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Da "Umanità Nova" n. 36 del 3 novembre 2002

Salgono i prezzi, scendono salari e occupazione
Il conflitto sociale è il miglior investimento

Le cifre provvisorie sull'aumento dei prezzi rilevati nelle città campione e diffuse il 22 ottobre scorso ci hanno resi edotti sul fatto che sta tornando l'inflazione. Certo non l'inflazione galoppante, a due cifre, che ha sconvolto la distribuzione della ricchezza nel nostro paese dal 1970 al 1983, né quella insidiosa della prima metà degli anni '90, ma comunque un aumento dei prezzi tendenziale che si piazza, inaspettatamente, nel pieno di una fase recessiva. Il dato di ottobre parla di un aumento tendenziale, su base annua, del 2,7%, in aumento dal 2,6% del mese prima, una circostanza che non si verificava dall'agosto 2001. Subito si sono scatenate le polemiche su cause, origini, protagonisti e beneficiari del rialzo dei prezzi, mentre il governo in carica, per mano del Ministro delle Attività Produttive Antonio Marzano, si incaricava di tranquillizzare gli animi parlando di "fattori stagionali". Del resto è dall'inizio dell'anno che viene riproposta questa solfa e sarebbe davvero autolesionistico, da parte del governo, accettare la sconfitta decretata sul campo nella lotta all'inflazione: il decreto blocca-tariffe, varato a settembre, con durata 90 giorni, non è, evidentemente, servito a niente. Semmai, si può prevedere che una volta scaduta la sua validità, i prezzi dei servizi sottoposti a vincolo recuperino tutto il tempo perduto, innescando una bella impennata generale.

L'inutilità di queste misure nel lungo periodo, in un contesto di economia di mercato, è dimostrata peraltro almeno da quando sono state avanzate le prime proposte in tal senso, dai lontani anni '30. Ogni proposta di politica dei redditi, storicamente, ha sempre cercato di imbrigliare la pressione salariale dei lavoratori organizzati, offrendo come contropartita un blocco (o una limitazione sorvegliata) delle tariffe e dei prezzi, e talvolta (nelle versioni più spinte) anche dei profitti d'impresa. L'esperienza storica si è incaricata di dimostrare che funziona sempre la prima parte del ragionamento (il blocco dei salari), mentre la dinamica dei prezzi segue incessantemente la propria strada, recuperando tutto lo spazio perduto nei (brevi) periodi di contenimento.

È impossibile infatti conciliare obiettivi politici contrattati e dinamiche economiche di mercato, in un contesto dove esiste un forte squilibrio di potere contrattuale ed una piena vigenza di criteri liberisti nell'organizzazione del sistema economico. Qualcosa può cambiare (e storicamente è avvenuto) soltanto nelle fasi di grande mobilitazione collettiva, quando i rapporti di forza sono alterati rispetto al loro corso naturale. In queste fasi, e nelle fasi successive, l'inflazione gioca un ruolo importante nel "riportare le cose a posto".

Per restare al caso italiano, possiamo provare a individuare le differenze che separano la fase della grande inflazione degli anni '70 dalla fase attuale, facendo un salto all'indietro di circa 30 anni:

l'inflazione degli anni '70 era dovuta principalmente a shock dal lato dell'offerta, in particolare l'anomala impennata dei salari successiva all'autunno caldo e il permanere di un conflitto sociale elevatissimo per oltre un decennio, coniugata con un forte rialzo del prezzo del petrolio e delle altre materie prime;

per recuperare i margini di profitti estremamente compressi, il capitale varò la "strategia dell'inflazione", che correggeva la precedente redistribuzione del reddito, erodendo il potere d'acquisto di salari, pensioni e rendita e risollevando le sorti del profitto: i capitalisti si riprendevano i soldi che erano stati costretti a concedere sotto la pressione delle lotte;

capita l'antifona, il movimento operaio chiese ed ottenne un sistema di indicizzazione dei salari (scala mobile) che arrivava ad amplificare il recupero per i redditi più bassi, raggiungendo persino effetti redistributivi egualitari nei contesti di maggiore inflazione: la scala mobile divenne il principale totem da sacrificare sull'altare del profitto, una volta ristabiliti i rapporti di forza;

in un contesto di forte incertezza economica e politica, la politica fiscale divenne erratica, alternando fasi espansive (per assorbire la pressione sociale) a fasi restrittive (per arginare il rialzo dei prezzi), ponendo le basi per una forte impennata del deficit pubblico, che estese i suoi effetti più macroscopici negli anni '80 e divenne in breve tempo esso stesso causa e sorgente d'inflazione, con l'obiettivo di svalutare in termini reali la massa del debito statale ormai contratto;

la politica monetaria si diede il compito di tenere insieme il sistema, attraverso una strategia di alti tassi d'interesse, controlli sui movimenti di capitale e continue svalutazioni del cambio (anni '70); acquistata una maggiore autonomia dal potere politico, la Banca d'Italia guidò il paese nello Sme, sospendendo la politica di svalutazione, mantenendo alti i tassi e aprendo gradualmente i movimenti di capitali con l'estero (anni '80).

