alcuni settori della "società civile", in collaborazione
con gli organi statali preposti e anche usufruendo di finanziamenti specifici,
si sono resi disponibili a svolgere compiti di assistenza umanitaria nei
confronti degli internati, senza rendersi conto di stare in questo modo
legittimando l'esistenza di tali strutture.
Attualmente di fronte alla Legge Bossi-Fini il movimento antirazzista deve fare
i conti con altri problemi politici, ma innanzi tutto bisogna registrare un
divario enorme tra i pronunciamenti di principio contro tale legge e l'impegno
in prima persona all'interno dei percorsi di organizzazione diretta e
resistenza quotidiana sul fronte dell'immigrazione, stentando peraltro a
collegarli alle lotte sostenute dai lavoratori anche se almeno si comincia ad
intuire il nesso esistente tra Legge Bossi-Fini e attacco all'Art.18 dello
Statuto dei Lavoratori.
In altre parole, dal momento in cui gli immigrati sono sempre più
presenti all'interno delle mobilitazioni sindacali, sarebbe quanto meno
opportuno che i sindacati fossero materialmente vicini a questi lavoratori
quando vengono sgomberati dalle loro case o devono fare i conti con le retate
della polizia.
A prevalere invece sono le immancabili preoccupazioni legalitarie, anche quando
in ballo ci sono i destini di esseri umani; basti pensare alle centinaia di
vittime in mare di questi mesi, non ritenute degne neanche di un minuto di
sciopero in segno di solidarietà.
Per ragioni altrettanto legalitarie, la posizione sulla misura poliziesca del
prelievo delle impronte digitali che secondo il centro-sinistra dovrebbe essere
estesa obbligatoriamente a tutti, dando l'avvallo ad un'ulteriore schedatura di
massa.
Inoltre le critiche sindacali e di certa sinistra nei confronti della nuova
legge voluta dal governo Berlusconi mostrano preoccupanti assonanze con quelle
dei settori padronali avidi di manodopera sottocosto.
Non si possono infatti sostenere i diritti di cittadinanza contro le nefandezze
leghiste, e magari anche la disobbedienza civile, legandolo comunque alla
"compatibilità" dell'immigrazione con le richieste di forza lavoro da
parte degli industriali o delle aziende agricole, sostenendo che "il mercato ha
i mezzi per regolare i flussi" (come affermato ad esempio dal noto sociologo
verde e prosindaco di Mestre Gianfranco Bettin, Il Gazzettino 16.09.02), salvo
poi urlare che gli esseri umani non sono merci.
Se infatti è vero, come annotava Marx, che "la domanda di uomini regola
necessariamente la produzione di uomini, come di qualsiasi altra merce" non
bisogna mai dimenticare COME il capitale è solito regolarla.
La legge del profitto non è meno inumana della Bossi-Fini.
Emblematico il "mercato dei contratti" di queste settimane in cui padroni e
padroncini stanno estorcendo agli operai immigrati da 200 a 1000 Euro, oltre la
quota contributi, per compilare il modulo di richiesta di regolarizzazione.
Le prospettive quindi delle lotte connesse alla questione dell'immigrazione,
appaiono ancor più legate al più generale conflitto sociale ed
anzi ne sono parte integrante; di questo ne devono prendere atto in primo luogo
gli antirazzisti coerenti: più che reclamare un uomo-un voto è il
caso di riaffermare una classe-una lotta.
C. Donatelli
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