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Da "Umanità Nova" n. 40 del 1 dicembre 2002

Crisi Fiat
A Torino sale la tensione

Venerdì 22 novembre Torino ha assistito, in contemporanea, a due eventi sociali di notevole rilievo:

- la manifestazione in difesa dei lavoratori della Fiat e dell'indotto, organizzata dai sindacati istituzionali, ha visto sul palco l'intero arco politico, dal sindaco diessino della città, l'algido Chiamparino, al presidente forzista della regione, il sabaudo Ghigo e, in piazza, oltre, naturalmente, ai lavoratori, i personaggi più inverosimili come il forzista Rosso, leader della componente populista del suo partito;

- un consistente settore di lavoratori ha disertato il comizio ed ha occupato la stazione di Porta Nuova segnalando sia il riscaldarsi del clima sociale che l'esigenza di sviluppare azioni più incisive delle classiche parate istituzionali.

Ritengo evidente che l'occupazione della stazione è nata dalla consapevolezza che in altre situazioni coinvolte dalla crisi Fiat (Termini Imerese e Milano in primo luogo) la mobilitazione è, da settimane, decisamente più vivace rispetto alla ctonia Torino.

Vi era, infatti, almeno nell'ambiente dei compagni con i quali ho occasione di ragionare sulla situazione della Fiat, una sorta di crescente disagio. Le mobilitazioni dei lavoratori si susseguivano in un'evidente freddezza della "città" rispetto alla sua principale azienda. Sembrava che la messa in cassa integrazione di oltre tremila lavoratori della Fiat, operazione che comporta, se si tiene conto dell'indotto, la perdita di circa ventimila posti di lavoro e un conseguente disastro sociale fosse percepita come un destino inarrestabile e che le mobilitazioni fossero tanto dovute quanto ininfluenti.

In realtà, i soggetti istituzionali di sinistra e di destra avevano visto e, per l'essenziale, vedono nella fine della centralità della produzione dell'auto nella città più un'occasione di rilancio e "riqualificazione" dell'area torinese che un problema sociale.

Basta, a questo proposito, pensare alla massiccia quantità di investimenti per le olimpiadi del 2006, al proseguire della pressione per l'alta velocità, alle operazioni speculative dal punto di vista edile per comprendere come il progetto istituzionale fosse già disegnato: Torino deve trasformarsi da città fabbrica o, se si preferisce, da città fabbrica in declino a città dei servizi, del turismo, delle produzioni di lusso e di nicchia.

Sembrerebbe, insomma, che la Torino ottocentesca, la città dei caffè d'arte dove il cappuccino è ancora servito con la "foglia" nella schiuma e i vassoi erano, sino a qualche decennio addietro d'argento, voglia liberarsi della Torino novecentesca delle barriere operaie, di quella città brutta e sgraziata che il dominio Fiat ha disegnato.

D'altro canto, le centinaia di migliaia di donne e di uomini che vivono nella Torino delle barriere operaie non possono essere né eliminati né "riciclati" con facilità, quando qualcuno, con vacuo ottimismo, ha ipotizzato la possibilità di riconvertire i cassaintegrati della Fiat in infermieri è stato evidente a tutti che le élite che governano la città sono, oltre che spregevoli, cretine.

Il trascinarsi della crisi Fiat, le stesse, inadeguate ma continue, mobilitazioni, l'evidenza del fatto che Torino rischia di trasformarsi non nella città della gastronomia e dell'enologia di lusso ma in una versione italiana di Detroit, hanno costretto il ceto politico cittadino a "scoprire" che vi è una crisi industriale gravissima e che, per la sua stessa sopravvivenza, deve porsi come "interlocutore" dei lavoratori che questa crisi stanno pagando.

È interessante notare che, se da una parte il ruolo di opposizione spinge il centrosinistra a "riscoprire" la sua tradizionale base sociale, dall'altra la gestione politica della crisi vede un'alleanza trasversale fra destra e sinistra in difesa degli interessi "locali" e, a fianco dei lavoratori, si schierano, più nelle dichiarazioni che nei fatti, i commercianti, i piccoli imprenditori e tutto il bel mondo che teme di essere spazzato via da un declino rapido e traumatico della città e della regione.

Vi è, di conseguenza, una "vertenza" che oppone gli enti locali, di destra e di sinistra, al governo centrale ed una sorta di concorrenza fra regioni per aggiudicarsi quote di sostegno pubblico che permettano di governare dolcemente la situazione. Se il siciliano Totò Cuffaro è giunto a pagare i treni per i lavoratori che manifestano a Roma e a chiedere, anche in questo modo, che il governo da lui sostenuto saldi il conto per i sessantuno deputati e senatori che ha portato in dote al centrodestra, il Piemonte non può essere da meno.

Ma, ancora una volta, gli universi sociali in movimento non sono omogenei. I lavoratori che hanno manifestato e, soprattutto, quelli che hanno occupato la stazione non lo hanno certo fatto per le sorti del "Piemonte" come certo quelli di Termini Imerese non lo fanno per la "Sicilia" e quelli di Arese per la "Lombardia".

La questione che pongono, in maniera elegantemente sgraziata, è quella di sempre: il reddito, il diritto ad una sopravvivenza decente, il rifiuto di essere considerati variabili dipendenti delle "leggi dell'economia" e vittime da sacrificare al "risanamento aziendale".-

È da questa refrattarietà alla sottomissione alle "regole del gioco", da questo porre innanzi unilateralmente il proprio essere sociale che occorre partire come sempre.

Occorre, appunto, partire. Non dobbiamo né possiamo, infatti, nasconderci e nascondere che la "localizzazione" del conflitto Fiat ne indebolisce le potenzialità generali. Se, infatti, tutto si riducesse alla richiesta di una quota maggiore di ammortizzatori sociali correremmo due rischi evidenti:

- una sorta di concorrenza fra stabilimenti e territori per vedersi riconosciuta una sorta di rilevanza maggiore dal punto di vista sociale. Non ritengo, a questo proposito, casuali le parole gentili che Berlusconi ha riservato a Termini Imerese. È, infatti, vero che le parole costano poco e che il nostro in quanto a promesse non mantenute non è secondo a nessuno ma, in questo caso e per le ragioni ricordate, lo ritengo non del tutto inaffidabile;

- la separazione fra lavoratori che resteranno in produzione e cassaintegrati, per un verso, e quella, forse ancora più grave, fra lavoratori della Fiat e lavoratori dell'indotto con i secondi privi di ogni garanzia anche minima.

Su un terreno strettamente ed immediatamente sindacale, è necessario puntare ad una riduzione d'orario per tutto il gruppo Fiat per evitare un esito del genere, sul terreno della prospettiva che la crisi Fiat disegna, si tratta di operare per affermare l'autonomia degli interessi dei lavoratori rispetto agli avversari di sempre e, in primo luogo, alla famiglia Agnelli che si allontana dal settore dell'auto portandosi dietro la massa imponente di denaro pubblico che ha ricevuto nei passati decenni ma anche agli "amici" di oggi.

È, certo, una partita complicata e le forze dell'opposizione sociale non sono sempre adeguate in termini quantitativi e di chiarezza degli obiettivi ma, come sempre, se non possiamo scegliere il terreno dello scontro sociale possiamo scegliere come affrontare questo scontro.

Cosimo Scarinzi

 



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