unlogopiccolo

Da "Umanità Nova" n. 41 dell'8 dicembre 2002

Gli anarchici e il sindacalismo/1
Della natura riformista del sindacato

L'attuale fase politica e sociale, caratterizzata da una ripresa del conflitto di classe, è propedeutica a rilanciare la questione del dove e del come gli anarchici stanno all'interno della battaglia sociale.

Sul terreno più strettamente sindacale il nostro giornale, da un po' di tempo, ospita articoli in cui alle analisi sulla svolta conflittuale ed antigovernativa della CGIL si aggiungono giudizi di merito non lusinghieri rispetto agli stessi compagni anarchici che hanno militato e militano in questa organizzazione.

Ciò mi pare in aperta contraddizione con lo spirito del Convegno di Bologna del 22 settembre scorso, in cui anche la nostra organizzazione si è fatta promotrice di un percorso di coordinamento di tutti i militanti anarchici federati e non, spalmati, come sappiamo, in più organizzazioni sindacali; dalla CGIL appunto, dove gli anarchici militano storicamente, alla CUB, passando per l'UNICOBAS per finire all'USI.

Credo che ciò derivi o possa derivare da due ordini di problemi.

Primo: i compagni che in questi anni si sono generosamente impegnati nel sindacalismo di base, avvertono con fastidio e spesso in maniera scomposta, una sorta di concorrenzialità e di chiusura di alcuni spazi fra i lavoratori attratti o riattratti dalla svolta a sinistra della CGIL;

Secondo: un convincimento ed un giudizio, a mio avviso profondamente errati, sul ruolo del riformismo e della stessa struttura sindacale in quanto tale.

Sul primo punto c'è poco da dire se non che anche fra gli anarchici la vecchia e speciosa categoria del settarismo è tuttora presente.

Non ci dovrebbe essere niente di politicamente pericoloso se una organizzazione sindacale qualsiasi nel lanciare battaglie che anche noi giudichiamo corrette e foriere di mutare i rapporti di forza fra capitale e lavoro dimostrasse ed ottenesse maggiore radicalità e soprattutto maggiore disponibilità ad una conflittualità sindacale e politica.

Ricordo che a difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge 300/1970), in Toscana in maniera particolare, quando la rottura sindacale fra CGIL CISL e UIL non si era ancora consumata in seguito alla firma del "Patto per l'Italia" e la stessa determinazione della sola CGIL era in fieri, siamo stati come anarchici fautori di prese di posizioni e manifestazioni pubbliche, riuscendo a coinvolgere settori importanti di lavoratori ed organizzazioni sindacali, dalla sinistra CGIL alle RdB ai Cobas e Unicobas.

Sappiamo che è con lo sviluppo delle lotte e della partecipazione che la coscienza e la stessa autonomia politica della classe ha possibilità di svilupparsi.

Dovremmo quindi lavorare, per sostenere tali rivendicazioni e allargare il fronte di lotta, generalizzare esperienze unitarie, non vivere come un pericoloso concorrente la maggiore radicalità della CGIL, fermo restando la nostra autonomia di giudizio e la nostra capacità di proporre e sperimentare obiettivi e pratiche consone alla nostra visione dello scontro di classe in quanto anarchici.

"L'attuale svolta conflittuale della CGIL è solo temporanea, meramente tattica, esclusivamente in funzione antigovernativa.Se mutasse la compagine governativa in una nuova versione ulivista o di centro sinistra allargato "questi" svenderebbero tutto e i lavoratori si troverebbero, come al solito, con un palmo di naso."[*]

Seppure in estrema sintesi è questo il ragionamento che viene fatto per giustificare il settarismo ed una sorta di fastidio nella rinata visibilità di una organizzazione come la CGIL.

Si continua a ricordare i guasti passati della politica di concertazione e si ripropone rispetto ai gruppi dirigenti la inefficace e vetusta categoria dei traditori del popolo e in taluni casi si fa discendere la svolta a progetti e mire politiche esclusivamente personali di Cofferati.

La realtà è che la storia non la fa Cofferati, né Epifani, tanto meno Bernocchi.

Un coperchio è stato sollevato e sarà difficile richiuderlo, lasciando tutto così com'era prima.

Una crescente mobilitazione di milioni di persone, due scioperi generali nazionali, una conflittualità rinata sui posti di lavoro, testimoniata dall'aumento vertiginoso delle ore di sciopero, la stessa ennesima vertenza FIAT, sia quella sul nuovo contratto, ma soprattutto quella sugli esuberi, non è pensabile attribuirla a calcoli politici di una o più persone.

Cofferati esprime la vecchia o se vogliamo rinata concezione socialdemocratica di un'organizzazione riformista classica.

Il fatto che questa concezione sia destinata a fallire in un progetto di affrancamento delle classi lavoratrici rispetto al sistema di produzione capitalistico è cosa che lo stesso Cofferati sicuramente non si pone ed è cosa invece che sappiamo noi in quanto rivoluzionari ed anarchici, ma è tutta un'altra questione.

È comunque positivo che di fronte ad uno scenario sociale, che si voleva e si vuole pacificato e supino alle necessità dell'impresa e quindi del capitalismo nazionale e multinazionale, ci sia invece una forte capacità di mobilitazione e di conflitto da parte del movimento operaio e delle sue organizzazioni.

Rispetto solo ad alcuni anni fa noi stessi valutiamo e diamo un giudizio sull'attuale situazione dello scontro di classe altamente positivo.

