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Da "Umanità Nova" n. 38 del 17 novembre 2002
La maionese impazzita
Macedonia, Serbia, Montenegro
Le ultime settimane hanno visto lo svolgimento di un'importante tornata
elettorale in tre dei paesi che, fino a dieci anni fa, formavano la Federazione
Jugoslava. I tre paesi in questione sono (in ordine elettorale) Macedonia,
Serbia e Montenegro, quest'ultimo unito alla seconda da una fragile unione
denominata Federazione serbo-montenegrina, ma da ormai quattro anni sulla
strada della secessione. Queste elezioni dovevano essere un termometro decisivo
sullo stato dei rapporti di potere all'interno di questi paesi reduci da un
triennio particolarmente difficile.
Macedonia
In particolare le elezioni macedoni dovevano saggiare il successo o
l'insuccesso del governo conservatore di Ljubko Georgevski che, durante la
crisi scatenata dall'UCK albanese con attacchi armati nei pressi delle
città di Tetovo e di Gostivar finalizzati alla secessione dell'area del
paese a maggioranza albanese, aveva giocato la carta del nazionalismo macedone
fomentando aggressioni a sfondo etnico nella capitale Skopije ed espellendo dal
governo da lui presieduto il Partito Democratico degli Albanesi. Le elezioni
sono state precedute da una decisa ripresa della tensione a opera di squadre
armate albanesi che il 26 agosto hanno ucciso due poliziotti albanesi nei
pressi di Gostivar, mentre il 31 dello stesso mese hanno rapito cinque abitanti
di Zerovjane di etnia macedone (nell'ovest del paese a maggioranza albanese),
poi rilasciati su pressione dei comandi americani in Kossovo. Entrambe le
operazioni sono state rivendicate dall'Esercito di Liberazione Albanese,
formalmente sciolto dalla NATO nel 2001 all'epoca dell'accordo di pace mediato
da europei e americani tra l'UCK e il governo macedone. Il leader dell'ex UCK,
Sadri Ahmeti, oggi leader del Partito Democratico per l'Integrazione che ha
definitivamente preso il posto del Partito della Prosperità Democratica
nel controllo dei clan albanesi della zona (e dei traffici più o meno
legali che uniscono la zona macedone al Kossovo e All'Albania e da lì
all'Italia e alla Turchia), si è immediatamente protestato innocente di
fronte alle accuse subito lanciate dal ministero dell'Interno albanese. Non
siamo in possesso di informazioni certe per dare una valutazione comprovata del
minore o maggiore coinvolgimento di Ahmeti in questi fatti, riteniamo
però che questa offensiva fosse in realtà diretta più
contro di lui che non contro il governo macedone. Ahmeti, infatti, ha vinto la
sua battaglia all'interno dei clan albanesi emergendo, grazie all'avventura UCK
del 2001 come il principale riferimento per la popolazione albanese e per i
clan in cui essa è divisa. Se poi ricordiamo i suoi stretti legami con
l'intelligence americana e con la mafia pugliese, abbiamo il ritratto di un
uomo che ha tutto da perdere nello scatenare una nuova offensiva armata
nell'area, invece di godersi i frutti nei termini di controllo del territorio e
dei ricchi traffici che passano su quest'ultimo. Lo spirito e la lettera
dell'accordo di pace dell'agosto 2001, infatti, riconoscono alle
amministrazioni locali (controllate dal partito di Ahmeti) un controllo quasi
assoluto sull'ovest del paese. La stessa polizia macedone nell'area deve essere
composta in maggioranza da elementi albanesi che (diciamo noi) si guardino bene
dal ficcare il naso nel flusso di droga, armi e migranti che passa nella
stretta gola del Vardar, porta della Macedonia per l'occidente e porta
dell'occidente per il commercio proveniente dalla Turchia e dal Vicino Oriente.
