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Da "Umanità Nova" n. 42 del 15 dicembre 2002
Lo Stato e il Campanile
Devoluzione, federalismo, autonomia
Come più di un osservatore ha giustamente notato, nel corso dell'ultimo
decennio tutto, o quasi, lo schieramento politico istituzionale è
diventato "federalista" esattamente come, già prima, è diventato
ecologista, apologeta della "società civile" e neoliberale.
È assolutamente evidente che un'adesione così unanime ad una
posizione politica risponde sia ad un adattamento opportunista, in senso
neutro, alle dinamiche sociali ed istituzionali dominanti che allo svuotamento
di senso della lotta politica istituzionale ed alla tendenza
all'omogeneizzazione dei diversi schieramenti istituzionali.
Ricordo ancora con divertimento come, anni addietro, l'onorevole Fausto
Bertinotti, nel corso di una trasmissione televisiva, abbia dichiarato di
non essere federalista ad un giornalista che continuava, dopo la
dichiarazione, a chiedergli cosa pensasse in quanto federalista tanto
una dichiarazione del genere sembrava, con ogni evidenza, implausibile. Che
l'onorevole Bertinotti non sia federalista è assolutamente vero in
considerazione delle radici giacobine della formazione politica sua e di quella
del suo partito, che abbia ritenuto di dichiararlo può essere
interpretato come una scelta di "occupare uno spazio" o come una prova di
coerenza politica, poco conta.
Visto che noi, e non da oggi, siamo, invece, federalisti convinti può
valere la pena di ragionare sul "federalismo" che oggi ci è proposto sia
per quanto riguarda i suoi specifici caratteri sociali sia in relazione alle
implicazioni che ha dal punto di vista del modificarsi della macchina
statale.
È bene fare una breve premessa al fine di evitare equivoci. Com'è
noto, carattere proprio e specifico dello stato non è la gestione
diretta di questa o quella attività (ferrovie, autostrade, sali e
tabacchi ecc.) ma, per usare una suggestiva metafora, la toga, la spada e la
bandiera o, se si preferisce, il monopolio della violenza su di un dato
territorio e rispetto ad una data popolazione.
In buona sostanza, uno stato è tale se produce un sistema di leggi e
riesce, bene o male, a farle applicare, se ha una forza militare e poliziesca,
se ha una, maggiore o minore, autonomia politica.
Da questo punto di vista, lo stato italiano è già e non da oggi,
mi si passi la citazione leniniana, un semistato visto che la sua politica
estera è, nell'essenziale, determinata dal grande fratello statunitense
e che ha ceduto parte delle sue attribuzioni all'Europa ma certo non lo
è nel senso del deperimento quanto in quello della collocazione in una
rete più complessa, rispetto al passato, di poteri statali.
Lo stesso assetto centralista o federalista della macchina statale non ha, di
conseguenza, nulla a che vedere con il tasso di "statalismo" di una
società esattamente come la quota d'intervento statale nella diretta
gestione dell'economia risponde ad esigenze dei gruppi dominanti che, in ogni
caso, dello stato né vogliono né possono fare a meno.
A rigore, lo stato centrale, può meglio funzionare nelle sue funzioni di
controllo generale, laddove le élite dominanti lo valutino opportuno,
proprio delegando parte delle sue funzioni ad unità amministrative
minori o a privati.
L'attuale scelta della destra di forzare in senso federalista può essere
spiegata a vari livelli. Proviamo a schematizzare:
- Vi è un accordo fra Polo e Lega che il Polo deve onorare pena il
rischio di perdere l'alleato leghista e di essere ricattabile ad opera dei
neodemocristiani dell'UDC. La Lega, d'altro canto, deve portare a casa qualche
risultato, reale o simbolico, meglio se entrambi, pena la fine politica e la
devoluzione è la sua linea del Piave. Paradossalmente, la Lega
può accettare, in cambio della devoluzione, il presidenzialismo, il
rafforzamento dello stato centrale, il taglio delle risorse per le regioni ma
la devoluzione deve averla.
- D'altro canto, la Lega ha un alleato vero nella destra nordista incarnata da
Formigoni in Lombardia e da Galan nel Veneto. I polisti del nord est, non a
caso la destra piemontese è più fredda da questo punto di vista,
vedono nella devoluzione un'occasione reale di spostamento di risorse e poteri
(scuola, sanità, sicurezza ecc.) verso aree ricche che ritengono abbiano
tutto da guadagnare da una risistemazione del genere della struttura statale.
- Basta pensare al fatto che dietro Roberto Formigoni c'è la Compagnia
delle Opere per comprendere meglio la dinamica in atto. Se, infatti,
intrecciamo devoluzione e sussidiarietà comprendiamo meglio il quadro.
Una regione con maggiori poteri sui settori tradizionalmente interessanti per
la chiesa cattolica potrà appaltare parti dell'assistenza pubblica e
della formazione alle potenti organizzazioni della destra sociale cattolica
realizzando una sorta di quadratura del cerchio: esternalizzazione di funzioni
tradizionalmente statali non verso, o non solo verso, un mercato anonimo e
crudele ma verso la "società civile" organizzata dall'associazionismo
cattolico.
- La stessa sinistra istituzionale, fatte le sue dovute battaglie in difesa
dell'unità nazionale e della solidarietà sociale, non
potrà che adattarsi alla deriva dominante, e a adattarsi è bene
allenata, con la Lega delle Cooperative in virtuosa concorrenza con la
Compagnia delle Opere. È, insomma, ragionevole supporre che non tutta la
sinistra toscana ed emiliana abbia la ripugnanza che pubblicamente viene
esibita per l'attuale riforma. D'altro canto, l'attuale riforma federalista
rafforza ma non stravolge quella della sinistra che andava nella stessa
direzione anche se vincolava le regioni più di quanto faccia la riforma
della destra.
