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Il nostro forum è il mondo intero!
Inserto del n. 37 del 10 novembre 2002 di Umanità Nova, settimanale
anarchico
Anarchici e no-global
Parabola di un movimento
"Il mondo che vogliamo e per il quale scendiamo in piazza non trae la
propria legittimità dai codici e dai trattati ma si radica nella
capacità di autogestione ed autogoverno. Senza barriere, senza
frontiere, senza stati. Un mondo da abitare solidalmente, non un territorio da
controllare, depredare, asservire agli interessi di pochi. Un'utopia ben
più concreta di quella che pretende di coniugare libertà e
democrazia."
Eleonora in Umanità Nova n. 27, 22 luglio 2001
L'emergere sulla scena politica e sociale di vasti movimenti di contro
globalizzazione è stata la grande novità degli ultimi anni: da
Seattle in poi sono balzati con prepotenza sulla scena pubblica, ridando fiato
e spazio di visibilità politica a movimenti extrasistemici radicali.
I vari incontri per "l'Umanità e contro il neoliberismo" promossi dal
movimento zapatista contribuiscono all'allargamento delle prospettive, alla
creazione di relazioni, rapporti, reti internazionali. Abbiamo assistito al
tentativo di dar vita ad movimento inedito, capace di superare sia la tendenza
alla frammentazione e al "particulare" tipica degli anni '80 sia l'afflato
universale ma poco attento alle questioni ed alle culture locali caratteristico
del decennio precedente. Tuttavia un esame più attento dei movimenti
sviluppatisi in questi ultimi tre anni, al di là dell'avvincente
dichiarazione programmatica dell'unità nella diversità, della
pluralità delle lotte e dei percorsi nelle mobilitazioni, rivela che
molti nodi restano irrisolti. E non è, come ritengono alcuni, una mera
questione di "stile". In gioco non è tanto la strategia di piazza
preferita quanto la prospettiva delle lotte. In altri termini l'elemento che
tende a colpire i più, ossia le azioni di piazza, è alla fin fine
la questione meno interessante perché il "blocco nero" o la "resistenza
nonviolenta" fanno parte dello spettacolo mentre i contenuti restano spesso
sullo sfondo. Ci chiediamo ad esempio quale futuro potrà avere un
movimento che vede al proprio interno sia le componenti postmoderne che quelle
antimoderne, quelle laiche ma anche, hainoi, quelle religiose, quelle
internazionaliste ma, insieme, quelle nazionaliste.
I nodi vengono al pettine e non crediamo sarà facile scioglierli
perché toccano questioni cruciali. La rivolta contro la logica
annichilente della merce, la rabbia per la distruzione ambientale, il crescente
divario tra chi ha troppo e chi nulla sono alla radice di questi movimenti, che
se da un lato paiono schiudere le porte ad una prospettiva laica e libertaria
tuttavia al contempo ridanno spazio a miti delle origini e ansie mistiche,
tanto più pericolose quanto più simili a quelle analoghe cui da
voce la destra più profonda.
Su di un altro versante sempre meno ricomponibili appaiono le fratture tra le
tendenze stataliste e neowelfariste e quelle autogestionarie. Per le prime il
solo antidoto efficace alla globalizzazione è nel rafforzamento degli
stati nazionali e nella ripresa di politiche (neo)socialdemocratiche; le
seconde puntano invece su pratiche di opposizione alla logica capitalista
sostenendo la radicale antitesi tra prassi autogestionaria e ambito statuale.
È immediatamente evidente che non si tratta di questioni di poco conto e
la scelta di una prospettiva rispetto ad un'altra ha determinato orientamenti,
alleanze a breve e lungo periodo, strategie di intervento, che fuori dalle
contestazioni di piazza, hanno aperto orizzonti assai diversi e presumibilmente
divaricati.
Le tante anime dei movimenti di contro globalizzazione sono riuscite a
convivere nella loro fase aurorale ma, da Genova in poi, lo scontro tra aree
riformiste, fautrici di una "moralizzazione" dei processi di globalizzazione ed
aree radicali, convinte dell'urgenza di una politica anticapitalista ed
antistatale si è fatto sempre più aspro. Nel nostro paese, dove
il peso delle tradizioni politiche della sinistra moderata è ancora
forte, e dove questi movimenti, sia pur tardi, hanno assunto dimensioni ben
più ampie di quelle di altri paesi, il tentativo egemonico delle aree
moderate, attuato attraverso buona parte dei Social Forum locali e,
soprattutto, attraverso il partito-non partito, l'Italian Social Forum, passa
anche attraverso la marginalizzazione e la criminalizzazione delle aree
radicali e libertarie.