L'unica spiegazione possibile di una simile mossa da parte di Ahmeti sarebbe
quella di un'esecuzione di "due sbirri che non stavano ai patti", ma anche
questo ci sembra improbabile, dal momento che questo eroe del nostro tempo
è oggi ben introdotto all'interno dei posti di comando della polizia
macedone. Resta che le due operazioni sono state condotte da uomini vestiti con
le stesse uniformi nere dell'UCK macedone, uniformi nere made in USA e,
attualmente utilizzate dalla polizia kosovara, a sua volta diretta filiazione
dell'UCK dell'ex provincia jugoslava. L'impressione è che questa nuova
escalation sia voluta da settori dell'UCK formalmente disciolto ostili ad
Ahmeti e alla sua direzione, e decisi a usare e sue stesse armi per imporsi
come leader e portavoce dei clan albanesi. D'altra parte prima di inventarsi
(con il deciso appoggio americano) l'UCK macedone, il buon Ahmeti era soltanto
un capoclan di secondo piano cresciuto all'ombra dei boss albanesi del tempo
come Arben Xhaferi e Menduh Thaci (leader del Partito Democratico Albanese) e
di Imer Imeri (leader del Partito della Prosperità Democratica).
Rimane da capire quale ruolo giochino in questo quadro le potenze occidentali
e, specificatamente gli Stati Uniti e la Germania, ossia i due paesi che in
concorrenza tra loro hanno contribuito a portare questa zona dei Balcani nelle
attuali condizioni di occupazione armata e di collasso della vita economica e
civile. Se da un lato il messaggio ufficiale continua a essere lo stesso: serve
un governo di ampia coalizione che tenga dentro tutti tranne gli estremisti
delle due parti, per assicurare la pacificazione dell'area e lo svolgimento dei
progetti di corridoio per il trasporto energetico, dall'altra gli Stati Uniti
non hanno smesso di finanziare, armare e incentivare tutti i fenomeni di
ribellione albanese contro i governi dell'ex Jugoslavia. Il fine continua a
essere quello della destabilizzazione per cui ogni volta che un assetto di
potere sembra diventare stabile appaiono nuovi gruppi armati che vanno a minare
quest'assetto, con la conseguenza di favorire l'installazione fino a data da
destinarsi di truppe angloamericane con funzioni di peacekeeping. Il fatto che
questi pretesi ribelli utilizzino sempre divise e armi provenienti dai comandi
americani in Kossovo e che le loro infiltrazioni in Macedonia avvengano sempre
a partire dall'area del Kossovo sotto controllo americano (dove si trova anche
Tanusevci, la più grande base americana di terra in Europa),
dovrà pur dire qualcosa. In specifico non si deve dimenticare che il
progetto più credibile di "sviluppo" per l'area coinvolta è
quello denominato AMBO (Albanian-Macedonian-Bulgarian Oil), incentrato sulla
costruzione di un oleodotto che attraverserà i tre paesi balcanici e i
cui diritti sono stati concessi in esclusiva all'Halliburton Energy, la
società del vice Presidente americano Dick Cheney. Michael Chossudovsky,
in una serie di articoli pubblicati in rete su GlobalResearch.com (e solo
parzialmente tradotti in Italia dal Manifesto) dimostrava come il fine dei
continui interventi di guerriglieri albanesi in Macedonia fosse quello di
impedire una composizione pacifica del conflitto etnico in modo da permettere
un intervento NATO gestito da truppe inglesi e americane, evitando il
coinvolgimento dell'ONU, e arrivando a controllare in modo completo l'area. Per
ora il progetto è realizzato solo a metà, anche perché
altre emergenze hanno tenuto occupati gli americani, ma non dubitiamo che
questi ultimi stiano lavorando a concludere il percorso appena iniziato.
D'altra parte che le truppe di altri paesi in Macedonia siano appena tollerate
lo dimostra il trattamento riservato dall'UCK alla caserma dove sono
acquartierate le truppe tedesche, più volte presa di mira tra l'Estate
del 2001 e la Primavera dell'anno successivo.