- La destra "centralista", incarnata da AN più che da Forza Italia, si
sta mostrando, tutto sommato, meno temibile, dal punto di vista dei
"federalisti", di quanto si potesse immaginare. Per un verso, infatti, il
presidenzialismo, il controllo dei corpi di polizia, la creazione di un
esercito professionale garantiscono toga, spada e bandiera, per l'altro, AN si
candida, per il futuro, ad un ruolo di Lega Sud in concorrenza con l'UDC e dopo
il possibile sfarinamento di una Forza Italia orba del suo conducator assurto,
almeno questo è il loro obiettivo, all'onore del Quirinale.
La sinistra istituzionale sta conducendo, contro la devoluzione, una polemica
molto vivace. Gli argomenti che solleva sono, a quanto mi è dato di
sapere, due:
- Una grave preoccupazione per le sorti dell'unità nazionale che
verrebbe messa a grave repentaglio in presenza di un potere di intervento delle
regioni su materie rilevanti come la sanità, l'istruzione, la sicurezza.
Saremmo di fronte ad una sinistra dalle saldi radici risorgimentali a fronte di
una destra sostanzialmente antinazionale. Il carattere, peraltro, risibile di
questo argomento è dimostrato, ad abundantiam, dallo spalmarsi del
governo della sinistra sulla posizione statunitense in occasione della guerra
contro la Serbia. La rachitica classe dirigente italiana di tutto è
sospettabile tranne che di reali attitudini "nazionaliste".
- Un timore, altrettanto grave, per la crisi della solidarietà sociale
che l'egoismo localistico scatenerebbe se ogni regione potesse decidere per
conto proprio. Anche a questo proposito si potrebbe rilevare che lo
smantellamento del sistema delle garanzie sociali che ha realizzato la sinistra
quando è stata al governo non depone a favore della coerenza delle sue
posizioni ma alcune considerazioni aggiuntive meritano di essere fatte.
Sul piano immediato, il ceto politico è attraversato da divisioni
"trasversali" che potrebbero determinare qualche seria difficoltà alla
legge sulla devoluzione quando arriverà alla Camera. Le regioni "deboli"
del nord e del sud o, meglio, il ceto politico che le rappresenta temono un
taglio secco delle risorse. Basta ricordare che il polista Piemonte,
attanagliato dalla crisi dell'auto, è meno entusiasta del Veneto e della
Lombardia rispetto alla devoluzione e che molta parte del ceto politico sudista
rappresentato in particolare, ma non solo, dall'UDC deve ancora giocare tutte
le sue carte.
Da un punto di vista più generale, ritengo sia abbastanza evidente che
il capitalismo realmente esistente ha due necessità in, problematica,
dialettica fra di loro:
- quella di garantirsi le condizioni più favorevoli ai profitti e il
massimo potere possibile sulla forza lavoro e sull'ambiente sociale che
circonda l'impresa, vero cuore del capitalismo reale;
- quella di garantire la massima stabilità possibile ed una qualche
forma di compromesso sociale.
La seconda funzione è svolta non solo ma principalmente dallo "stato
sociale" che garantisce la tenuta di un tessuto di relazioni che, se affidate
al solo cambio mercantile, andrebbero in fibrillazione.
La crisi dello stato sociale è materia ben conosciuta: costi eccessivi,
rigidità ed inefficienza, disfunzionalità rispetto agli interessi
delle imprese. Per di più l'immenso patrimonio dello stato è un
vero è proprio territorio sociale da colonizzare e la sua parziale
privatizzazione rappresenta una straordinaria occasione per rilanciare il
profitto scaricandone i costi sulla collettività. Non a caso si è
parlato, per descrivere le privatizzazioni, di un vero e proprio nuovo regime
delle recinzioni, di un ripetersi dell'atto fondativo del capitalismo e
cioè del saccheggio della ricchezza collettiva.
Il federalismo attuale è, in questo schema, un interessante meccanismo
per gestire in maniera articolata lo smantellamento del welfare e, nello stesso
tempo, per ridare vigore allo stato che si riarticola su livelli locali,
nazionali e sopranazionali in problematico rapporto fra di loro.
Non a caso, uno dei temi sollevati dai fautori del federalismo è quello
della necessità di garantire meglio la sicurezza dei cittadini e di
avvicinare le istituzioni al territorio.
In altri termini, l'autorità politica, sempre più svuotata dal
ruolo delle tecnostrutture internazionali, cerca di rifondarsi in un più
stretto rapporto con il territorio e con la capacità di dare
rappresentanza agli interessi forti che caratterizzano i singoli territori
stessi. Da ciò l'accento posto sulle culture locali,
sull'identità, sulla comunità locale.
Indubbiamente, quindi, uno degli obiettivi dei "federalisti" è quello di
segmentare il conflitto di classe e la classe stessa ancor più di quanto
è sinora avvenuto.
D'altro canto, l'unità di classe che, per chi lo avesse dimenticato, non
può essere nazionale ma o è internazionale o non è, non
può certo, almeno prospettiva, essere affidata alla macchina statale,
centrale o locale che sia, non foss'altro che perché il fine primo della
macchina statale è produrre passività, integrazione e
atomizzazione delle classi subalterne.
In estrema sintesi, insomma, la dialettica fra centralisti e federalisti ci
riguarda certamente perché, ci piaccia o meno, le decisioni statali ci
riguardano ma la questione va affrontata ponendola sull'unico terreno che abbia
senso e cioè sul quello della critica puntuale della statalizzazione
della società, per un verso, e dello sviluppo di una solidarietà
nelle lotte al di là dei localismi, per l'altro.
Cosimo Scarinzi
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