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Da "Umanità Nova" n. 41 dell'8 dicembre 2002
Gli anarchici e il sindacalismo/2
Riformismo e fichi secchi
Ho letto con attenzione e interesse l'articolo di Cristiano Valente che compare
a fronte ed essendo io l'autore dell'articolo che, credo, abbia provocato il
suo intervento, non posso esimermi dal rispondere. Tanto più che ho
l'impressione di essere stato, in parte, male interpretato. Le questioni che io
ponevo, infatti, non tendevano a sminuire l'impegno dei compagni che fanno
militanza sindacale nella CGIL, ma valutarne le risultanze in rapporto alla
natura di questo sindacato. Ovviamente il discorso è su due livelli: il
primo è l'azione della cosiddetta sinistra sindacale, il secondo
è l'apporto che gli anarchici danno a questa azione. Ma la questione che
risulta essere centrale è la natura del sindacato in cui questi operano.
Valente da a ciò una risposta articolata, ma, secondo me,
sostanzialmente sbagliata. Infatti individua nella natura riformista di questa
organizzazione di massa dei lavoratori la giustificazione, se non la
necessità, dell'azione di una minoranza rivoluzionaria (come sono gli
anarchici) al suo interno.
Sul riformismo della CGIL bisogna essere chiari: è una questione che non
si pone neppure. Il riformismo (di parte politica o sindacale) appartiene agli
anni '70, alla stagione delle riforme di "struttura", di un compromesso sociale
ancora vitale, di un welfare State ancora in grado di distribuire qualcosa
più di fichi secchi, ad un'epoca nella quale le grandi mobilitazioni di
massa dell'inizio del decennio si esprimevamo ancora - seppur in forma
"dislocata" e a volte parodistica - nella generale partecipazione ad organismi
rappresentativi di varia natura (dai consigli di fabbrica a quelli di zona, di
quartiere, scolastici, ecc.). Era la stagione di una progettualità della
sinistra ufficiale (politica e sindacale) largamente condivisa a livello di
massa; era la stagione di una rappresentatività non formale delle grandi
organizzazioni politiche e sindacali della sinistra, nella quale la CGIL e i
suoi sindacati di categoria potevano legittimamente aspirare ad esprimere (in
qualche forma) gli interessi immediati di classe. Era dunque, infine, una fase
nella quale, legittimamente e forse necessariamente, le minoranze
rivoluzionarie potevano intervenire per spostare equilibri, far esplodere
contraddizioni, rompere le gabbie "istituzionali" per far riemergere
l'autonomia della classe.
Tutto questo non c'è più, la storia è fin troppo nota per
ripercorrerla se non come quadro generale: dalle sconfitte operaie degli anni
'80, all'aggravarsi dell'ormai trentennale ciclo di crisi economica mondiale,
al conseguente crollo dei regimi dell'est ed al riflettersi di questo su un
paese cerniera come il nostro. La dissoluzione del vecchio quadro politico, la
svolta della sinistra in senso neoliberista, hanno fatto sì che oggi
l'unico riformismo degno di questo nome sia la controriforma delle destre,
della deregulation, delle privatizzazioni, della aziendalizzazione dei servizi,
ecc. Il riformismo storico è morto, tale infatti non è, ad
esempio, l'indirizzo di Rifondazione Comunista, che ha nei suoi programmi
semplicemente la difesa dello status ante, il salvataggio di pezzi dello
Stato sociale, ma nessun progetto organico di trasformazione sociale, nemmeno
di stampo socialdemocratico. Sul terreno sindacale le cose non sono andate
diversamente: dal confronto tra le parti sociali si è passati al puro
livello concertativo, venato - prima dell'avvento delle destre - da forti
connotati di corporativismo. Le grandi organizzazioni di massa si sono
trasformate in gusci vuoti popolati da un funzionariato a vita, preoccupato
esclusivamente della salvaguardia del proprio posto di lavoro. L'adesione dei
lavoratori si è trasformata in una delega permanente e, successivamente,
nella pura ricerca di servizi se non di favori; gli organismi rappresentativi
eletti dai lavoratori si sono trasformati in parlamentini lottizzati dalle tre
confederazioni, funzionali alle concertazioni di basso livello.
In questo quadro generale, al volgere del decennio 80/90, è nato il
sindacalismo di base come reazione di una parte dei lavoratori all'andamento
generale. Non è questa la sede per analizzare le genesi, le
contraddizioni e i limiti, la resistibile ascesa del cosiddetto sindacalismo
autorganizzato, ci basti considerare che questa ipotesi ha raccolto i consensi
di chi ricercava nel sindacato il perseguimento dei propri interessi materiali
di lavoratore e le speranze di chi vedeva in una possibile rottura della gabbia
delle compatibilità la trascrescenza verso forme più alte di
scontro di classe (le minoranze rivoluzionarie). Una specie di ritorno alle
origini della lotta sindacale, con gli interessi dei lavoratori in primo piano,
niente di più e lasciamo pur perdere la caratterizzazione in senso
libertario che taluni hanno attribuito a queste esperienze alle origini, non
sono qui in discussione. Ma neanche qui possiamo parlare di riformismo, il
progetto, quando c'è, è il ritorno alle condizioni
d'antan, alle conquiste e i diritti che oggi la controriforma padronale
azzera, giorno dopo giorno. Siamo, sul terreno sindacale, su posizioni
assimilabili a quelle di RC sul terreno politico.