In questo clima si sono infine svolte le elezioni che hanno segnato il
(temporaneo?) declino di Georgevski e del suo partito VMRO, punito dagli
elettori che gli hanno preferito gli ex comunisti della coalizione "Insieme per
la Macedonia", guidati da Branko Crvenkoski e alleati (ma guarda un po'...) al
Partito Democratico per l'Integrazione di Sadri Ahmeti. Ancora una volta,
quindi, si potrebbe ripetere il consueto scenario: gli ex ribelli radicali
vanno al governo come alleati di una coalizione macedone, e subito un nuovo
gruppo di indipendentisti radicali avvia una campagna armata contro il governo
stesso, "costringendo" così i paesi occidentali a intervenire... E
indovinate un po' chi saranno i primi a fornire le truppe per il prossimo
peacekeeping?
Serbia
Mentre in Macedonia cambiano i protagonisti (o, meglio, i ruoli che questi
rivestono), in Serbia le urne hanno riservato una sorpresa alquanto spiacevole
per "uomo nuovo" Kostunica, innalzato dall'occidente a rappresentante della
democrazia nelle "selvagge terre che furono di Milosevic" appena due anni fa, e
oggi già in lista d'attesa per entrare a far parte del prossimo "asse
del male". L'attuale Presidente Jugoslavo (una carica ormai rappresentativa,
dal momento che la Jugoslavia non esiste più, e al suo posto è
subentrata una confederazione a maglie molto larghe tra Serbia e Montenegro la
cui reale definizione è ancora tutta da discutere) non si è,
infatti, comportato come i patron tedeschi e americani si aspettavano da lui.
Pur condannando l'operato di Milosevic, Kostunica ha continuato a sostenere una
politica "nazionale", rifiutando di consegnare al Tribunale dell'Aja lo stesso
ex presidente jugoslavo e alcuni generali serbi tuttora in carica. Ben
diversamente si è invece comportato Dindijc, il giovane primo ministro
serbo, ex collega di Università del cancelliere tedesco Schroeder, e
uomo fidato dell'occidente. Questi, infatti, ha prima organizzato l'operazione
che ha permesso di consegnare il "pacchetto Milosevic" all'Aja, e ha poi
conseguentemente incassato i primi aiuti economici da parte del FMI e dagli
Stati Uniti. Negli ultimi mesi ha poi concesso via libera agli inviati
americani chiamati a fare piazza pulita dell'apparato di potere legato a
Milosevic. In cambio il 21 luglio ha ottenuto dal Segretario di Stato americano
Colin Powell la certificazione di collaboratore con il Tribunale dell'Aja, il
che gli ha consentito di accedere a 40 milioni di dollari di aiuti economici
stanziati dagli USA a gennaio e congelati il 21 marzo scorso causa "mancanza di
collaborazione". Last but not least Dindijc ha ultimamente dichiarato
che l'attuale presidente serbo Milutinovic potrà essere estradato
all'Aja non appena terminerà il suo incarico, ossia dopo il 3 gennaio
del 2003. Il contrasto tra Dindijc e Kostunica è un conflitto di potere
che si muove intorno a queste questioni. Questioni tutt'altro che secondarie
perché riguardano il futuro assetto di potere in Serbia. Entrambi gli
uomini sono "uomini dell'Occidente", decisi a perseguire questa collocazione
come l'unica possibile per il loro paese; cambiano però le
modalità con le quali essi (e i blocchi di potere che rappresentano)
sono disposti ad accettarlo. Dindijc è il vero "uomo nuovo", senza
precisi legami con la vecchia nomenklatura riciclatasi da comunista a
nazionalista durante l'era Milosevic; egli rappresenta l'imprenditoria tagliata
fuori dagli affari gestiti dalla cricca Milosevic e quella parte che è
riuscita a riciclarsi. Questo blocco vuole la ripresa del commercio estero, gli
investimenti occidentali e una rapida privatizzazione di quanto ancora rimasto
allo stato. A questi soggetti bisogna aggiungere la classe media colta e
semicolta della Serbia, desiderosa di togliersi dai piedi il vecchio ciarpame
nazionalista serbo. Il blocco che sostiene Kostunica è un blocco di
funzionari pubblici, vecchi servitori dello stato, comparti significativi di
esercito e polizia che vedono vacillare significativamente il loro ruolo di
fronte all'offensiva di Dindijc sostenuta dagli USA. La posta in gioco è
la sopravvivenza gattopardesca del l'apparato di Milosevic in mutate forme
"democratiche" e occidentaliste. Sopravvivenza che gli USA non possono
accettare, non tanto per i crimini dei quali questa gente si sarebbe macchiata
(gli Stati Uniti hanno sempre tollerato, sostenuto, foraggiato e armato gente
ben peggiore), quanto per i legami stretti da quest'apparato con i veri nemici
degli USA, quella Cina e quella Russia che la retorica del dopo 11 settembre
obbliga a trattare come alleati di ferro. La liquidazione di questo apparato,
in vista della radicale ridefinizione dei confini balcanici e delle zone
d'influenza è la prova di fedeltà che gli USA richiedono ai loro
vassalli serbi: chi sarà disposto ad accettarla verrà salvato,
chi no, sommerso.