Come si uscì da quella situazione, è storia nota. Gli anni '90 sono stati spesi per correggere tutte le anomalie prodotte nel ventennio precedente, sia sul piano dei rapporti di forza tra le classi, sia sul piano della finanza pubblica. L'aggiustamento dei conti è stato giustificato politicamente con l'ingresso in Europa, e il patto sociale è stato lo strumento principale attraverso cui ottenere il consenso dei lavoratori ai sacrifici necessari: la scala mobile era già caduta tra il 1984 ed il 1986.

La proposta Tarantelli di determinare ogni anno, tra governo, industriali e sindacato, il tasso d'inflazione programmata, avanzata per la prima volta nel 1981, è diventata realtà effettiva dopo qualche anno e suggellata come cornice assoluta della contrattazione sindacale nel luglio 1993.

È evidente che questa subalternità dei salari alle esigenze dell'economia (la versione finale della famosa intervista di Lama a Repubblica nel 1976 sul salario come variabile dipendente) è stata la principale risorsa dei governi di centro-sinistra nel guidare il paese nel grembo europeo. L'inflazione programmata, quella ufficiale e quella effettiva sono tre elementi ben distinti, che hanno sistematicamente ridotto il salario reale per quasi un decennio, dopo il patto del '93. L'unico elemento positivo, se così si può dire, è stata la progressiva riduzione del danno: visto che la dinamica dei prezzi, a forza di fare, era scesa davvero, lo scarto tra salario effettivo e inflazione reale si era fatto negli anni più contenuto, attutendo l'impatto della redistribuzione del reddito. I salariati ci perdevano ancora, ma progressivamente di meno.

Tutto questo però oggi non regge più, per almeno tre motivi:

l'inflazione è ripartita, i salari no.

La pressione fiscale è aumentata, perché nonostante sia stato fermato il "fiscal drag" a livello centrale, è cresciuta l'imposizione fiscale degli enti locali attraverso le varie addizionali regionali, provinciali, comunali, la revisione delle aliquote Ici, l'istituzione di tasse di parcheggio in ogni zona dei centri urbani, la monetizzazione di ogni servizio prestato in ambito pubblico;

La qualità dei servizi pubblici è in costante deterioramento e peggiorerà man mano che cresce il disimpegno del governo centrale, a favore del "federalismo fiscale". La conseguenza è che una quota crescente del reddito andrà a finanziare prestazioni necessarie non più coperte dal servizio pubblico, a partire da scuola, sanità e previdenza.

L'aspetto più inquietante dell'attuale recessione economica è la contemporanea presenza di fattori non abituati a coesistere: diminuzione di occupazione e produzione, abbassamento dei tassi d'interesse, crollo delle quotazioni azionarie, flessibilizzazione del mercato del lavoro, ripresa dell'inflazione. In passato si alzavano i tassi per frenare una eccessiva domanda aggregata, che in presenza di rigidità salariali e consumi esagerati, faceva salire i prezzi e l'inflazione: quindi la recessione veniva provocata appositamente per raffreddare l'economia. Adesso i politicanti invitano al consumo, le banche centrali abbassano i tassi, i governi "fluidificano" il mercato del lavoro, e l'economia risponde con una ulteriore contrazione, gli investimenti crollano, i consumi si fermano, mentre i prezzi riprendono a salire.

Poi possiamo perdere del tempo andando a scandagliare le cause dell'aumento dei prezzi di ottobre: le gelate o le piogge che hanno rovinato i raccolti ortofrutticoli, la tensione sul prezzo del petrolio, gli arrotondamenti del changeover da lira ad euro, i rincari dovuti al cambio di stagione per abbigliamento e calzature, il rialzo delle tariffe per trasporti e tlc, e così via. Evidentemente sono fattori che contano, così come la dispersione della rete distributiva commerciale italiana: non ci sembra però che gli ipermercati francesi rinuncino ai propri margini di guadagno.

In conclusione ci sembra si poter sottolineare tre cose:

a fronte di un'inflazione programmata al 1,7% per il 2002, viaggiamo su un livello di almeno un punto superiore, cioè verso il 2,7% tendenziale. Per il 2002 il governo "propone" l'1,4% mentre quasi sicuramente ci attesteremo attorno al 3%: la Cgil di lotta e di governo chiede l'inflazione reale, la Uil (più prosaicamente) chiede l'inflazione "credibile". Non c'è da fidarsi di chi dà così tanti numeri.

La strategia del patto sociale ha sicuramente ridotto il potere d'acquisto reale, ma quello che può accadere in futuro, a seguito della contrazione della spesa pubblica, l'invarianza della pressione fiscale e la riduzione delle prestazioni sociali è ben altra cosa rispetto a quello che abbiamo già sperimentato.

Il blocco del conflitto in tutti questi anni ha permesso di fermare, temporaneamente, la crescita del debito pubblico, ma non ha fornito alcuno stimolo allo sviluppo capitalistico, che si trova in una fase di stallo assai pericolosa.

Fatto salvo che obiettivo strategico per il movimento operaio non è il controllo dell'inflazione, ma semmai il controllo sulla redistribuzione del reddito che l'inflazione comporta e consente, mi sembra di poter dire che da questa situazione si esce solo con una forte ripresa dell'autonomia contrattuale (e conflittuale) delle classi subalterne, le sole in grado di costringere, con la forza, il capitale a cercare nuovi orizzonti di crescita. Lavorare per questa prospettiva è, per noi, il miglior investimento possibile.

Renato Strumia

 



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