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Inserto del n. 37 del 10 novembre 2002 di Umanità Nova, settimanale anarchico

Black & White
Per una critica radicale cioè non simbolica

Là dove domina lo spettacolare concentrato domina anche la polizia
G. Debord, La società dello spettacolo

Non esiste critica radicale se questa non mette in discussione la potenza simbolica del dominio ed il ruolo delle opposizioni spettacolari e da questo punto di vista lo scenario di Genova del luglio 2001 ha messo a nudo quanto sia insidiosa, ambigua e pericolosa ogni rappresentazione simbolica del conflitto.

Tale rappresentazione infatti, al contrario delle illusioni dei suoi sostenitori e praticanti, non comunica quello che si vorrebbe: lo scontro comunica lo scontro, non produce consapevolezza critica, né individuale né sociale, ma tutt'al più crea, attraverso il sangue e l'adrenalina, emozioni che, in quanto tali, sono effimere e facilmente incanalabili da chi è in grado di governarle o di sovrapporvi altre emozioni ancora più forti.

I fatti di per sé difficilmente comunicano, solo le idee fatte parole possono farlo interagendo con essi e con la memoria. Questo discorso riguarda quasi tutto il cosiddetto movimento no-global, sovente estremista nella protesta ma assai moderato nelle analisi e per progettualità, a partire dal fatto che raramente ha intuito che i vari summit dei poteri economici e politici mondiali hanno avuto e continuano ad avere una funzione soprattutto simbolica e che dietro passerelle, flash e banchetti c'è soltanto un dominio che può tranquillamente sostituire il consenso col terrore, la disinformazione o i ricatti morali.

Trattasi infatti, come è stato già osservato, di un rituale di potere, un rito che funziona come potere costituente verso l'instaurarsi di nuovi poteri, la cui sovraesposizione serve a legittimare le forme e le articolazioni planetarie del dominio, ma anche le sue necessarie controparti dialettiche.

Senza intuire la trappola allestita e senza neppure sospettare la funzionalità della parte assegnatagli, il Genoa Social Forum, col suo esercito di sognatori disobbedienti, si prefiggeva l'assalto simbolico alle recinzioni della Zona Rossa, dichiarando in anticipo di voler assediare e violare simbolicamente (anche solo per un metro) il territorio dell'Impero.

Da parte loro, altri soggetti hanno preferito infrangere vetrine di banche e dare alle fiamme delle auto di lusso, scegliendo la strada di un conflitto altrettanto simbolico anche se più hard e sincero di quello messo in scena dai "disobbedienti".

La vetrina rotta può essere divertente e fa la felicità del vetraio di turno (ricordate "Il Monello" di Charlot?) ma di certo ogni banca è assicurata contro tale evenienza, così come la distruzione di un'auto da ricchi farà sicuramente contenta la casa produttrice (specie in tempi di crisi di sovrapproduzione) dato che il "ricco" se ne comprerà una nuova e più costosa di quella incendiata.

Inoltre il "gesto" simbolico, sia questo individuale o collettivo, illegale o legalitario, pone sempre il problema della sua interpretazione e anche quello apparentemente più semplice e di facile lettura, nel momento in cui è "mediato" dall'informazione dominante, si espone ad essere reinterpretato; non sono più i tempi della "propaganda del fatto" e già alcuni anni fa, di fronte a quanti teorizzavano il potere delle immagini, si sottolineava semmai il potere delle "didascalie".

Esemplare in questo senso il "riciclaggio" delle tute bianche da parte dei poliziotti del SAP durante una loro manifestazione contro gli arresti e le denunce nei confronti dei loro colleghi di Napoli per le violenze e le sevizie commesse sui manifestanti no-global.

Queste contraddizioni, dopo Genova, si sono ancor più evidenziate. Così, quelli che poche settimane prima, dopo i fatti i Goteborg, avevano rivendicato politicamente la rottura delle vetrate del consolato onorario svedese a Venezia, si sono avventati contro quanti erano sospettati di aver fatto lo stesso con le vetrate delle banche genovesi, trattandoli come violenti e provocatori.

In modo altrettanto schizofrenico, quelli che invece avevano criticato le Tute Bianche per un certo carattere militarista e maschilista delle loro sceneggiate in uniforme, hanno finito per subire il fascino estetizzante di coloro che avevano scelto d'incarnare l'immagine al negativo delle Tute Bianche, a partire dall'adozione del nero stile Black Bloc.

A tal proposito va ricordato come le Tute Bianche a Genova non indossarono la famosa divisa del disobbediente, in quanto i loro dirigenti temevano che durante i prevedibili scontri i media potessero veicolare l'immagine di giovanotti biancovestiti, ormai fuori controllo, intenti a fare cose tutt'altro che non-violente.

E, per analoghe ragioni, il tramonto teatrale delle Tute Bianche ha confinato tale costume in soffitta e ha imposto la loro ricomparsa politica sotto altre vesti meno compromesse.

D'altra parte, fin da Seattle, le forze dell'ordine hanno potuto contare anche sul "senso di responsabilità" di settori del "movimento" no-global, compenetrati dalla necessità di gestire l'immagine di civismo e di rispetto delle regole della maggioranza dei manifestanti, al punto da sottoscrivere, contro ogni evidenza ed al prezzo di un'affrettata revisione della concezione di azione non-violenta, la comoda interpretazione "stalinista" secondo la quale chi non vi si conformava era manipolato dalla polizia.

Ma se prima di Genova era intuizione di pochi, dopo quelle tragiche giornate, si è fatta strada la consapevolezza che l'opposizione anticapitalista deve saper spezzare la sequenza prevedibile e ripetitiva di incidenti più o meno ben preparati e, se gli attuali rapporti di forza non sono ancora tali da imporre la rivolta sociale generalizzata, la scelta di disertare e sabotare gli spettacoli sotto la regia del potere è già una scelta sovversiva.

KAS

 



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