Così il 24 luglio si è arrivati alla rottura ufficiale tra
Kostunica che ha fatto uscire il suo partito (Dss, Partito Democratico di
Serbia) dall'alleanza DOS che sostiene il primo ministro. Uscita comunque
attesa e in linea con le grandi manovre in vista dell'elezione del Presidente
serbo, previste per il 29 settembre. Per quella data si sono presentati
all'elettorato tre candidati: lo stesso Kostunica per la DSS, l'economista
Miroljub Labus per il DS (partito Democratico, di Dindijc) e l'ultra
nazionalista Vojislav Seselj per il Partito Radicale Serbo, uomo dell'estrema
destra serba, alleato di Milosevic e oggi punto di riferimento per tutto il
nazionalismo serbo sconfitto ma non domo, dallo stesso Milosevic all'ex
oppositore di Milosevic il barbuto monarchico Vuk Draskovic. I risultati sono
stati abbastanza scontati: Kostunica ha ottenuto il primo posto con il 30,89%
dei voti, Labus è risultato secondo con il 27,36%, mentre a sorpresa
Seselj ha ottenuto il 23,24% dei voti. Considerato che l'affluenza alle urne
è stata solo del 55,52% si può concludere che quegli stessi
alleati che travolsero Milosevic appena due anni fa oggi arrivano a malapena a
raggiungere un quarto dell'elettorato. La conferma di questo dato si è
avuta in occasione del ballottaggio tra Kostunica e Labus il 13 ottobre. Questa
seconda gara è stata sì vinta da Kostunica con il 66% dei voti
(contro il 31% di Labus), ma il tutto è stato annullato causa mancato
raggiungimento del quorum. Tutti a casa, tutto da rifare, si replica tra tre
mesi come previsto dalla legge elettorale.
Al di là dello stupore con il quale si può considerare come sia
Kostunica che Dindijc siano riusciti a dilapidare in due anni l'immenso credito
conquistato in patria all'epoca dell'assalto al Parlamento e della cacciata di
Milosevic, è interessante notare come la massiccia astensione (e il voto
per Seselj) siano provenuti sostanzialmente dalla base popolare del vecchio
blocco di consenso di Milosevic: le campagne e il sottoproletariato urbano sono
i ceti sociali che hanno votato in continuità con quanto facevano prima,
privilegiando Seselj al primo turno e disertando le urne al ballottaggio. Il
ceto medio e gli operai industriali si sono invece divisi tra i due
contendenti, preferendo Labus i primi e Kostunica i secondi sia per ragioni di
"opinione", sia per ben più pressanti questioni materiali, dal momento
che Dindijc sta operando nel senso dello smantellamento del welfare jugoslavo
legato alla vecchia legge sull'autogestione delle imprese. Se il ceto medio
esprime l'adesione convinta all'occidentalizzazione e gli operai industriali un
tentativo disperato di resistenza al crollo delle loro condizioni di vita, il
blocco campagne-piccola gente si dimostra stabilmente radicato in una visione
rancorosa e revanscista dove la "Serbia ha perso perché è stata
tradita". Se oggi questo blocco risulta marginale e perdente la sua
sopravvivenza testimonia del suo radicamento e della sopravvivenza del
nazionalismo radicale quale forza politica in Serbia.