Questo permette ai rivoluzionari di avere una maggiore possibilità e disponibilità ad argomentare le proprie ragioni ed a sperimentare modelli organizzativi e pratiche realmente incisive nella prospettiva del mutamento di rapporti di forza.

Quindi continuare ad affermare che la svolta della CGIL è strumentale non è esattamente la verità.

Il riformismo, nel suo ruolo duale di difensore delle condizioni delle classi lavoratrici e di sostegno alle proprie borghesie nazionali, ha un limite nell'accettazione di politiche concertative e di collaborazione di classe.

Deve garantire condizioni, seppur minime, di tutela e di salvaguardia alla propria base elettorale e di consenso, altrimenti la sua sopravvivenza anche organizzativa è seriamente messa in discussione e la sua mutazione da struttura riformista ad altro è assicurata.

Il riformismo, per sua natura, non è portatore di progetti alternativi né tanto meno insurrezionali.

Esso è l'espressione storica, ciclicamente rinnovata, di istanze migliorative ed emancipatorie del movimento operaio.

È la prima istanza di un'avversione alle ingiustizie ed ai soprusi intrinsecamente presenti nel modo di produzione capitalistico e la volontà, attraverso modelli organizzativi collettivi, di porvi rimedio.

Questo processo vale per qualsiasi organizzazione sindacale, anche se si autodefinisce di classe, autogestionaria o di base.

Solo attraverso lo sviluppo delle lotte di fronte al ciclico riprodursi delle condizioni di maggior sfruttamento e di miseria che il capitalismo presuppone, il proletariato può rendersi conto della inconsistenza delle battaglie così dette riformiste ed acquisire una consapevolezza ed una coscienza di classe coniugando la propria esperienza organizzativa e la propria autonoma elaborazione con le tesi e le proposte dell'anarchismo organizzato.

La lotta su obiettivi parziali deve pagare, anche per noi anarchici, altrimenti il nostro ruolo all'interno del movimento operaio si condannerebbe in un puro ideologismo e propaganda sterile del "verbo".

Se non strappiamo una vittoria sull'art. 18 e se soprattutto non riusciamo a canalizzare questa nuova partecipazione in obiettivi concreti e pratiche reali, a partire dai prossimi contratti di categoria, possiamo continuare a fare i grilli parlanti ed a aspettare sull'orlo del fiume il cadavere (non solo della CGIL, il che sarebbe poca cosa) del movimento operaio, dandoci ancora una volta ragione rispetto al tradimento dei gruppi dirigenti riformisti, ma credo serva a ben poco.

L'unità del movimento operaio deve essere un obiettivo, una pratica ed una metodologia che abbia gli anarchici in prima fila.

Non una unità "a prescindere" di apparati, ma nelle proposte concrete e nelle modalità di lotta, lontane quindi da un certo settarismo e concorrenzialità di sigle che sfocia in una divisione oggettiva della battaglia politico sindacale (scioperi alternativi, piazze alternative).

L'avversario di classe sa contare molto meglio di noi.

L'adesione concreta agli scioperi è cosa differente da manifestazioni di piazza, seppur visibili e politicamente significative, se vi partecipano studenti, centri sociali e varia umanità.

Occorre mantenere saldi i contenuti rivendicativi, anche parziali, ma che hanno possibilità di creare ulteriori spazi e proporre pratiche e strutture organizzative realmente unitarie fra tutti i lavoratori.

Se si muovono milioni di persone, non attratte (hai noi!!) dal progetto comunista libertario, ma dal convincimento, tutto riformista, di salvaguardia dei propri livelli di vita e di conquiste sociali è possibile sperare in un radicamento dell'ipotesi rivoluzionaria e di una crescita dell'autonomia e coscienza di classe, altrimenti nessun radicalismo verbale di obiettivi od organizzativo può ovviare al mutamento dei rapporti di forza fra capitale e lavoro.

È stato lo spostamento, seppur centesimale, di una CGIL riformista a creare le condizioni più ottimali che noi tutti riconosciamo oggigiorno per un rilancio del conflitto di classe, non gli innumerevoli scioperi fatti su piattaforme, seppure adamantine e corrette, del sindacalismo di base.

I rivoluzionari possono avere una funzione non esclusivamente di memoria storica (ruolo comunque indispensabile e necessario) ma radicarsi il larghi settori di massa e fra le nuove generazioni solo se esiste un grande movimento riformista che alimenta una prospettiva, seppure generica o esclusivamente etica e morale, di cambiamento.

Altrimenti la strada è molto più lunga ed impervia e passa comunque nella capacità e nella crescita di un vasto movimento rivendicativo sociale e politico che può dispiacere chiamare riformista, ma che tale è.

Se questo è l'inevitabile processo che i rivoluzionari si trovano davanti e quindi se il ruolo dei gruppi dirigenti delle organizzazioni di difesa del movimento operaio non può che essere quello riformista non si capisce perché gli attuali gruppi dirigenti del sindacalismo di base, anarchici compresi, ne dovrebbero essere immuni.

A meno che non si voglia continuare a brutalizzare la storia ed a rappresentarla come una sorta di complotti, tradimenti, "pompieraggi" o cristalline testimonianze personali.

Cristiano Valente

[*] "Burocrati senza rotta. La sinistra sindacale della CGIL" di Gianni Stoppardi in Umanità Nova n. 36 2002

 



Contenuti UNa storia in edicola archivio comunicati a-links


Redazione: fat@inrete.it Web: uenne@ecn.org