![]() Da "Umanità Nova" n. 34 del 20 ottobre 2002 la Fiat è dei lavoratori!La deflagrazione della crisi Fiat non può certo essere considerata una sorpresa. Era chiaro fin da subito che il tunnel imboccato oltre due anni fa con l'accordo parziale con GM avrebbe portato nel tempo ad una cessione dell'intero settore auto agli americani. Tuttavia ben pochi avrebbero potuto immaginare che il passaggio sarebbe avvenuto in modo così drammatico e a costi sociali così dolorosi. La crisi è precipitata nell'ultimo anno in maniera imprevedibile, con la totale incapacità dell'azienda torinese di agganciare anche il minimo spiraglio di ripresa delle vendite sui mercati mondiali, in particolare quelli europei. La quota di mercato del gruppo è inesorabilmente scesa sotto il 30% del mercato italiano e sotto il 7% di quello europeo, con una impennata irresistibile delle perdite operative. Di tutti i commenti che ci è toccato sentire in questi giorni, il più appropriato mi sembra proprio quello dell'ex-capo del Consiglio di fabbrica dell'Alfa di Arese, che richiesto di commentare la proposta bertinottiana di nazionalizzare l'azienda, ha risposto che in realtà andrebbe requisita, visto che lo Stato italiano l'ha già pagata almeno tre volte: il problema però è cosa farsene dopo, visto che negli ultimi sei mesi ha perso 1.600 miliardi di lire, qualcosa come 10 miliardi al giorno! L'accelerazione della crisi si può datare tra aprile e settembre: in aprile infatti comparvero i primi articoli allarmati sulla stampa economica internazionale, che commentavano negativamente il perdurare delle perdite anche nel primo trimestre 2002; a maggio si arrivò ad una prima rinegoziazione del debito con le principali banche e alla successiva sostituzione di Cantarella alla guida del gruppo; a giugno hanno tentato di salvare la relazione sul primo semestre con la vendita a fermo di una quota Ferrari a Mediobanca (il 34%), a settembre si è giunti al capitolo finale con l'esplodere definitivo della situazione. La nomina di Galateri di Genola al posto di Amministratore Delegato, interpretata in un primo tempo come un'assunzione di responsabilità diretta da parte di Ifi e Ifil (Umberto Agnelli) del compito di risanare il gruppo per consegnarlo in ordine alla GM (spuntando il massimo), può adesso essere letta in chiave diversa: un ruolo da liquidatore di fiducia di quel che resta da vendere. La crisi della Fiat costringe di colpo a pensare allo stato industriale del paese, davvero preoccupante. Come ha ricordato nei giorni scorsi Augusto Graziani, lo smantellamento industriale procede di un altro passo, dopo la fine della chimica, della farmaceutica, dall'informatica, di larga parte dell'industria alimentare e della grande distribuzione. Le uniche realtà solide restano Enel ed Eni, cioè due aziende (come dice Turani) di semi-monopolio a proprietà semi-pubblica. Il resto delle aziende statali è stato privatizzato negli ultimi dieci anni, con un incasso record di 97 miliardi di euro, quasi tutti realizzati nei quattro anni del centrosinistra (1997-2000). L'effetto sul debito pubblico è stato quasi insignificante, visto che a luglio si è toccato il nuovo record di 1.386 miliardi di euro. Adesso ci tocca anche sentire, e da quali pulpiti, le reprimende per la deindustrializzazione del paese, come se non bastassero cento anni di totale subalternità dello stato alla Fiat, per aiutarla in ogni modo, da parte di maggioranze di governo di ogni colore. In questo secolo lungo la dinastia degli Agnelli ha governato e spadroneggiato per tre generazioni, schiacciando qualunque ipotesi alternativa di sviluppo industriale, imponendo il proprio modello di mobilità e di trasporto, plasmando la società a sua immagine e somiglianza, combattendo con ogni mezzo gli oppositori sindacali e