Ma torniamo alla CGIL. La sua natura di sindacato di Stato (come per CISL e
UIL) è fuori discussione. Si tratta di un enorme apparato burocratico
con funzioni para-istituzionali nel campo dei servizi alle persone (patronati,
CAF, centri di assistenza per gli stranieri), con propaggini in campo
imprenditoriale (cooperative) e finanziario (assicurazioni, gestione dei fondi
pensionistici) gestito con criteri di moderno management. E la parte sindacale
propriamente detta? Inesistente, eccezion fatta per lo stuolo di funzionari con
mansioni notarili dediti alla continua firma di accordi scandalosi. Forse
è proprio questo aspetto di azienda-apparato, ormai centrale, ad
autosostanziarsi e autoalimentarsi nelle pratiche di concertazione: per
sopravvivere il sindacato di Stato ha bisogno dello Stato, di una
interlocuzione sistematica tra il proprio alto management, l'istituzione e il
padronato (con cui in una prassi da racket si vanno a spartire i soldi dei
lavoratori) resa formale, a coprire e garantire quell'intrico di relazioni
mafiose di cui tutti dovremmo ormai aver fatto esperienza. Mi si
obietterà certamente che ci sono ancora milioni di lavoratori con le
tessere di CGIL (e soci) in tasca, potrei però obiettare che forse
più tanti ancora hanno polizze d'assicurazione di ogni tipo, santini e
amuleti nell'illusorietà di una possibile salvezza dalla rovina
economica.
Ma se questa è la CGIL, che giudizio si può dare della
"terribile" sinistra sindacale che la vuole riformare? Ho già scritto
nel precedente articolo che sui deliri giacobini-leninisti di chi presume che
l'occupazione di cariche possa agevolare una qualche sorta di presa di
coscienza di classe, se non addirittura il processo rivoluzionario, conviene
calare un velo pietoso, la storia, da parte sua, l'ha già fatto. Se
invece consideriamo le ragioni di chi presume di far cambiare rotta alla CGIL,
riportarla alle sue mitiche origini o semplicemente agli anni '70, direi che la
realtà congiura contro le loro aspirazioni, stanno remando
controcorrente in un processo di trasformazione generale nel quale la
"degenerazione" della CGIL è un tassello molto importante. Ovviamente
questo discorso si dovrebbe estendere alla forma-sindacato così come ci
è stata storicamente consegnata, ma ciò ci porterebbe troppo
lontano. Per riprendere il filo rimangono, infine, le posizioni dei compagni
che pensano di potere - con un paziente e cauto lavoro e quando se ne daranno
le condizioni - "traghettare" pezzi consistenti di working class fuori
dall'apparato confederale, verso il sindacalismo di base o verso un nuovo
sindacato di classe o verso qualche imprecisata forma organizzativa. La
risposta non può essere che: Se non ieri, quando? Le condizioni ci sono
da diversi anni, oggi ancora, domani chissà? Tanto più, e qui
siamo all'oggi, che svolte apparenti e strumentali come quella recente,
incentrata sulla difesa dell'art.18, rendono le cose più complicate.
Quali che siano le ragioni della rottura dell'unità d'azione confederale
e della discesa in campo della CGIL (ambizioni politiche di Cofferati,
desiderio di ritornare al tavolo di concertazione da posizioni di forza, spinte
politiche alla creazione di un fronte anti-Berlusconi, o altro) è
evidente che ciò non muta la natura dell'apparato, prova ne sia
l'atteggiamento tiepido del funzionariato, spina dorsale ed elemento
costitutivo della confederazione. Il problema vero è che se milioni di
lavoratori sono scesi in sciopero e in piazza, ritrovando una voglia di lottare
che sembrava schiacciata dalle batoste degli ultimi anni, qualche risposta la
dovranno pure trovare. Se, in quanto anarchici, riteniamo di attribuirci un
ruolo, se non di avanguardia o di minoranza agente, quantomeno di orientamento,
non possiamo continuare a raccontarci e a raccontare favolette sul ruolo mitico
di una grande organizzazione riformista di massa, che, semplicemente, non
esiste più. Dobbiamo invece concentrare i nostri sforzi per rompere la
gabbia della subalternità dei lavoratori all'apparato confederale,
svelandone la vera natura, denunciandolo per quello che è: un avversario
oggettivo. Non c'è dunque, credo, reazione scomposta alla "svolta" della
CGIL, ma solo legittima preoccupazione per i fraintendimenti che questa
può generare fra i lavoratori. Bisogna perciò fare estrema
chiarezza e i compagni che ancora stanno nella CGIL devono essere i primi a
farla.
Guido Barroero alias Gianni Stoppardi
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