La vergognosa operazione di fare dell'area anarchica tutt'un blocco, magari
"nero", di infiltrati e poliziotti, portato avanti sin dalle tragiche giornate
di Genova, è clamorosamente fallito. Ma soprattutto è fallita la
costruzione di una sorta di "partito no-global" che riassumesse e
rappresentasse l'intero movimento. Se a ciò si aggiungono i diversi e
confliggenti interessi dei vari attori in gioco, incapaci di dar vita ad una
struttura che fosse qualcosa di più di un litigioso intergruppi,
cominciamo ad avere un quadro più chiaro. Nel luglio genovese del 2001
Rifondazione è stata disponibile, pur fornendo un apporto considerevole
alla riuscita delle manifestazioni, ad assumere un ruolo formalmente defilato
ma nelle fasi successive ha fatto pesare sempre più la propria macchina
organizzativa. Inoltre la nascita di un fronte di opposizione antigovernativo,
se da un lato ha visto vaste mobilitazioni di piazza, dall'altro ha reso
possibile un, sia pur parziale, riavvicinamento tra Rifondazione e settori
dell'Ulivo a scapito di una radicalizzazione dei contenuti del percorso
no-global, che si è vieppiù appiattito sulle esigenze della
politica istituzionale nostrana. La stessa "scesa in campo" della CGIL per
l'appuntamento di Firenze è chiaro indicatore del tentativo di ridurre
la critica antiglobalizzatrice a mero supporto del tentativo di ricostruzione
di un'opposizione antigovernativa di segno moderato.
Le decine di migliaia di persone che intorno all'appuntamento genovese e poi
nei mesi successivi si erano avvicinate da protagoniste all'agire politico e
sociale, partecipando sì ai cortei, ma anche al dibattito nei vari
Forum, sia fisici che virtuali, sorti un po' ovunque, si sono pian piano
ritrovate ai margini di un processo decisionale definitivamente avocato a se da
risicate minoranze di politici di professione.
L'eccessiva spettacolarizzazione voluta da alcuni settori, come i
Disobbedienti, finisce col mostrare la corda quando l'armamentario di "trovate
pubblicitarie" tende ad esaurirsi. D'altro canto le "dichiarazioni di guerra"
virtuali della premiata ditta Casarini & C. si sono infrante tragicamente
di fronte alle pallottole di piombo sparate a Genova da carabinieri e
questurini, di fronte alle botte, alle torture, alle detenzioni illegali, di
fronte al massacro della Diaz. Ci è poi voluto l'11 settembre e la
guerra in Afganistan per chiarire anche ai più incalliti amanti della
farsa che il gioco feroce dei potenti si era fatto dannatamente reale. Di
fronte alla guerra, alla militarizzazione della società ed al
contestuale tentativo di equiparare no-global e terrorismo il movimento ha dato
i primi segnali di incertezza, di incapacità di esprimere in modo forte
la propria opposizione. In quell'occasione sarebbe stato necessario un salto di
qualità, la capacità di dar vita ad iniziative internazionali
coordinate capaci di smontare la prodigiosa macchina propagandistica messa in
campo dei signori della guerra, ma per tutti i mesi dell'offensiva americana in
Afganistan il movimento è apparso per lo più sulla difensiva.
In quanto al resto crediamo bastino i risibili risultati elettorali delle liste
"Disobbedienti" alle ultime amministrative per comprendere che la critica e la
volontà di trasformazione espresse dal movimento no-global sono
difficilmente riassorbili in ambiti istituzionali, sia pur travestiti da
esperienze municipaliste, e che il processo di reistituzionalizzazione del
movimento operato dell'Italian Social Forum incontra sempre più
resistenze.
I movimenti no-global hanno fatto riemergere il protagonismo di piazza. Una
piazza che ri-diviene luogo pubblico, spazio della critica e della rivolta,
luogo di una presenza diretta non delegata di persone che prendono in mano la
facoltà politica, fuori e contro i tragicomici teatrini della democrazia
parlamentare.
È la piazza fisica nella quale si esprime la ribellione e lo scontro
contro i poteri costituiti ed è la piazza virtuale nella quale si
colloquia con il mondo intero. È una piazza nella quale agiscono attori
diversi: da chi esprime una rivolta radicale ma nichilista come il Black Bloc,
a chi insegue forsennatamente la visibilità mediatica, e, perché
no, una poltrona (oggi in qualche consiglio comunale e tra qualche tempo,
chissà, in parlamento).
