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Inserto del n. 37 del 10 novembre 2002 di Umanità Nova, settimanale
anarchico
Ambiente e clima
Invertire la rotta
La continua emissione di gas di scarico dovuta alla combustione di petrolio,
carbone e metano, accompagnata alla sistematica distruzione delle foreste, ha
portato a quella che va considerata la più grave crisi ambientale del
pianeta. In pratica il calore del sole viene intrappolato causando un aumento
della temperatura del pianeta che provoca eventi meteorologici sempre
più violenti a catastrofici. Si tratta di un fenomeno generalmente
accettato negli ambienti scientifici internazionali anche se non mancano i
contestatori che parlano di "catastrofismo ingiustificato".
La prima conferenza dell'ONU sullo stato del pianeta si svolse nel 1979 ma la
svolta "ambientalista" delle Nazioni Unite risale agli anni '90: nel 1990
l'IPPC, organismo intergovernativo creato nel 1988, diffonde il suo primo
rapporto che dimostra l'evidenza del riscaldamento della terra, prevede un
ulteriore grave peggioramento entro il 2100 e considera le attività
umane come le maggiori responsabili del disastro. La conseguenza è la
convocazione del "vertice sulla terra" che si svolge nel giugno 1992 a Rio de
Janeiro.
Dopo il vertice di Rio l'ONU ha organizzato almeno una decina di conferenze
internazionali su ambiente e sviluppo che avrebbero dovuto riunire gli Stati
attorno ad una politica comune capace di invertire la rotta e "salvare" il
pianeta. Il punto più alto di questo progetto venne probabilmente
raggiunto con la firma del protocollo di Kyoto, dicembre 1997, che prevedeva di
riportare nel 2008-2012 le emissioni di gas serra al livello del 1990. Si
trattava di un obiettivo misero visto che per "salvare" il pianeta le emissioni
dovrebbero essere ridotte di almeno il 60% rispetto ai livello degli anni '90
(fermo restando che i benefici effetti di questa drastica riduzione si
comincerebbero a vedere non prima del 2100). L'unico fatto positivo era che
almeno gli Stati accettavano l'idea di rallentare il tasso di crescita delle
emissioni.
Come ben sappiamo il protocollo di Kyoto sta agonizzando, non tanto per il
tenace boicottaggio degli Stati Uniti, quanto per i suoi evidenti limiti e
contraddizioni. Si tratta di limiti e contraddizioni che derivano non solo dal
fatto che non esistono le basi materiali per un accordo praticabile a livello
planetario (considerata la sfrenata concorrenza fra paesi ricchi e paesi poveri
e, naturalmente, all'interno stesso dei paesi ricchi) ma anche perché il
protocollo si fondava sull'illusione, tipicamente riformista, che sia possibile
dare l'assalto al riscaldamento globale senza mutare le radici del sistema
produttivo oggi dominante. Pochi ricordano (o sanno) che alla base dell'accordo
di Kyoto c'era il successo riportato dal protocollo di Montreal del 1987 che
decise la messa al bando del gas freon, responsabile del famoso "buco
dell'ozono". Oggi, secondo l'organizzazione metereologica mondiale, il "buco"
si sta lentamente restringendo. Ma si trattava di un precedente poco
significativo poiché mentre la riduzione dello strato di ozono è
provocata in gran parte da un gruppo ben definito di prodotti industriali per
la maggior parte dei quali esistono dei sostituti meno dannosi, il
riscaldamento globale è provocato da gas che sono alla base delle
attività delle società industrializzate. Il protocollo di Kyoto
cercò di evitare di affrontare problemi strutturali accettando
l'illusione, tipicamente capitalista, di poter risolvere le crisi ambientali
con gli strumenti del mercato. Anche qui c'era un precedente positivo. Nel 1992
il congresso USA aveva approvato un emendamento alla legge sull'aria pulita
destinato a ridurre le emissioni di aerosol di solfato che stavano danneggiando
i polmoni degli americani e sfigurando le loro città. La legge stabiliva
multe contro le industrie che superavano i tetti di emissione ma permetteva a
quelle che rimanevano al di sotto dei tetti di vendere le loro eccedenze al
miglior offerente in una specie di borsa dell'inquinamento. La legge del '92 ha
dato dei risultati anche grazie al declino strutturale della grande industria
americana.
Questi due successi spianarono la strada al protocollo di Kyoto che qualcuno ha
così riassunto: i gas colpevoli del riscaldamento potevano essere
individuati, si potevano negoziare obiettivi e date per la loro riduzione e gli
Stati meno inquinati avrebbero potuto cedere i loro diritti di inquinamento a
quelli che superavano le quote stabilite. Ad appena cinque anni di distanza
quello di Kyoto può essere considerato come un progetto di futile
ingegneria ambientale che ormai conserva solo un interesse accademico.
Diciamolo chiaramente: quello di Kyoto è un fallimento salutare
poiché quell'accordo nasceva già morto! Non solo perché
assomigliava più ad un grande mostro burocratico, con le sue percentuali
di riduzione stabilite con il bilancino della convenienza economica e
dell'opportunità politica, ma soprattutto perché accettava la
tesi che proteggere il clima è un costo e che quindi era necessario
contrattare come suddividere questo peso. Nella conferenza di Kyoto, come nelle
conferenze che l'hanno seguita, da L'Aja a Bonn, da Marrakesh e Johannesburg,
è stato completamente nascosto il principio che la transizione verso
energie a bassa o nulla emissione rappresenta una possibilità ecologica
ed economica anche perché riduce gli enormi costi provocati dalle
catastrofi meteorologiche e da quelle causate dall'uso dei combustibili
fossili. Si è invece preferito puntare tutto sugli scambi monetari del
diritto di inquinare, una forma di imperialismo ecologico sul quale si stanno
buttando a capofitto i grandi gruppi industriali di mezzo mondo.
Porre al centro dell'attenzione la lotta per la salvaguardia dell'ambiente
ribadendo i principi di prevenzione, di sviluppo interno, di una cultura libera
dalla schiavitù del profitto significa entrare in conflitto con gli
interessi dominanti poiché porre questi principi al cuore di impegni
seri mette in discussione certi modi di consumo, i poteri delle multinazionali,
i grandi orientamenti della ricerca scientifica, l'apertura selvaggia di tutti
i mercati, la dittatura mondiale dei mercati finanziari, il potere del
complesso militare-industriale.
Concludendo: non saranno i vertici fra gli Stati a risolvere il problema del
riscaldamento della terra. La difesa dell'ambiente non è negoziabile!
Occorre modificare il sistema produttivo e lo stile consumistico di vita;
occorre abbandonare il mito dello sviluppo universale, rifiutare l'economia di
mercato capitalista, il salariato e la ridistribuzione dei profitti per
rilanciare il principio "a ciascuno secondo i suoi bisogni" facendo del
lavoro un momento di solidarietà sociale.
Se la questione energetica è al centro di questa grande crisi ambientale
l'unica soluzione praticabile è quella di puntare da subito ad una
gestione diretta da parte delle comunità della produzione energetica,
fondata su energie rinnovabili a nulla o bassa emissione (vento, maree, sole)
lasciando agli idrocarburi uno spazio marginale legato solo ad attività
di estrema utilità collettiva.
Insomma bisogna coniugare la lotta per la difesa dell'ambiente a quella per una
trasformazione radicale della società.
M. Z.
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