Montenegro
Il Montenegro, infine, ha fatto nuovi passi verso la definitiva indipendenza.
La fine della Federazione Jugoslava e la sostituzione con l'Unione
Serbia-Montenegro rappresentava già un risultato per la leadership del
Presidente Milo Djukanovic che vedeva premiata la sua linea di "secessione
morbida". Questo politico montenegrino sopravvissuto a tutti gli sconvolgimenti
jugoslavi degli ultimi dieci anni, capace di sostenere Milosevic ai tempi delle
guerre di Croazia e Bosnia, di dichiarare i montenegrini "più serbi dei
Serbi", di guidare l'esercito montenegrino all'assedio di Dubrovnik, è
col tempo diventato il campione dell'Occidente, il nemico principale di
Milosevic e il patrocinatore della fine della Jugoslavia. Naturalmente tutto
questo senza mai perdere la stretta alleanza con la mafia montenegrina, a sua
volta alleata e fornitrice di tabacchi di contrabbando e droga della Sacra
Corona Unita pugliese.
Il progetto stesso dell'indipendenza montenegrina è inserito all'interno
dello sviluppo dell'economia criminale e dei traffici con l'Italia da un lato,
e dall'altro nell'integrazione del paese con la Croazia e l'Albania, tramite lo
sviluppo del Corridoio Adriatico che dovrebbe collegare Trieste a Patrasso
attraversando Slovenia, Croazia (le coste dalmate), Montenegro, Albania e
Grecia. In questo quadro l'allentamento dei rapporti con Belgrado vuol dire per
Podgorica negoziare in proprio il ruolo d'assumere nel progetto e, un domani,
la possibilità di adesione all'Unione Europea. L'abilità di
Djukanovic si è dimostrata nel perseguire questo obiettivo senza
strappi, evitando una guerra con la Serbia che sarebbe stata distruttiva per il
piccolo paese, sia per le dimensioni limitate e la presenza della Settima
Armata Jugoslava sul proprio territorio, sia per gli stretti legami di una
parte rilevante della popolazione con la Serbia. Non è un caso che il
Partito Socialista Montenegrino, diretto prima da Momir Bulatovic e poi da
Predrag Bulatovic (rispettivamente ex premier jugoslavo durante l'epoca
Milosevic, e ultimo vicepremier jugoslavo durante la transizione tra la
presidenza Milosevic e la cessazione della Federazione) e situato su posizioni
unioniste nei confronti della Serbia, rappresenti circa il 40% dell'elettorato.
Le ultime elezioni, svoltesi il 19 e il 20 ottobre hanno ulteriormente premiato
Djukanovic; la sua lista, infatti (che comprende il Partito Socialista
Democratico al quale appartiene, il Partito Socialdemocratico, indipendentista,
e il partito Popolare, più moderato sul tema) ha aumentato consensi e
seggi, disponendo ora nel Parlamento di una maggioranza sicura con 39 seggi su
75, mentre l'Alleanza Liberale, ultrasecessionista e alleato scomodo del
Presidente nella scorsa breve legislatura (2001-2002) è stata ampiamente
ridimensionata, perdendo ogni possibilità di influenzare la politica del
paese balcanico. Il Partito Socialista del montenegro di Predag Bulatovic e i
partiti alleati hanno anch'essi perso terreno pur rimanendo la più forte
forza di opposizione.
Il segno di queste elezioni, sulle quali sarà necessario tornare
più a freddo tra qualche settimana sembra, quindi, essere quello di un
lento ma continuo adeguamento del paese alla secessione dolce di Djukanovic, il
quale sembra ora solo aspettare l'assenso dell'Unione Europea e degli Stati
Uniti ( che già oggi addestrano la sua polizia e la milizia che
sostituisce l'esercito) per la proclamazione dell'indipendenza da una Serbia
che, come abbiamo visto, appare sempre più avvitata su sé stessa
e sulla sconfitta subita nel corso delle tre guerre balcaniche e sempre
più incapace di influenzare le sorti del piccolo vicino.
Giacomo Catrame
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