politici. Le migliaia di operai licenziati negli anni '50, le decine di migliaia di cassintegrati negli anni '80 (diverse centinaia si suicidarono) bastano da soli a ricacciare indietro qualunque tentazione di rimpianto. Tuttavia occorre riconoscere che la Fiat è stata a lungo, e fin dalla sua nascita, un luogo simbolo della lotta operaia, il luogo dove sembrava si dovesse confrontare il punto più alto dello sviluppo del capitale con la parte più combattiva del movimento operaio, una sede privilegiata da cui doveva scaturire la direzione dello sviluppo dei rapporti sociali. Questo schema di ragionamento è ormai datato, è finito da oltre 20 anni, da quando la crisi dell'80 si è conclusa con la massiccia espulsione dalla fabbrica (una fabbrica "ingovernabile" per oltre un decennio) di tutte le avanguardie di movimento e di tutta la forza lavoro considerata fuori linea. Chiunque abbia tentato di riprendere in questi anni l'iniziativa politica o sindacale alla Fiat ha dovuto fare i conti con l'impossibilità di "rientrarvi": il peso di una sconfitta storica per la generazione dei vecchi, il peso del ricatto e della precarietà per la generazione dei giovani, hanno sempre impedito una vera rinascita. Tutto questo tuttavia appartiene al passato, appartiene alla storia: la realtà di oggi snocciola le cifre di una crisi che ci arriva addosso tutta insieme, con conseguenze pesanti su ogni settore territorialmente o produttivamente contiguo alla fabbricazione di automobili. Le richieste Fiat sono note: chiusura di Arese e Termini Imprese, cig per Mirafiori, 8.100 persone in cassa integrazione e mobilità breve (senza alcuna garanzia di rientro), oltre ai 3.000 già espulsi con gli accordi di luglio. Si tratta di un terzo dei lavoratori ancora direttamente in carico a Fiat Auto. Rischiano il posto almeno 40-50.000 addetti dell'indotto, che solo in Provincia di Torino comprende oltre 1.000 aziende. Il tracollo finanziario della Fiat rischia di tirarsi dietro anche le principali banche ed il sistema del credito, facendo crollare i consumi di aree territoriali già depresse da fenomeni precedenti di debolezza produttiva. Cosa accadrà adesso? Sarebbe troppo comodo pensare che i principali protagonisti di questa esperienza fallimentare si facessero da parte. Esaurita ogni illusione sulla responsabilità sociale dei capitalisti (una illusione presente solo nella testa degli storici e dei teorici prezzolati, che la famiglia Agnelli non ha mai contribuito ad alimentare), resta da vedere chi si prende, quando e a quale prezzo, la responsabilità di individuare una via d'uscita. I problemi della Fiat sono strutturali, legati alla forte competitività di un settore che richiede enormi investimenti in ricerca e sviluppo, buoni dosi di creatività nel design, un sistema produttivo di qualità e una forte rete di commercializzazione e assistenza. Tutti elementi che a Fiat sono sempre mancati: una volta scardinato il suo ruolo privilegiato sul mercato nazionale e calati gli aiuti pubblici per la stringente normativa Cee, il destino dell'azienda era segnato. Il governo cercherà in qualche modo di attutire l'impatto sociale della crisi, sebbene la resistenza a concedere la mobilità lunga e le dichiarazioni roboanti contro gli errori dei vertici Fiat denuncino un atteggiamento un po' singolare da parte di alcuni ministri. Tuttavia non sarà negato il ricorso ai soliti incentivi ecologici e l'utilizzo di una batteria di provvedimenti già sperimentati in passato, dai contratti d'area, agli interventi usati per la siderurgia, dal sostegno alla ricerca, al finanziamento della formazione professionale per la riconversione dei lavoratori. Quanto al sindacato, è evidente che il problema principale è garantire la sopravvivenza fisica e produttiva del maggior numero di espulsi. Si