Questi movimenti esprimono oggi un disagio difficilmente riassorbibile da
ambiti istituzionali ma al cui interno si va purtroppo consolidando una
reistituzionalizzazione che passa attraverso il controllo di una leadership in
buona parte informale ma a maggior ragione sempre più potente ed
indiscussa ed indiscutibile. I vari "rappresentanti" o "portavoce" che da
Genova in poi si stanno arrogando il diritto di rappresentare quello che
pomposamente è stato ridefinito "Movimento dei movimenti" non paiono
altro che la riedizione, in salsa zapatista, dei vecchi intergruppi.
La parabola iniziata nel profondo della selva Lacandona nell'ormai lontano
1994, sviluppatasi poi negli incontri intercontinentali "per l'umanità e
contro il neoliberismo", e poi nelle varie giornate di lotta a Seattle, come a
Washington, Praga, Quebec, Ottawa, Nizza, Davos, Genova, potrebbe essersi
arenata a Porto Alegre, nella mega kermesse mediatica svoltasi per la prima
volta nel 2001 e poi ripetuta l'anno successivo nella città governata
dal partito dell'attuale presidente del Brasile.
A Porto Alegre il concentrarsi della critica sul capitale finanziario risulta
miope e riduttivo, in ultima analisi funzionale alla promozione di quella
campagna per la Tobin tax, che "azionisti" new-global di buon peso politico e
mediatico come Attac, pongono al centro delle loro esili strategie di
resistenza al capitalismo. La scarsa attenzione alla natura distruttrice (di
vite, salute, ambiente) del capitale nella sua classica veste industriale pare
proporre un'ingenua contrapposizione tra capitalismo produttivo (buono) e
speculazione finanziaria (cattiva). La rivendicazione della "cittadinanza
universale" e dei diritti ad essa connessi descrive un ambito progettuale di
marca esplicitamente riformista nel quale lo scontro di classe e la
necessità del superamento della forma statuale vengono dribblati come
scarti di un'epoca ormai chiusa.
La dimensione propriamente politica del dominio viene sapientemente elusa,
aggirata, cortocircuitata nel tentativo di assolvere la dimensione statuale,
fittiziamente dipinta come residuale, dalla responsabilità per il mondo
intollerabile in cui la stragrande maggioranza degli uomini, donne e bambini di
questo pianeta sono forzati a vivere. Anzi. L'orizzonte statuale,
frettolosamente assolto dalle proprie responsabilità, appare come linea
di demarcazione insuperabile di un agire politico che, oltrepassando e, di
fatto, scavalcando la dimensione orizzontale dei movimenti, riallinei verso la
democrazia parlamentare le tensioni e le intelligenze entrate in gioco da
protagoniste nel movimento no-global.
Eppure la feroce "guerra duratura", che "sul campo" esplicita la barbarie
statale nella sua forma più cruda e sul "fronte interno" si traduce in
provvedimenti liberticidi, compressione della facoltà di esprimersi,
criticare è uno specchio del tutto nitido della natura criminale degli
stati. Di tutti gli stati. Ma guardare in questo specchio sarebbe stato troppo
arduo per quelli che strizzano l'occhiolino alle aree moderate del proprio
paese. A chi, come i DS, calibra il proprio assenso o la propria opposizione
alla guerra a seconda della convenienza politica del momento.
"L'altro mondo possibile", slogan che rimbalza ormai in ogni angolo del globo,
si auspicava trovasse una piazza comune in cui le diverse esperienze,
movimenti, culture sviluppassero una relazione costruttiva capace di
concretarsi al di là dei, pur importanti, appuntamenti in occasione
degli incontri dei potenti della terra. A Porto Alegre, tuttavia, la piazza ha
ceduto il passo alla vetrina, alle luci della ribalta, all'effetto mediatico,
al possibile tornaconto (magari in chiave elettorale) a casa propria.
Tuttavia, la stessa Porto Alegre, con le sue migliaia di partecipanti, con le
centinaia di forum paralleli più o meno ufficiali, con le numerose
contestazioni "interne" contro i vari esponenti governativi presenti, dimostra
che il movimento non è facilmente riconducibile ad una matrioska
new-global in cui il grande Forum mondiale contiene, a cipolla, tutta la
ricchezza e la varietà, che le varie piazze del mondo hanno espresso in
questi ultimi tre anni. Se poi si tiene conto che, negli stessi giorni di Porto
Alegre, i no-global erano in piazza a New York ed a Monaco e la loro presenza
è stata tutt'altro che "invisibile", appare chiaro che i giochi sono ben
lungi dall'essere fatti.
