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Da "Umanità Nova" n. 37 del 10 novembre 2002

Orgoglio e pregiudizio
Quando "l'orda" eravamo noi

1967. Assieme ad altri quattro ruspanti romagnoli, passeggio per il parco divertimenti di Oslo. Siamo ben vestiti, come possono esserli cinque mezzi fighetti di buona famiglia negli anni sessanta. Siamo puliti, non parliamo a voce alta, gesticoliamo il giusto. Passano alcune ragazze, ci squadrano e commentano. Capiamo solo: marukkish, marukkish. Ma come? pensiamo, non siamo mica meridionali, siamo del nord Italia, noi!

1973. Nella notte nordafricana, prendo un passaggio da un muratore di Orano rientrato in patria dopo alcuni anni di lavoro in Francia. Chiacchieriamo, lui è stato in Provenza dove aveva per compagni, fra gli altri, anche numerosi italiani. Rital, li chiama spregiativamente una prima volta, poi, proseguendo nella conversazione, si lascia andare al classico macaronì. Ci resto male. Ma lui non capisce che potrebbe offendermi, tanto gli è naturale parlare degli italiani in questi termini.

Fortunatamente non mi è mai successo di dover espatriare per motivi di lavoro. Quando l'ho fatto è stato solo per turismo, un turismo più o meno straccione e avventuroso, ma pur sempre turismo. Quindi non ho avuto la sorte di assaggiare, in forme più palpabili, il diffuso razzismo, fatto di disprezzo o di carità pelosa, con il quale, ovunque si recasse, ha dovuto e deve convivere l'emigrante italiano.

Mi sono venuti in mente questi due episodi, leggendo il libro di un giornalista del Corriere della Sera, L'orda. Quando gli albanesi eravamo noi di Gian Antonio Stella, appena uscito per i tipi della Rizzoli. Niente di eccezionale, per carità, anzi c'è addirittura un discutibile capitolo (pur se per nulla infame) dedicato a quando l'Italia esportava non solo siciliani miserabili o trevigiani rozzi e primitivi, ma anche "pericolosissimi" terroristi anarchici. Un merito, però, questo libro l'ha sicuramente, ed è quello di invitare a riflettere su come la percezione della differenza razziale, etnica, religiosa che dir si voglia, sia uno dei fatti più aleatori e inconsistenti tra quelli che caratterizzano il pensare comune di un popolo. E come, ma questo già lo sapevamo, la malapianta del razzismo e della xenofobia possa malignamente ritorcersi anche contro quanti amano servirsene per accondiscendere alle proprie miserie morali.

Ne L'orda (titolo che volutamente ricalca un famoso manifesto leghista raffigurante una stracolma carretta del mare e intitolato No! L'orda no!), infatti, l'autore riporta, con ostinata puntigliosità, tutti i pregiudizi, i luoghi comuni, le preclusioni, le violenze, le esclusioni, le offese, le infamie, le ingiustizie, cui andarono soggetti i nonni, i padri, i fratelli di quegli stessi italiani che oggi, di fonte alla "invasione del patrio suolo" da parte delle povere masse lavoratrici del sud del mondo, blaterano di difesa della razza e di perdita dell'identità nazionale.

È impressionante vedere, nei tanti esempi che riporta Stella, come la storia si ripeta. E come si ripeta nei suoi aspetti peggiori. È una lunga teoria di offese, emarginazioni, violenze morali o drammaticamente fisiche, che arrivano addirittura al linciaggio, e che nascono tutte dal rifiuto di comprendere, per non dire accettare, le ragioni dell'altro. "Non palesemente neri" venivano definiti i nostri connazionali nei paesi del profondo sud americano, scuri, bruni e magari col mandolino invece del banjo, ma appena mezzo gradino sopra ai neri afroamericani. E come tali nemmeno degni di ricevere trattamenti giuridici identici a quelli degli altri europei. Disprezzati nei rigidi paesi luterani per il loro cattolicesimo pagano e superstizioso, emarginati dai compagni di lavoro per la frequente opera di crumiraggio (la fame era tanta e la voglia di uscirne immensa), temuti come sicuri mafiosi anche se erano montanari piemontesi, nascosti per essere entrati clandestinamente nel paese d'elezione (è sconvolgente apprendere che, nei vicinissimi anni settanta, oltre trentamila bambini italiani vivevano ancora reclusi in casa per non essere scoperti dalle autorità svizzere), ovunque, senza distinzioni, senza differenze, gli italiani erano sommersi da un odio razziale che trovava ben pochi paragoni rispetto alle altre comunità.

Purtroppo, come dicevo poc'anzi, se la storia si ripete, lo fa nelle sue forme peggiori. E infatti oggi, in questa civilissima Italia firmata e griffata, in questa "sesta potenza industriale" (ma quando mai?), in questo paese che si permette di guardare dall'alto in basso chi viene a svendere la propria forza lavoro per mandare il salario dall'altra parte del mondo, ci ritroviamo ad avere a che fare, giorno per giorno, con i peggiori arnesi del fanatismo e dell'intolleranza. Con una manica di mascalzoni, tanto violenti e aggressivi quanto miserabilmente ignoranti, che ritrovano nelle parole dei vari Borghezio e Gentilini la "altezza" del loro pensiero. Quella stessa che caratterizzava gli abitanti dei paesi nei quali gli ascendenti del 90% di noi italiani andavano a cercare una vita appena migliore.

È desolante constatare come sia facile passare, in brevissimo tempo, dall'immagine degli "italiani brava gente" (anch'essa consunta e logora, comunque) a quella, rasata e ingiubbonata, dei razzisti nostrani. E come questa avanguardia del peggiore razzismo possa rappresentare, nonostante tutto, così gran parte della nostra società. Meno violenta, di certo, meno estremistica, ma altrettanto ferma nella convinzione di dover ricacciare in mare le nuove orde di barbari.

Non è risultato da poco, quello di Stella, l'aver documentato come sia labile e fragile il confine fra tolleranza e intolleranza, come sia addirittura banale cadere nella demagogica presunzione della superiorità e inferiorità razziale. E, aggiungiamo noi, come solo una coscienza che nasce nella solidarietà fra oppressi e sfruttati possa arginare questa deriva.

"Un mondo di fratelli, di pace e di lavor" cantavano e cantano gli anarchici. "Volli un tetto per ogni famiglia, un pane per ogni bocca, una educazione per ogni cuore, la luce per ogni intelletto" scriveva Bartolomeo Vanzetti poco prima di sedersi sulla sedia elettrica. Questa bella citazione del vecchio Bart ce la regala Stella, a conclusione del suo lavoro. Ci fa piacere.

Massimo Ortalli

 



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