tratta di mettercela tutta per vendere cara la pelle: come sempre ci saranno i soliti Fim, Uilm e Fismic rassegnati a firmare qualunque cosa l'azienda proponga, ed una Fiom più rigida nella difesa dei posti di lavoro, ma tutti unitariamente si muovono nel contesto dato, costruito dalla controparte, cioè nell'orizzonte del ridimensionamento produttivo, organizzato attorno ai principi guida del mantenimento delle produzioni e la riconversione ecologica. La presenza del sindacalismo di base in molte delle fabbriche del gruppo, nonostante i livelli storicamente molto alti di repressione anti-sindacale di un sistema da sempre incarnazione dell'autoritarismo più spietato, lascia ben sperare nella vivacità della mobilitazione in corso. Quanto alla proprietà, si può dire che sia in pieno movimento. La soluzione preferita sembra quella già usata per Italenergia: costituire una nuova società con un accordo a tre, a cui la Fiat apporterebbe gli impianti, le banche, le fondazioni bancarie, lo stato e gli enti locali apporterebbero i capitali, la General Motors la garanzia di un forte partner industriale estero capace di subentrare a risanamento avvenuto. In questo modo l'attuale proprietà si garantirebbe un buon futuro senza tirare fuori una lira: vendere ora significherebbe incassare niente, vendere alla GM entro il 2004 (usando la put in mano agli Agnelli) non lascerebbe abbastanza tempo per un risanamento apprezzabile; vendere più tardi possibile (magari nel 2006) potrebbe invece lasciare spazio ad una miracolosa ripresa. In questo modo Fiat scaricherebbe sullo stato, sugli enti locali e soprattutto sulle banche l'onere di tenere in piedi la baracca e finanziare la ristrutturazione, mentre la GM avrebbe modo di riflettere bene prima di compiere il passo definitivo e prendersi tra qualche anno un'azienda "ripulita". L'ipotesi di una "nazionalizzazione" della Fiat, buttata lì come provocazione da parte dell'estrema sinistra statalista, rientra così come proposta operativa apprezzata dai manager Fiat per traghettare l'azienda su sponde sicure, a spese dello stato e a beneficio di GM. D'altronde la GM e la Fiat qualcosa in comune, in questo decennio, l'hanno già avuto: l'avere dimezzato l'organico. La GM è infatti scesa da 767.000 dipendenti a 365.000 nel decennio 1990-2001, mentre Fiat da 303.000 è calata a 198.000, nello stesso periodo in cui Vw e Peugeot aumentavano gli occupati e Ford e Renault li riducevano di poco. Una cura draconiana che ha permesso sia GM che a Fiat di triplicare il rapporto tra fatturato e dipendenti. La Fiat dunque sopravviverà ancora quel tanto che basta per lucrare allo stato quel paio di miliardi di euro che vanno ad aggiungersi ai 5 già erogati a vario titolo nel corso decennio, finendo direttamente nelle tasche degli azionisti sotto forma di dividendi. Alla GM basterà integrare, a cose fatte, le sue due consociate europee (Fiat e Opel) per dotarsi di una efficiente struttura di produzione e distribuzione nel continente. Ai lavoratori Fiat sopravvissuti (produttivamente parlando) non toccherà forse la sorte peggiore, se saranno integrati nel sistema "confederale" di GM: meglio un padrone americano dotato di futuro, che un padrone italiano esangue in via di estinzione. Per il sistema paese è la conferma di essere sul punto di passare nella categoria dei sistemi industriali di secondo rango, visto che progettazione e direzione strategica di processi ad alto valore aggiunto saranno presumibilmente trasferiti al di fuori dei confini nazionali. Data la gracilità del capitalismo nostrano e le scelte governative in campo di istruzione, ricerca, innovazione e sviluppo, è un esito scontato: una parabola discendente in una traiettoria obbligata. Renato Strumia
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