Inoltre in questa partita sempre più rilevante è il ruolo dei
media, sia quelli ufficiali, sia quelli "autogestiti", questi ultimi in
vorticosa crescita proprio grazie alla volontà di autorappresentazione e
comunicazione autonoma del movimento no-global.
In quella che Rifkin definisce "l'era dell'accesso" l'informazione svolge un
ruolo nevralgico non solo perché, classicamente, "orienta" l'opinione
pubblica ma perché diviene fattore decisivo non solo nella definizione
delle regole del gioco ma nell'accesso consentito o negato al gioco stesso.
L'importanza della narrazione dell'evento eccede, sovrasta al punto di
oltrepassarlo, l'evento stesso. La battaglia dell'informazione, condotta con
notevole successo a Seattle, diviene sempre più difficile nelle varie
piazze, dove, specie a Genova, la volontà criminalizzatrice del governo
e l'insistente ricerca dell'"evento" mediatico da parte di alcuni settori della
contestazione, creano una miscela esplosiva. L'ansia di rendersi visibili non
deve obnubilare le ragioni della protesta, la necessità del radicamento
sociale, la volontà di instaurare un dialogo diretto con gli oppressi e
gli sfruttati. La scelta di buona parte del movimento anarchico del nostro
paese, emersa in modo chiaro nel luglio 2001 a Genova, di sfuggire lo
spettacolo mirando alla costruzione di un movimento al contempo radicale e
radicato ci pare non solo giusta ma capace, alla lunga, di dare i propri
frutti. In questi mesi vi sono stati significativi segnali di una crescita
dell'area dell'anarchismo sociale che sono il miglior indicatore dell'efficacia
della via intrapresa.
Oggi più che mai il saper fare deve coniugarsi ad un narrare che sia
azione, relazione, capacità di prefigurare nuovi mondi, fuori dal cono
di luce proiettato dai media.
Diviene peraltro sempre più importante essere presenti non solo nelle
varie piazze ma anche nello sforzo di elaborazione teorica e sperimentazione
pratica oggi indispensabile alla crescita delle sensibilità libertarie.
Stiamo lavorando per rafforzare la capacità di coordinamento a livello
internazionale degli anarchici, che sia vettore sia di reciproca conoscenza sia
di rafforzamento della possibilità di intervento.
La guerra infinita scatenata dopo l'11 settembre delimita un orizzonte che solo
l'autorganizzazione degli oppressi e degli sfruttati pare in grado di
scardinare, sia articolando un'opposizione su scala mondiale alle politiche
militariste e guerrafondaie che ri-assumendo in prima persona l'iniziativa
contro le politiche (neo)liberiste che a nord come a sud del mondo decretano
l'irreversibile impoverimento di vasti strati della popolazione. Lo Stato e il
Capitale sono irriformabili ed è oggi più che mai indispensabile
una saldatura tra le lotte su scala locale in ogni parte del mondo, pensando ed
agendo globalmente pur tenendo i piedi saldamente fissi nel proprio ambito.
L'invito ad una lotta globale non ha solo un significato spaziale ma anche e
soprattutto il senso di un movimento capace di investire con la propria
capacità critica e di intervento tutti gli aspetti della vita e,
soprattutto, quell'agire politico che in troppi vorrebbero ridotto a mero gioco
istituzionale.
Oggi il capitalismo è divenuto a tal punto pervasivo di divenire una
sorta di seconda natura per cui cade nell'oblio il suo carattere di costruzione
sociale storicamente data e questo diviene non il migliore, non il peggiore, ma
l'unico dei mondi possibili. Vi sono altri mondi, vi sono altre
possibilità.
"Siamo sostenitori della necessità di un cambiamento radicale, un
cambiamento che non può ridursi, come pretendono le tante anime del
Genoa Social Forum ad un'umanizzazione del capitalismo o alla democratizzazione
del G8. La vita e la libertà di sei miliardi di persone non sono
trattabili con i signori della terra ma vanno riconsegnate nelle mani di
ciascuno, uomo, donna o bambino che voglia, "padrone di nulla, servo di
nessuno, andare all'arrembaggio del futuro". Erano le parole scritte sullo
striscione che ha aperto le manifestazioni anarchiche contro il G8, uno
striscione distrutto dalle cariche della polizia, ma i cui contenuti restano
fermi nella lotta di ogni giorno, quella che in ogni luogo, costantemente, ci
vede a fianco degli oppressi e degli sfruttati."
Comunicato della Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica
Italiana del 25 luglio 2001<
p>
Maria Matteo del Gruppo di lavoro no-global della FAI (questo documento
è una libera rielaborazione di un testo della Federazione Anarchica
Torinese)
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