Da "Umanità Nova" n. 39 del 24 novembre 2002
Chiudere i lager, aprire le frontiere
Siamo tutti asozialen!
Li hanno chiamati CPT: Centri di Permanenza Temporanea.
Secondo la legge Turco-Napolitano che li ha istituiti, i "clandestini" in
attesa di identificazione e espulsione coatta potevano rimanervi un mese;
secondo la legge Bossi-Fini tale periodo di "trattenimento" è stato
prolungato sino a due mesi.
Due mesi sotto sequestro senza alcuna tutela, in balia di carcerieri col
manganello facile e dentro strutture invivibili che sono state oggetto delle
denunce anche nei rapporti di Amnesty International in quanto la loro esistenza
nega i più elementari diritti umani.
In molti davanti al filo spinato che li circonda, hanno definito i CPT come
lager.
Se con tale termine si vuole paragonare la realtà dei CPT ai campi di
sterminio nazisti può certo apparire una forzatura e persino un'offesa
alla memoria; ma se si ritorna con la memoria storica a come in Germania i
lager vennero creati e resi operativi vi si può trovare più di
un'inquietante similitudine.
Infatti prima ancora degli oppositori politici e degli ebrei, i campi di
concentramento vennero aperti per la categoria degli "asociali", poi
contraddistinti col triangolo nero sulla casacca, una categoria ritenuta
passibile di segregazione in quanto composta da "estranei alla
comunità".
Tra questi vi erano disoccupati, emarginati, senza dimora, lesbiche,
prostitute, proletari che avevano assunto atteggiamenti antagonisti sul lavoro
o contro le istituzioni.
Ancora nel 1941 si contavano 110.000 prigionieri tedeschi non ebrei nei lager,
internati come Asozialen, a dimostrazione che la politica di discriminazione
venne avviata a spese di soggetti sociali avvertiti come "irregolari" dalla
maggioranza dei tedeschi e quindi fu via via estesa coinvolgendo altre
categorie.
In questo modo venne avviato quel meccanismo atroce che rese possibile
l'annientamento di milioni di persone nell'indifferenza, nell'accettazione e
persino nella complicità collettiva di ampi strati della popolazione
tedesca.
Chi ha avuto la ventura di visitare il lager di Dachau, inizialmente aperto per
imprigionarvi comunisti, sindacalisti, anarchici ed altri dissidenti politici,
si è potuto rendere facilmente conto che gli abitanti dell'omonima
ridente cittadina non potevano non sapere.
Tragicamente oggi vediamo un'analoga separatezza circondare i CPT, le vite
degli internati e quanto vi accade; questi "centri" infatti si trovano
generalmente nel territorio urbano e spesso all'interno delle città,
come quelli di Torino, Milano, Bologna o Trapani.
Altre strutture minori ma non meno disumane, magari denominate come centri di
accoglienza, connesse al sistema di repressione contro l'immigrazione non
contingentata dai flussi consentiti dallo Stati, si trovano decentrate persino
in località come l'isola di Lampedusa, in cui la gente trascorre
spensieratamente le proprie vacanze al mare.
Dentro questo paradosso vi è il senso delle mobilitazioni che in questi
anni hanno cercato di rompere il silenzio connivente che garantisce l'esistenza
di simili orrori, peggiori dello stesso carcere eppure nascosto da definizioni
ipocrite tendenti a far credere che non si tratta di galere, nonché di
agire per la chiusura dei kampi esistenti e contro l'apertura di quelli
progettati o previsti per rendere pienamente operativa la legge Bossi-Fini.
Quale avvenire è infatti immaginabile per una società in cui
tutto questo sta passando come normale?
KAS
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